Collegati con noi

Spettacoli

Philippe Leroy, un gentiluomo prestato al cinema

Pubblicato

del

Con Philippe Leroy, morto stasera a Roma, se ne va una leggenda, un autentico personaggio oltre il cinema nonostante le quasi 200 apparizioni tra film e sceneggiati da “Il buco” di Jacques Becker (1960) fino agli ultimi successi come Vescovo di Terence Hill nella fiction “Don Matteo” e all’ultimo congedo sul grande schermo con “La notte è piccola per noi” di Francesco Lazotti nel 2019. Nato a Parigi il 15 ottobre del 1930 come Philippe Leroy-Beaulieu, erede di una famiglia aristocratica con sei generazioni di soldati e ambasciatori alle spalle, sdegnoso del suo titolo di marchese, va a scuola dai gesuiti, a soli 17 anni si imbarca come mozzo su una nave per l’America come un personaggio di Joseph Conrad.

Infatti, una volta rientrato in patria finisce nella Legione Straniera e va a combattere in Indocina ed Algeria, arruolato come paracadutista anche se non si butterà mai da un aereo fino a dopo i 50 anni. Torna dall’Algeria con il grado di capitano e le medaglie sul petto (due legion d’onore e una croce al valore), ma ben presto capisce che è meglio trovarsi un lavoro, foss’anche al circo (lavorava coi cavalli) o pilota di bob o navigatore sulle barche off-shore. Un parente lo aiuta a assaggiare l’aria del cinema e Jacques Becker – colpito dal suo fisico asciutto, l’aria di chi ha visto il pericolo da vicino e conosce le armi – lo arruola nel cast del suo carcerario film che gli regala un inatteso successo mondiale.

L’aria in Francia però è pesante alla vigilia dell’indipendenza d’Algeria e Leroy, passati da poco i 30 anni, capisce che per lui è meglio non restare. Grazie al clima favorevole delle coproduzioni cinematografiche tra Italia e Francia passa la frontiera e sfrutta le poche conoscenze accumulate a Parigi per ottenere qualche ruolo come attore. Lo aiutano Vittorio Caprioli e Franca Valeri che ha incontrato in teatro ed è Caprioli a offrirgli un ruolo ne “Leoni al sole” (1961) sfruttando la sua seconda dote: maniere perfette, portamento aristocratico, aria naturale da gentiluomo. Per entrambi è una sorta di debutto, ma il giovane francese ha molte frecce al suo arco e viene “adottato” a Cinecittà. “Da quel momento in poi – ha raccontato – il cinema francese mi ha dimenticato, ma in compenso sono stato adottato da quello italiano che mi ha trattato come un figlio. Però non ho mai fatto veramente parte del vostro cinema, mi sono sempre sentito un dilettante, nonostante una quantità di ruoli e tante esperienze con i maestri migliori”.

Dall’avventuroso Riccardo Freda all’impegnato Giancarlo De Bosio, dall’amico Gianni Puccini (quasi un pigmalione) al popolare Luigi Zampa, trova sempre un ruolo adatto, spesso come “villain” crudele e freddo. Poi il colpo di fortuna nel 1965 con “Sette uomini d’oro” di Marco Vicario. Nel ruolo del cervello di una banda di rapinatori, a fianco della bellissima Rossana Podestà e di Gastone Moschin, fa del film il campione d’incassi dell’anno che frutterà anche un sequel. Diventa il suo passaporto per un mestiere che non gli assomiglia ma che lo renderà invece una figura doppia e ricorrente nel cinema italiano: gentiluomo raffinato da una parte, antagonista spietato e crudele dall’altro. Altra cosa sarà per lui la televisione, strumento di consenso popolare che gli offre nel 1971 la seconda svolta nella carriera: lo convoca Renato Castellani e gli cuce addosso i panni di Leonardo da Vinci nello sceneggiato omonimo.

Il suo temperamento si ricongiunse alla fine, 5 anni dopo, con la professione: nei panni del flemmatico portoghese Yanes de Gomera nel “Sandokan” di Sergio Sollima divenne una vera star e scolpì un’incarnazione salgariana indimenticabile, amata da 30 milioni di spettatori a puntata. Benché si fosse misurato con il teatro, benché avesse recitato anche per Godard, Comencini, Luigi Magni, Jacques Deray, Dario Argento, Luc Besson, benché avesse vestito da protagonista i panni di preti (Ignazio de Loyola in “State buoni se potete”), ufficiali (“R.A.S.” di Yves Boisset), ex-nazisti (“Portiere di notte” di Liliana Cavani), fu proprio la tv a offrirgli i ruoli migliori.

