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Odorometro, Google ci farà sentire anche i profumi attraverso il cyberspazio

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Dopo aver annunciato di utilizzare lo “spazio bianco” per trasmettere il web sui segnali TV a bassa frequenza, ora Google sta

Odorometro. Google ci farà sentire i profumi attraverso il web

rebbe lavorando con i suoi scienziati a un altro innovativo utilizzo dello spettro televisivo. Di che cosa si tratta. Google vuole consentire agli internauti non solo di percepire l’odore dei prodotti pubblicizzati attraverso un device appositamente studiato, ma anche di scandagliare il cyber spazio grazie a un algoritmo molecolare in grado di indicizzare tutti gli odori esistenti. In pratica vedremo la réclame del profumo e se vogliamo, attraverso questo strumento, chiamiamolo odorometro, che Google conta di sperimentare presto prima di metterlo sul mercato, ne annuseremo consistenza, fragranza o peggio, il lezzo se non ci piace. È evidente che potrà servire a sentire ogni profumo.  La traccia olfattiva potrebbe diventare la base per un nuovo modello di identificazione su larga scala e rivoluzionerebbe anche il mondo della sicurezza, oltre ad avere un impatto dirompente sul mondo del web advertising. Ve l’immaginate la pubblicità futura? Ci mostreranno il prodotto e ci diranno: sentite il profumo. Noi sentiremo il profumo del prodotto da comprare mentre Google sente il profumo dei soldi che arriveranno con questa scoperta sensazionale.

Il progetto è ovviamente top secret. È un progetto sviluppato dal centro di ricerca e sviluppo di Zurigo grazie a una task force di dieci ingegneri e 12 sviluppatori indiani indipendenti. Le tecnologie di riconoscimento dell’odore (Digital Scent Technology) non sono una novità, come dimostra uno studio del Monell Chemichal Senses Centre di Filadelfia.

Dietro il progetto dell’odorometro di Google (nome in codice HM-WASSFOOL, che sta per high molecular web analysis senses system for outputs organic legacy) si nasconderebbero il genio visionario di Ray Kurzweil – assunto da Google come ingegnere capo a fine 2012 – e il Dipartimento della sicurezza americana (www.dhs.gov).

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Gli eredi di Lucio Battisti vincono in Cassazione: respinto il ricorso di Sony Music

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Dopo otto anni di contenzioso giudiziario, la Corte di Cassazione ha messo la parola fine alla lunga battaglia legale tra Sony Music e gli eredi di Lucio Battisti. Con l’ordinanza del 14 maggio, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della major discografica, che chiedeva un risarcimento di 7 milioni di euro accusando la famiglia del cantautore di aver impedito lo sfruttamento commerciale delle sue opere.

Una disputa iniziata nel 2017

Il nodo della controversia ruotava attorno alla decisione degli eredi — la vedova Grazia Letizia Veronese e il figlio Luca Battisti — di revocare il mandato alla SIAE, rendendo di fatto impossibile la diffusione in streaming e l’utilizzo pubblicitario delle canzoni di Lucio Battisti. Secondo Sony Music, questa scelta avrebbe bloccato la diffusione delle opere sulle piattaforme digitali come Spotify e impedito la sincronizzazione con importanti campagne pubblicitarie.

Ma i giudici hanno confermato quanto già stabilito nei due precedenti gradi di giudizio: i contratti firmati da Battisti oltre cinquant’anni fa non autorizzano lo sfruttamento delle registrazioni senza il consenso degli eredi o degli editori musicali. Oltre alla bocciatura del ricorso, Sony dovrà anche farsi carico delle spese legali.

Una sentenza che tutela gli autori

«Se fosse passata la linea della Sony — ha spiegato l’avvocato Veneziano, legale della famiglia Battisti — si sarebbe affermato un principio pericoloso: che a governare lo sfruttamento economico delle opere fossero i produttori, non gli autori». L’obiettivo della famiglia, ha aggiunto, è sempre stato quello di proteggere l’integrità e la memoria artistica di Lucio Battisti, senza comprometterne l’eredità con logiche esclusivamente commerciali.

Il precedente con Mogol e il rimpianto per l’arte

Non è la prima volta che l’universo di Lucio Battisti si ritrova in tribunale. Giulio Rapetti, in arte Mogol, storico autore dei testi di Battisti e cofondatore della casa discografica Acqua Azzurra, aveva avviato un’analoga causa contro la vedova e il figlio, ottenendo nel 2015 un risarcimento parziale di 2,6 milioni su 8 richiesti.

«Sono stato parzialmente pagato — ha commentato Mogol — ma ci ho comunque rimesso. E provo un grande dispiacere». Poi, un pensiero intimo: «Quando morirò, sono certo che troverò Lucio seduto su una seggiola con la chitarra in mano. Io lo abbraccerò e lui mi abbraccerà».

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Riccardo Muti: Salieri fu un gigante. E la musica in chiesa? Meglio Palestrina che le schitarrate

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Riccardo Muti, 83 anni e un amore incondizionato per la musica come patrimonio spirituale e culturale, torna a parlare al Corriere della Sera con una lunga intervista che è anche un manifesto. Per il Maestro, Antonio Salieri non solo non fu l’avvelenatore di Mozart, ma è una figura fondamentale nella storia della musica, oggi ingiustamente dimenticata dall’Italia. E da lui parte una nuova “chiamata” ai cori italiani per ridare dignità alla grande tradizione corale. Il tutto, con un pensiero a Papa Leone e una stroncatura alle “messe beat”.

Salieri, vittima della leggenda e del cinema

«Salieri? Un grandissimo. Solo che fu contemporaneo del più grande musicista che l’umanità abbia mai avuto: Wolfgang Amadeus Mozart», dice Muti. E liquida senza esitazioni le leggende sul veleno e sulla gelosia. «Dicerie nate a Vienna, passate per Puskin e finite nel film Amadeus di Milos Forman. Ma la verità è che Salieri aiutò la famiglia di Mozart, soprattutto uno dei figli che tentò, senza successo, la via della musica».

Secondo Muti, il compositore italiano fu un pedagogo immenso e un musicista spirituale e rigoroso, autore di quaranta opere e oltre cento composizioni sacre. «Riaprii la Scala nel 2004 con L’Europa riconosciuta, l’opera che Maria Teresa gli commissionò per l’inaugurazione del teatro milanese». Eppure, sottolinea, in Italia nessuna grande istituzione musicale ha ricordato i 200 anni dalla morte di Salieri. «Solo Legnago, la sua città natale, si è mossa. Ma l’indifferenza è grave. Per fortuna a Vienna è celebrato come merita».

“Mozart è la prova dell’esistenza di Dio”

Su Mozart, Muti non ha dubbi: «È la prova dell’esistenza di Dio. Chiunque sarebbe impallidito di fronte a lui». E anche Salieri, secondo il direttore, ne comprese la grandezza più di chiunque altro. Per questo Muti ha scelto di «riconciliarli» in un doppio concerto a Vienna, dirigendo opere di entrambi.

“Cantare è proprio di chi ama”: l’appello di Muti ai cori italiani

Dal grande repertorio classico alle passioni civili. Muti lancia un appello ai cori di tutta Italia sotto il motto agostiniano “Cantare amantis est”, «cantare è proprio di chi ama». «Il mio sogno è insegnare a cantare senza smorfie e senza languore. Il 1° giugno a Ravenna arriveranno tremila persone da tutta Italia, per cantare cori da Verdi: Nabucco, Lombardie Macbeth».

