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Esteri

Netanyahu contro tutti: Qatargate una caccia politica

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Dal fronte politico interno a quello di Gaza, Benyamin Netanyahu tira dritto. E finito sul banco dei testimoni nello scandalo Qatargate, si scaglia senza freni contro l’inchiesta sui presunti legami illeciti tra i suoi collaboratori e Doha, parlando di una “caccia politica” nella quale sono finiti in manette due suoi assistenti, definiti “ostaggi” dal premier israeliano. “L’obiettivo è sventare il licenziamento del capo dello Shin Bet e far cadere un primo ministro di destra”, ha attaccato Bibi al termine di una giornata segnata proprio dalle polemiche per la sua decisione di indicare l’ex comandante della Marina, l’ammiraglio in riserva Eli Sharvit, come futuro capo dei servizi di sicurezza interna israeliana.

Una decisione presa nonostante le proteste di piazza e lo stop decretato dalla Corte suprema alla decisione di silurare Ronen Bar. E che ha scatenato l’ennesimo putiferio in Israele, con una pioggia di critiche anche dalla stessa coalizione del primo ministro per via del passato di Sharvit, fatto di critiche alla riforma della giustizia e a Donald Trump. Tanto che, stando a una fonte citata dal Times of Israel, Netanyahu potrebbe essere costretto a fare marcia indietro sulla sua scelta, puntando su un altro candidato meno divisivo. Non è chiaro quando e come Sharvit dovrebbe assumere ufficialmente la direzione del servizio di sicurezza interno, dopo che la Corte Suprema ha messo un freno al licenziamento di Ronen Bar. Secondo una dichiarazione ufficiale, il direttore decaduto dovrebbe lasciare il suo incarico entro e non oltre il 10 aprile.

Ma la data cruciale sarà due giorni prima, l’8 aprile, quando è in programma l’udienza – in diretta televisiva – con la quale l’Alta corte esaminerà i ricorsi presentati contro la decisione del governo israeliano, già bocciata dalle piazze dello Stato ebraico. La procuratrice generale Gali Baharav-Miara – altro bersaglio della crociata di Netanyahu – ha sottolineato intanto che la decisione della Corte Suprema “proibisce” temporaneamente di nominare un nuovo capo dello Shin Bet, mentre anche dalla coalizione della maggioranza si sono levate critiche alla scelta dell’ex capo della Marina, “colpevole” di aver partecipato nel 2023 a una manifestazione contro la riforma della giustizia e di aver scritto di recente un duro editoriale contro Donald Trump e le sue politiche sul clima. Il leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid ha definito la scelta del nuovo capo dello Shin Bet “affrettata” e “irresponsabile”, con “l’unico scopo” di “porre fine alle indagini su Qatargate”.

Dello scandalo, il primo ministro ha parlato con la polizia per due ore come testimone, dopo che due dei suoi assistenti, Jonatan Urich ed Eli Feldstein, sono stati arrestati in mattinata e rimarranno in custodia. “Ostaggi”, li ha definiti il premier, usando una parola che scava nelle ferite del 7 ottobre e scatenando l’indignazione del forum delle famiglie dei rapiti da Hamas: “Vorremmo ricordare che i veri ostaggi sono i nostri 59 fratelli e sorelle che sono trattenuti a Gaza da 542 giorni. È meglio che liberi la tua agenda e ci ascolti”, hanno affermato in una nota. Incalzato dagli scandali e dai processi, ormai è scontro aperto tra Netanyahu e la giustizia. Un fronte di scontro interno ma anche internazionale, mentre monta la protesta per la decisione del premier di visitare l’Ungheria per incontrare l’omologo Viktor Orban, nonostante il mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale per presunti crimini di guerra a Gaza.

“La Corte fa affidamento sugli Stati per l’esecuzione delle sue decisioni”, ha tuonato la corte dell’Aja, ammonendo l’esecutivo magiaro per la sua scelta di ospitare il leader israeliano e ricordando che “non spetta ai singoli Stati valutare unilateralmente la legittimità o la validità delle decisioni della Cpi”. Nel frattempo, non si placa la rinnovata offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza, dove in meno di due settimane dalla rottura della tregua sono morte almeno mille persone, ha denunciato Hamas. L’Idf continua a spingersi fino all’estremo sud dell’enclave, ordinando l’evacuazione dell’intera area di Rafah dove l’esercito sta “tornando a combattere con grande forza per eliminare le capacità delle organizzazioni terroristiche in queste aree”.

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Tragedia al festival Lapu Lapu a Vancouver: suv travolge la folla, morti e feriti

Durante il festival filippino Lapu Lapu a Vancouver, un suv ha investito la folla causando diversi morti e feriti. Arrestato il conducente. La città è sconvolta.

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Diverse persone sono morte e molte altre sono rimaste ferite durante il festival del “Giorno di Lapu Lapu” a Vancouver, nell’ovest del Canada, quando un suv ha investito la folla. La polizia locale ha confermato che il conducente è stato arrestato subito dopo l’incidente, avvenuto intorno alle 20 ora locale (le 5 del mattino in Italia).

Il cordoglio della città e della comunità filippina

La tragedia ha sconvolto l’intera città e, in particolare, la comunità filippina di Vancouver, che ogni anno organizza il festival in onore di Lapu Lapu, eroe della resistenza contro la colonizzazione spagnola nel XVI secolo. Il sindaco Ken Sim ha espresso il proprio dolore: «I nostri pensieri sono con tutte le persone colpite e con la comunità filippina di Vancouver in questo momento incredibilmente difficile», ha scritto su X.

Le drammatiche immagini dell’incidente

Secondo quanto riferito dalla polizia e riportato dalla Canadian Press, il suv ha travolto la folla all’incrocio tra East 41st Avenue e Fraser Street, nel quartiere di South Vancouver. I video e le immagini diffusi sui social mostrano scene drammatiche: corpi a terra, detriti lungo la strada e un suv nero gravemente danneggiato nella parte anteriore. Testimoni parlano di almeno sette persone rimaste immobili sull’asfalto.

Il dolore delle autorità

Anche il premier della Columbia Britannica, David Eby, ha commentato la tragedia: «Sono scioccato e con il cuore spezzato nell’apprendere delle vite perse e dei feriti al festival». La comunità è ora unita nel cordoglio, mentre proseguono le indagini per chiarire le cause dell’accaduto.

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I primi 100 giorni di Trump, già lavora a ‘nuovi siluri’

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Il traguardo dei primi 100 giorni è ormai alla porte. Al 29 aprile mancano solo pochi giorni: Donald Trump si regalerà un comizio stile elettorale per spegnere le candeline e fare il bilancio dei suoi ‘successi’. Finora però il presidente non sembra essere riuscito a convincere l’opinione pubblica, come testimoniano i sondaggi che lo indicano come il meno amato della storia. Rilevazioni che non lo scuotono, tanto che, come rivelano alcuni funzionari a Reuters on line, sta già lavorando a “nuovi siluri” dei prossimi 100 giorni. Guardando avanti il presidente intende concentrarsi più attivamente sui colloqui di pace e sulle trattative per gli accordi sui dazi in vista di luglio, quando scadranno i 90 giorni di pausa concessi sulle tariffe reciproche.

La posta in gioco è alta: l’entrata in vigore dei dazi annunciato il 2 aprile, il ‘giorno della liberazione’, rischia di avere un impatto economico devastante per gli Stati Uniti, come Wall Street ha cercato a suon di cali consistenti di far capire al tycoon. I negoziati con l’Unione Europa appaiono in salita e quelli con la Cina devono, almeno formalmente, ancora iniziare, lasciando intravedere mesi di febbrili manovre per rimuovere l’incertezza e le nubi di recessione che si stanno addensando sull’economia. Al dossier commerciale si aggiunge quello dei colloqui di pace per l’Ucraina e per Gaza.

Mentre le trattative con l’Iran sul nucleare sembrano progredire, sulle tensioni fra Israele e Gaza la situazione appare in stallo, con i contatti fra Washington e Teheran che rischiano di rappresentare un ostacolo con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Gli sforzi della Casa Bianca sono concentrati in queste settimane sull’Ucraina anche se al momento la pace resta ancora lontana. Trump aveva promesso durante la campagna elettorale di risolvere la guerra 24 ore, per poi essere costretto a identificare in sei mesi un arco temporale “realistico”.

L’incontro fra il presidente e Volodymyr Zelensky a San Pietro, a margine del funerale di papa Francesco, lascia ben sperare ma i prossimi giorni saranno cruciali, come ha detto il segretario di stato Marco Rubio, per “determinare se tutte e due le parti vogliono la pace”. Trump agli americani presenta come promessa mantenuta nei primi 100 giorni quella di aver domato l’emergenza migranti. Gli arrivi al confine con il Messico sono crollati e le deportazioni di migranti senza documenti sono in aumento, anche se l’obiettivo di un milione di espulsioni in un anno appare irraggiungibile. I successi sull’immigrazione sono stati ottenuti non senza polemiche: le deportazioni sono state infatti accompagnate da una lunga serie di azioni legali, le ultime in ordine temporale riguardanti tre cittadini americani minorenni inviati in Honduras insieme alle loro madri. Il presidente rivendica come successo anche il Dipartimento per l’Efficienza del Governo di Elon Musk.

Il Doge continua alacremente a lavorare per ridurre i costi del governo, anche se gli iniziali ‘risparmi’ sono stati mangiati dai costi per i migliaia di licenziamenti effettuati. In vista dell’uscita di Musk dal governo, l’amministrazione Trump si sta muovendo per rafforzare il controllo sulle assunzioni privilegiando chi è “fedele alla legge e alle politiche del presidente”. Anche il Doge, di cui Trump è orgoglioso, si è attirato decine di cause per i suoi tagli ritenuti indiscriminati. Fra la stretta sui migranti ritenuta eccessiva e l’azione di Musk, oltre che per i timori di una recessione causata dai dazi, il presidente è in forte calo nei sondaggi.

Per l’Associated Press, quattro americani su 10 lo ritengono un presidente “terribile”. Per il Washington Post e Cnn il suo tasso di approvazione è il più basso della storia per i primi giorni di una presidenza (rispettivamente al 39% e al 41%). Valutazioni che non sembrano preoccupare Trump: in un Casa Bianca ben più stabile rispetto al caos del primo mandato – fatta eccezione per il caso Pete Hegseth – il presidente tira dritto e guarda avanti, sognando forse anche un terzo mandato nel 2028 come indicato anche dai cappellini in vendita sul suo sito.

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Pressing degli Usa per la tregua, Mosca attacca l’Europa

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Il faccia a faccia tra Volodymyr Zelensky e Donald Trump nella Basilica di San Pietro, fortemente sostenuto anche dalla Santa Sede, ha ridato speranza agli ucraini di ottenere una pace che non sia una resa, ma il percorso continua ad essere pieno di incognite. Kiev in questa fase rilancia gli appelli ai partner per spingere Mosca ad accettare almeno una tregua, mentre il Cremlino prova a tenersi stretti gli americani assicurando che sulla soluzione del conflitto le posizioni sono “coincidenti in molti punti”, mentre sono gli ucraini e gli europei a voler mettersi di traverso.

A Washington, tuttavia, questo stallo viene vissuto con crescente insofferenza. Ed ora la nuova richiesta alle parti in conflitto è di accettare concessioni reciproche entro la prossima settimana. I colloqui tra Zelensky, Trump e i leader dei volenterosi, a margine dei funerali del Papa, hanno in qualche modo reindirizzato la pressione diplomatica verso la Russia. Tanto che lo stesso presidente americano, nel volo di rientro da Roma, si è lasciato andare ad un’insolita sfuriata nei confronti di Putin, accusandolo di “prendere in giro” gli sforzi di pace con i suoi raid sui civili, e minacciando nuove sanzioni. Mosca ha provato a schivare questi strali rimarcando le distanze all’interno del blocco transatlantico.

Ha iniziato il portavoce di Vladimir Putin, Dmitry Peskov, assicurando che il lavoro con gli americani continua, “in modo discreto e non in pubblico”. E ricordando le convergenze tra le due potenze, a partire dall’idea che la Crimea sia russa e che Kiev non potrà mai entrare nella Nato. A rafforzare il concetto ci ha poi pensato Serghiei Lavrov. Il ministro degli Esteri ha accusato gli europei di “voler trasformare, insieme a Zelensky, l’iniziativa di pace di Trump in uno strumento per rafforzare l’Ucraina”, a dispetto delle idee della Casa Bianca. Mosca, in particolare, conta sul fatto che le rivendicazioni territoriali di Kiev, così come le garanzie di sicurezza, non interessino più di tanto a Washington.

Gli ucraini al contrario vogliono ricompattare i loro alleati. Zelensky, pur smentendo la resa nel Kursk, ha ammesso che la situazione al fronte è difficile per gli incessanti raid russi ed ha sottolineato che il nemico insiste nell'”ignorare la proposta degli Stati Uniti di un cessate il fuoco completo e incondizionato”. Nel frattempo il leader ucraino ha continuato a tessere la sua tela diplomatica. Così, in occasione dei funerali del Papa, ha cercato la sponda dei partner, ma anche del Vaticano. Come dimostrano gli incontri con il segretario di Stato Pietro Parolin ed il presidente della Cei Matteo Zuppi, che in passato erano stati mandati da Papa Francesco in missione a Kiev e l’arcivescovo di Bologna anche a Mosca.

Al termine dei quali Zelensky si è detto “grato per il sostegno al diritto all’autodifesa dell’Ucraina e anche al principio secondo cui le condizioni di pace non possono essere imposte al paese vittima. In seguito, l’ambasciatore ucraino, Andrii Yurash, ha fatto sapere che anche il faccia a faccia Zelensky-Trump ha “avuto il sostegno della Santa Sede: di tutti, non di una persona in particolare”. E se una trattativa diretta tra Mosca e Kiev ancora non appare all’orizzonte, gli Stati Uniti provano a stringere i tempi. “Questa settimana – ha spiegato il segretario di Stato Marco Rubio – cercheremo di determinare se le due parti vogliono veramente la pace e quanto sono ancora vicine o lontane dopo circa 90 giorni di tentativi”. E l’avvertimento è chiaro: “L’unica soluzione è un accordo negoziato in cui entrambi dovranno rinunciare a qualcosa che affermano di volere e dovranno dare qualcosa che non vorrebbero dare. In questo modo si mette fine a una guerra e questo è quello che stiamo cercando di fare”.

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