Giusto ricordarlo almeno in “Quo vadis?”, “Il generale”, “Elisa di Rivombrosa”,”L’ispettore Coliandro” e perfino “I Cesaroni”. Ma la sua vera vita era sempre più spesso fuori dal set: passati i 50 abbraccia finalmente la passione per il paracadutismo e verrà ricordato per gli oltre 2000 lanci fin dopo gli 80 anni. Ancora nel 2011 fece l’osservatore in Afghanistan nel contingente italiano: “Parà fra i parà” come ricordava con divertito orgoglio. Altrimenti stava volentieri a casa, scrivendo poesie, dipingendo, disegnando i suoi mobili. “Ho costruito con le mie mani cinque case. Nell’ultima – ricordava a 90 anni – un borgo incantato sulla via Cassia in cui ho vissuto con mia moglie Silvia (figlia di Enzo Tortora, madre di due figli amatissimi, scomparsa nel 2022) e con la mia famiglia, non c’è un pezzo di plastica, ma tutti mobili e oggetti in legno che ho lavorato, pezzo a pezzo. Come la mia vita…”. Con lui se ne va il protagonista austero e ironico di una stagione del cinema e della storia. Philippe Leroy era un mito con la sua voce roca e sorniona, il fisico scolpito come un ulivo antico, il distacco elegante con cui raccontava la sua vita da eroe conradiano.

Advertisement

Cinema

Cristina Comencini: il cinema delle donne è una nuova ricchezza. Io dalla parte delle donne sempre

Cristina Comencini racconta al Corriere della Sera il successo de “Il treno dei bambini”, la sua visione sul cinema delle donne, la politica e il suo nuovo amore.

Pubblicato

del

Cristina Comencini (le foto sono di Imagoeconomica), con il suo ultimo film “Il treno dei bambini” tratto dal romanzo di Viola Ardone e disponibile su Netflix, ha raggiunto quasi trenta milioni di visualizzazioni. «Mi sembra incredibile», racconta, «ma credo che il tema profondo del dopoguerra, del trauma che la guerra lascia sui sentimenti, abbia colpito il pubblico di tutto il mondo».

Il cinema tra piattaforme e sale

«Portare la gente in sala è bellissimo, ma difficile. Le piattaforme e il cinema possono coesistere. L’importante è, come diceva mio padre Luigi Comencini, mantenere sempre la massima verità e bellezza in quello che si crea», afferma Cristina, riflettendo sulla trasformazione del mondo cinematografico.

Il successo e la nuova generazione di registe

Comencini riconosce l’importanza del successo ma non lo vive come un punto di arrivo: «È un mestiere da montagne russe». È felice dell’affermazione di tante donne nel cinema italiano, come Paola Cortellesi, sottolineando: «Il cinema si è finalmente aperto alle storie delle donne, arricchendosi di nuove prospettive».

Il rapporto con la famiglia e il film di Francesca Comencini

Cristina racconta il forte legame con le sorelle e commenta il film di Francesca Comencini su loro padre Luigi: «Una scelta giusta. Ognuno vive un padre a modo suo». Nessuna gelosia, ma un affetto profondo che ha sempre unito la famiglia.

CRISTINA COMENCINI REGISTA

Politica, femminismo e il ruolo di Giorgia Meloni

Comencini ribadisce la sua radice di sinistra e il suo impegno per il femminismo: «Il sostegno reciproco tra donne non deve mai venir meno». Sul premier Giorgia Meloni, pur nella distanza politica, riconosce: «Per la sua parte politica sta facendo bene».

I cambiamenti nell’estetica e il coraggio delle attrici

Parlando di Giovanna Mezzogiorno, Cristina denuncia il problema della discriminazione estetica nel cinema: «Finalmente si inizia a dare meno peso all’apparenza e più al talento».

La maternità precoce e l’amore ritrovato

Diventata madre a 18 anni, Cristina confida di non aver rimpianti: «Mi ha dato la ricchezza di tutto ciò che ho scritto». Oggi vive una nuova fase felice della sua vita con il documentarista francese François Caillat, tra Roma e Parigi.

Il futuro: un nuovo romanzo in arrivo

Cristina annuncia anche il suo prossimo romanzo, “L’epoca felice”, che uscirà a ottobre per Feltrinelli: «Parlerà dell’adolescenza e della capacità della vita di sorprenderci anche quando meno ce lo aspettiamo».

