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Cronache

Omicidio Vannini, la Cassazione ordina un nuovo processo

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Un lungo applauso ha accolto la decisione della Cassazione di riaprire il processo d’appello per l’omicidio di Marco Vannini, il giovane di 20 anni ucciso a Ladispoli, sul litorale romano, mentre era a casa della sua fidanzata Martina, la notte tra il 17 e il 18 maggio 2015, dopo essere stato colpito da uno sparo di pistola dal padre della ragazza, Antonio Ciontoli, sottufficiale della Marina militare distaccato ai servizi segreti, e lasciato agonizzante tra atroci sofferenze per 110 lunghissimi minuti prima che venissero chiamati i soccorsi. Ciontoli aveva paura di perdere il lavoro se si fosse saputo che era stato lui a sparare. Gli ‘ermellini’ hanno cosi’ dato ragione al ricorso dei familiari di Marco – rappresentati dal professor Franco Coppi – e del Pg della Corte di Assise di Appello di Roma, Vincenzo Savariano, contro la riduzione della pena per Ciontoli a soli cinque anni di reclusione rispetto ai 14 ricevuti in primo grado. L’accusa di omicidio volontario, suscitando molte polemiche, era stata infatti riqualificata in quella ben piu’ leggera di omicidio colposo dal verdetto emesso il 29 gennaio 2019 in secondo grado. Per gli altri familiari di Ciontoli – la moglie Maria Pezzillo e i figli Martina e Federico – la condanna e’ sempre stata di 3 anni di reclusione per lo stesso reato. “Avevo perso la fiducia, ma questa sera posso dire che la giustizia esiste e vado a testa alta, non si molla, e Marco avra’ giustizia. La verita’ non la sapremo mai ma ringrazio tutte le persone che ci sono state vicine”, ha detto Marina Conte, la mamma di Marco, dopo la lettura della sentenza, mentre usciva dalla Cassazione circondata da telecamere, parenti e amici, il marito Valerio accanto. Insieme a ‘madre coraggio’ molti dei concittadini di Ladispoli, sempre vicini a questa famiglia cosi’ provata: erano raccolti sul piazzale pedonale antistante la Cassazione, dietro allo striscione con la foto di Marco, bello e sorridente, e la scritta “Non in mio nome. Giustizia per Marco”. Per tutto il giorno hanno dato battaglia anche loro, mentre era in corso l’udienza, con sit in e flash mob. Nella sua requisitoria, il Sostituto procuratore della Cassazione Elisabetta Ceniccola aveva definito la vicenda, le cui circostanze non sono tutte chiare, “gravissima e disumana”. “Marco Vannini non e’ morto per un colpo di arma da fuoco, ma e’ morto per un ritardo di 110 minuti nei soccorsi” che a lungo non sono stati chiamati dai Ciontoli, i quali hanno “anche rimandato indietro una prima ambulanza”, ha sottolineato il Pg. “Per ben 110 minuti hanno mantenuto una condotta reticente e omissiva parlando al telefono con gli operatori del soccorso senza dire nulla dello sparo”, ha proseguito Ceniccola, ricordando che fino alla fine Antonio Ciontoli ha cercato di tenere nascosto che Marco era stato colpito da una pallottola, rimasta conficcata nei muscoli del petto, cercando anche di “corrompere” il medico del pronto soccorso, dottor Matera, affinche’ “non parlasse nel referto del colpo di pistola”. “Tutta la famiglia Ciontoli era in condizioni di capire che cosa stava provocando quel proiettile nel corpo di Marco”, ha insistito il Pg. “Ciontoli ha seguito passo per passo l’agonia di Marco Vannini, pensando solo a salvare il suo posto di lavoro. La morte del ragazzo avrebbe portato via l’unico testimone di quello che e’ successo nell’abitazione di Ladispoli”, ha messo in evidenza Coppi nella sua arringa, parlando dei ritardi nei soccorsi, chiedendo la riapertura del processo e condanne piu’ severe. “E’ stato colpito da un’arma micidiale, lo sparo gli ha trapassato cuore, polmone, e una costola, e si e’ fermato sotto i muscoli del torace. Il cuore di Marco ha continuato a pompare sangue fino alla fine, tanto che l’autopsia ha rilevato una emorragia interna di sei litri di sangue: si sarebbe salvato se lo avessero soccorso, come ha riconosciuto con onesta’ lo stesso consulente della difesa”, ha detto Coppi. “Marco lanciava urla disumane per il dolore, hanno detto i vicini e una infermiera, sveniva e riapriva gli occhi: impossibile – ha concluso l’avvocato – che i Ciontoli non si fossero accorti della gravita’ delle sue condizioni!”. Ora per tutti e quattro gli imputati torna lo spettro dell’accusa di omicidio volontario.

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Cronache

Carmela Quaranta, strangolata in casa la sera di Pasqua: indagato il compagno per omicidio volontario

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È stata un’amica preoccupata, che non riusciva a contattarla da ore, a dare l’allarme: Carmela Quaranta, 42 anni, operatrice sanitaria e madre di due figlie, è stata trovata senza vita sul pavimento della sua camera da letto, la sera di Pasqua, nella sua abitazione di via Trieste a Mercato San Severino, piccolo centro in provincia di Salerno.

I primi sospetti e il cambio di accusa

Inizialmente si era ipotizzato un malore o un’overdose, ipotesi che aveva portato a una prima contestazione al compagno, un uomo di 56 anni, per morte come conseguenza di altro reato. Ma un esame più attento del medico legale ha svelato segni di strangolamento sul collo della vittima, e questo ha portato alla modifica dell’imputazione: ora l’uomo è indagato per omicidio volontario, furto (il cellulare di Carmela è scomparso) e detenzione di stupefacenti (sono stati trovati alcuni grammi di droga in casa).

Le indagini e i sospetti

L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Nocera Inferiore. I carabinieri del Ris stanno passando al setaccio l’abitazione, palmo a palmo, per raccogliere tracce, impronte, elementi biologici e ogni dettaglio utile a chiarire cosa sia accaduto nelle ultime ore di vita di Carmela. Una seconda ispezione tecnica dell’abitazione è prevista per domani.

Il cerchio degli investigatori si è stretto attorno alle persone più vicine alla donna: l’ex marito e il compagno, con cui aveva una relazione da circa un anno, sono stati entrambi interrogati. Le risposte fornite e le discrepanze negli alibihanno portato gli inquirenti ad approfondire in particolare la posizione del 56enne.

Il profilo della vittima

Carmela viene descritta da amici e conoscenti come una donna solare, legatissima alle sue figlie, piena di energia e voglia di vivere. Lavorava in più ambiti, collaborava con un’azienda del settore nutrizionale, la stessa in cui operava anche il compagno indagato.

All’inizio la relazione sembrava felice: nel giugno 2024 Carmela aveva pubblicato una foto con lui sui social. Ma col passare dei mesi, i rapporti si erano incrinati. In particolare, un post pubblicato da lui a febbraio — una frase volgare accompagnata da un teschio e tibie incrociate — oggi assume una luce inquietante.

La ricerca della verità

Carmela si era trasferita da poco a Mercato San Severino, dopo aver vissuto a lungo a Nocera Inferiore. Domani, nella sua casa, torneranno ancora una volta i carabinieri del Ris di Roma. Gli investigatori lavorano per ricostruire le ultime ore di Carmela, cercando riscontri oggettivi che possano dare una svolta al caso. Il mistero della mamma trovata senza vita nel giorno di Pasqua attende ancora risposte.

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Misterbianco, madre lancia la figlia dal terrazzo: arrestata per omicidio aggravato

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Una tragedia sconvolgente ha colpito la comunità di Misterbianco, nell’hinterland di Catania. Anna (nome di fantasia), 40 anni, ha lanciato nel vuoto la figlia di appena sette mesi, Maria Rosa, dal terzo piano della palazzina in cui viveva con la famiglia. La bimba è morta sul colpo, sotto gli occhi disperati del padre, che ha tentato il suicidio subito dopo aver visto la scena.

Una madre fragile, ma mai violenta

Secondo i familiari, Anna era affetta da una profonda depressione post-parto. Dopo la nascita di Maria Rosa, non era mai riuscita ad accettarla, a differenza del primogenito di 7 anni, verso cui nutriva un legame totalizzante. Eppure, nonostante l’evidente disagio psicologico, non era mai stata violenta con la piccola.

Una tragedia inaspettata

Al momento del gesto, in casa erano presenti il marito, la suocera e il figlio maggiore. Nessuno, raccontano, si aspettava una simile esplosione di follia. «A volte era nervosa, ma mai avremmo immaginato che potesse fare una cosa simile», ha dichiarato una cugina. Anche il sindaco di Misterbianco, Marco Corsaro, ha espresso sgomento: «Siamo senza parole. Il compagno è una persona perbene, le è sempre stato accanto».

Il tentativo di suicidio del padre e l’arresto della donna

Dopo aver assistito alla caduta della figlia, l’uomo si è lanciato dalla stessa terrazza nel tentativo di togliersi la vita. Trasportato in ospedale in stato di choc, è ora ricoverato ma fuori pericolo. La donna è stata arrestata dai carabinieridella Tenenza di Misterbianco con l’accusa di omicidio aggravato.

Le fragilità psichiche e il vuoto della prevenzione

Anna era sotto amministrazione di sostegno, decisione presa dal Tribunale di Catania, ed era seguita dai servizi di salute mentale dell’Asp etnea. In passato era stata sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio. Tre mesi fa aveva partecipato a un’udienza davanti al giudice, accompagnata da un legale amico di famiglia. Aveva risposto “in modo impeccabile”, riuscendo a nascondere lo stato di alterazione, tanto che nessun provvedimento fu adottato.

Il padre della donna, un medico molto noto che vive fuori dalla Sicilia, era stato nominato come amministratore di sostegno. Tuttavia, nessuno tra i familiari aveva percepito segnali chiari del crollo psichico in corso. Per precauzione, la suocera si era trasferita in casa per stare vicino alla nuora e ai nipotini.

Una comunità sotto choc

La morte della piccola Maria Rosa ha lasciato sgomenta un’intera comunità. Le indagini proseguono per ricostruire ogni dettaglio e chiarire le responsabilità della rete di supporto. In attesa dell’esito degli esami e delle valutazioni psichiatriche, resta il dolore immenso per una vita spezzata e il peso di domande a cui, forse, sarà difficile dare risposte.

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Oppido Mamertina, denuncia gli stupri subiti da minorenne: la zia la frusta per mesi. Arrestata

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Ha trovato il coraggio di denunciare le violenze sessuali di gruppo subite quando era ancora minorenne, indicando i suoi aggressori: giovani legati alle cosche di Seminara, in provincia di Reggio Calabria. Ma la scelta di rompere il silenzio ha scatenato contro di lei la rabbia della sua stessa famiglia.

Una giovane di Oppido Mamertina, oggi maggiorenne, è stata punita con frustate per mesi dalla zia 78enne, ora agli arresti domiciliari su disposizione del gip del Tribunale di Palmi. La donna l’ha segregata in una stanza, tappandole la bocca con un foulard per impedirle di urlare, e l’ha colpita con una corda, come forma di “punizione” per aver denunciato.

La denuncia “inimica” la ’ndrangheta

Dalle intercettazioni ambientali emerge che la zia avrebbe voluto punirla perché la sua testimonianza aveva compromesso i rapporti con le famiglie di ’ndrangheta del territorio. La Procura aveva chiesto anche l’arresto del cugino 47enne, figlio dell’anziana, ma il giudice ha disposto solo il divieto di avvicinamento.

Sei condanne e un nuovo processo

La ragazza è una delle due minorenni abusate dal branco. A marzo scorso, sei dei responsabili sono stati condannati a pene comprese tra 5 e 13 anni. Un secondo processo per altri imputati, all’epoca minorenni, inizierà il 15 maggio davanti al Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria.

I tentativi di zittirla: psichiatra compiacente e istigazione al suicidio

Dopo la denuncia, la famiglia ha fatto di tutto per farla ritrattare. Avevano persino fissato un incontro con uno psichiatra per farla dichiarare incapace. Due suoi fratelli, oggi in carcere, l’avevano addirittura spinta, insieme alla madre che la difendeva, a buttarsi dalla finestra per “lavare la vergogna” inflitta alla famiglia.

La verità emersa dalle intercettazioni

Le indagini sono partite per caso, grazie a intercettazioni telefoniche legate ad altri reati commessi dagli stessi aggressori. La prima vittima identificata aveva denunciato, dando forza e ispirazione anche alla seconda ragazza, che oggi lotta non solo contro i suoi aggressori, ma anche contro chi avrebbe dovuto proteggerla.

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