Musica sacra dimenticata: “In chiesa regnano strimpellatori e testi imbarazzanti”

Il Maestro non nasconde la sua delusione per la musica oggi presente nelle liturgie. «Con Benedetto XVI ci furono concerti in Vaticano. Oggi i concerti sacri sono spariti. E in chiesa regnano schitarrate e testi imbarazzanti. Non credo di essere l’unico fedele che preferirebbe ascoltare Palestrina, Monteverdi, Luca Marenzio o Gesualdo da Venosa». E lancia una riflessione amara: «I santi andavano incontro al martirio cantando, non strimpellando».

Papa Leone e il ritorno dello spirito

Su Papa Leone, Muti si dice fiducioso: «Mi piace moltissimo. Mi fa sperare in un ritorno alla spiritualità, alla grande musica sacra. È nato a Chicago, dove dirigo l’orchestra, e ha un nonno piemontese. Come sa, ‘Prevost’ in dialetto piemontese vuol dire prete. Ma non mi faccia dire altro… in Italia siamo passati da tutti virologi a tutti vaticanisti».

Un’intervista che è molto più di un bilancio. È il grido appassionato di un uomo che ha dedicato la vita a rendere sacro il suono, e che oggi sogna un’Italia più colta, più spirituale, più devota alla sua grande storia musicale.

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Francesca Pascale e Paola Turci, fine del matrimonio e lite sul cane Lupo: “Può portarlo via, ma non è mai venuta”

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Il matrimonio tra Paola Turci e Francesca Pascale, celebrato nel 2022, è finito nel 2024 nel massimo riserbo, come previsto da un accordo di riservatezza sottoscritto da entrambe. Ma oggi, a due anni dalla rottura, emergono dettagli che raccontano una separazione meno pacifica di quanto apparisse. Al centro di una contesa affettiva e legale, un cane di nome Lupo.

La vicenda è stata ricostruita da Selvaggia Lucarelli in un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano, con dichiarazioni dirette della stessa Pascale.

Lupo, simbolo di un legame interrotto

Lupo è un meticcio nero, adottato da Paola Turci prima di conoscere Pascale, ma trasferitosi con la coppia nella casa in Toscana insieme agli altri dieci cani dell’ex compagna di Silvio Berlusconi. Dopo la separazione, Lupo è rimasto a vivere con Pascale, sulla base di un accordo legale che prevedeva il diritto per Turci di visitarlo «quando voleva», ma senza entrare in casa, solo dal giardino.

Pascale, tuttavia, racconta che Turci non si sarebbe mai presentata: «La prima volta aveva un impegno, la seconda pure, la terza le ho detto “puoi venire, ma restando in giardino”. Non è venuta». Non solo: «A gennaio l’ho cercata tante volte, Lupo non stava bene e avevo bisogno della sua autorizzazione per una sedazione. Ma mi ha ignorata. Alla fine ho dovuto decidere da sola con il veterinario».

“Può portarlo via, quando vuole”

Nonostante le frizioni, Pascale tende la mano: «Se vuole, può vedere i cani tutti, e Lupo può portarlo via con sé. Io non ho mai voluto impedirlo». Anzi, Pascale sottolinea che l’interruzione dei contatti non è partita da lei e smentisce qualsiasi ostruzionismo.

Poi, la riflessione amara: «Sono in pace. Un mese fa ho parlato con Salvini per la prima volta, e con Renzi che mi corteggia un po’. Ma gli ho detto che preferisco Agnese», con riferimento alla moglie dell’ex premier.

Dudù, Arcore e ironia politica

Nel suo racconto, Pascale cita anche Dudù, il celebre cane di Silvio Berlusconi, oggi rimasto a Marta Fascina: «Sono disperata. La inviterò a C’è posta per te, assieme a Dudù e Peter, se viene». E aggiunge, ironicamente: «Lei (Fascina, ndr) non vuole uscire da Arcore. Quella casa dovrebbe diventare una fondazione, ma lei sta attaccata alle pareti».

Una confessione che, tra ironia e nostalgia, mette in luce una pagina dolceamara della sua vita, dove affetti umani e animali si intrecciano a visioni di futuro e qualche stoccata politica.

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