 

Continua a leggere

Spettacoli

Gwyneth Paltrow è stanca della dieta, ‘ora mangio pane e pasta’

Pubblicato

del

Gwyneth Paltrow ha affermato di essere tornata a mangiare cibi che in precedenza aveva eliminato dalla sua rigidissima dieta, tra cui pane, pasta e formaggio. Lo riporta la Bbc. L’attrice premio Oscar, diventata negli anni una guru del salutismo ha seguito e promosso diversi regimi alimentari negli anni. “Ho seguito per un certo periodo una dieta macrobiotica ferrea e così sono diventata ossessionata da un’alimentazione molto, molto sana”, ha detto nell’ultima puntata del suo podcast spiegando di essersi dedicata al “benessere e al cibo” a causa del cancro alla gola che ha ucciso il padre. Poi lei e il secondo marito, Brad Falchuk, hanno iniziato a seguire la dieta paleo, basata sul principio che ci si debba nutrire “come i nostri antenati”. Di recente però, Paltrow ha ricominciato a mangiare “pane a lievitazione naturale e un po’ di formaggio e un po’ di pasta”.

Continua a leggere

Musica

Rocco Hunt, il ragazzo di giù diventa grande: “Ho 30 anni e ancora la rabbia del Sud”

Esce l’album Ragazzo di giù: tra neomelodico, rap e introspezione, la maturità artistica di un figlio del Sud.

Pubblicato

del

A 30 anni, Rocco Hunt ha già alle spalle 15 anni di carriera, una vittoria a Sanremo, hit estive, strofe militanti e un’identità artistica sempre più nitida. Ma oggi, con il nuovo album Ragazzo di giù, in uscita venerdì, Rocco — per molti ancora affettuosamente “Rocchino” — completa un percorso che lo conferma maturo, consapevole e profondamente legato alle sue radici.

“Sono fortunato, canto chi non lo è stato”

Il brano che dà il titolo al disco è un manifesto identitario.
“Io sono il ragazzo di giù fortunato”, spiega Rocco, “quelli che canto sono stati meno fortunati, magari non hanno dovuto lasciare casa, ma hanno pagato altri prezzi”. La nostalgia per la sua terra non è solo geografica, è memoria viva di un mondo che spesso si perde tra le distanze culturali.

Tra disagio e riscatto: “A Nord si perdono i valori”

“Oggi Napoli fa figo, ma vivere al Nord è diverso”, dice. Il successo, per lui, ha un prezzo. “Contano i numeri, non i valori”, afferma, parlando anche del figlio Giovanni, 8 anni, cresciuto tra Milano e Napoli: “Ha un accento diverso, ma deve sapere da dove viene, imparare l’inglese e la cazzimma partenopea”.

Il dialetto come identità: “È mamma, papà e biberòn”

Per Rocco il dialetto non è solo stile, ma lingua del cuore:
“È la strada dove sei cresciuto, la voce dei tuoi nonni, il suono dell’anima”. E anche se ha girato l’Italia e il mondo, resta anima di Scampia, del Sud e dei suoi contrasti.

Il rap, il neomelò, e il coraggio delle parole

Ragazzo di giù è un album eterogeneo, che passa da Gigi D’Alessio a Massimo Pericolo, da Irama a Baby Gang, mischiando il rap con la melodia napoletana e l’attualità più bruciante. In Demone santo, per esempio, denuncia con rabbia il crollo del ballatoio della Vela di Scampia:
“Quelle creature sono vittime dello Stato. A che serve il tricolore sulle bare bianche, se Cristo in quelle case non ci entra?”

Sanremo, De Filippo e il mare della costiera

Nel disco anche introspezione e memoria, con brani come ‘A notte, ispirato a Eduardo De Filippo, e Domani chissà, dove Rocco rievoca lo scugnizzo che si tuffava a bomba nel mare della costiera. E non manca un pensiero al futuro:
“Vorrei un secondo figlio”, dice, ma con il timore delle malattie, dei sacrifici, della fragilità.

Il tour: dal Molise a Milano, passando per la Reggia

Il tour estivo partirà il 20 giugno da Campobasso, con gran finale l’11 settembre alla Reggia di Caserta e il 6 ottobre all’Unipol Forum di Milano.
“Senza le mie radici non sarei quello che sono”, conclude Rocco.
E quando gli chiedono se oggi è ancora “‘nu juorno buono”, risponde senza esitazioni:
“Sì. Ma è sempre più difficile non vedere le nuvole all’orizzonte”.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto