L’agricoltura “più e meglio di altri settori è stato un volano di crescita e innovazione, protagonista nella gestione e tenuta del territorio e dello sviluppo. Dobbiamo esserne orgogliosi, per il livello di qualità e di produzione di ricchezza raggiunti, per la profonda rivoluzione sociale che, anche nelle campagne, ha reso effettivi i principi di eguaglianza sanciti nei primi articoli della nostra Carta”. A dirlo è il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dinanzi alla platea dei 500 imprenditori di Confagricoltura, riuniti per l’assemblea generale invernale 2023. Per il capo dello Stato il comparto agricolo è “centrale, sinonimo di benessere”, e sull’agroalimentare “si misura la stabilità internazionale”.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’Assemblea generale di Confagricoltura (foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)
Tanto più ora, ha rilevato, che “la fame è uno spettro che si aggira nuovamente nei territori in guerra, e non solo; e si presenta, inoltre, nelle aree soggette a desertificazione”. La presenza del presidente Mattarella, “è il segnale più forte dell’importanza e dell’attenzione che le Istituzioni attribuiscono alla nostra agricoltura, un comparto strategico non solo in termini economici ma anche in termini culturali, sociali, identitari”, ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in un videomessaggio inviato all’Assemblea. Il 2024, per il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti, “sarà l’anno della ripartenza e della riflessione”. Ad oggi il Made in Italy ha raggiunto il massimo storico di 60 miliardi di euro di esportazioni agroalimentari, ma “puntiamo a raggiungere gli 80-90 miliardi, la quota di mercato di Olanda e Germania”, ha detto Giansanti.
Massimiliano Giansanti, Presidente di Confagricoltura
“L’agricoltura italiana deve continuare a investire, in particolare sull’innovazione, e per fare questo – ha sottolineato il presidente di Confagricoltura – ci vuole un piano straordinario per l’agricoltura e il 2024 deve essere l’anno per costruire questo piano”. In termini di geopolitica “l’allargamento a Est ci preoccupa un po’ – ha osservato Giansanti – ma dall’altra parte serve un ripensamento generale delle regole europee, per garantire la capacità competitiva dei singoli Stati”. In Europa ha detto Meloni, ricordando il primato italiano sullo stop al “cibo sintetico”, “abbiamo difeso il ruolo strategico dell’agroalimentare e delle realtà agricole italiane. Con un grande lavoro di squadra siamo riusciti a far emergere il buon senso, a ottenere posizioni più equilibrate rispetto ad alcune proposte iniziali della Commissione europea su dossier molto importanti”: dai fitofarmaci alle emissioni industriali, agli imballaggi. Nella transizione green il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani ha chiesto che “l’Ue non ponga obiettivi irraggiungibili per le imprese”.
Mentre il vicepresidente e ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, Matteo Salvini ha auspicato che la “Pac sia per crescere, non per limitare danni’. Annunciando la proroga della carta sociale “Dedicata a te”, il ministro dell’Agricoltura e Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida ha delineato una strategia di rilancio in tre passaggi: rafforzamento del ruolo italiano nel “condominio” Europa; la promozione dei prodotti e la competizione sulla qualità che è il valore aggiunto del Made in Italy. Inoltre il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso rivolgendosi agli imprenditori di Confagricoltura ha detto: “siete un pilastro della nostra economia”.
Secondo dati di Confagricoltura “nel periodo che va dal 2013 al 2022, la quota italiana sulle esportazioni totali della Ue verso i paesi terzi è passata dal 9,5 all’11,3 per cento. L’industria alimentare è la terza al mondo per robot installati. L’intera filiera agroalimentare, dalle imprese agricole fino alla ristorazione, è arrivata ad incidere per il 16 per cento sulla formazione del prodotto interno lordo. Tenendo anche conto dei mezzi tecnici per la produzione agricola, si sale oltre il 20 per cento”. E per quanto riguarda il lavoro, sono 1, 4 milioni i posti assicurati dalla filiera”.
La guerra dei dazi, con l’impatto economico che minaccia la crescita mondiale e con i mercati attraversati da forte instabilità, fa salire i rischi per la stabilità finanziaria globale: il segnale più recente arriva dal crollo della fiducia dei consumatori americani ai minimi dal 2020. E c’è attenzione ai rischi legati all’intenzione dell’amministrazione Trump di utilizzare le ‘stablecoin’ per promuovere il dollaro. E’ lo scenario tratteggiato dal Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia: un termometro che misura ogni sei mesi i rischi sistemici e che, rispetto allo scorso novembre, inevitabilmente ruota attorno alle misure ad alto impatto di Trump e al “notevole aumento dell’incertezza e di tensioni sui mercati finanziari” che ne sono seguiti: previsioni di crescita ulteriormente ridimensionate” dopo i maxi-dazi annunciati il 2 aprile, con una probabilità di recessione negli Usa quest’anno “significativamente aumentata”.
Proprio oggi la fiducia dei consumatori Usa è crollata a 86 punti, mai così bassa dal 2020, mentre il sentiment economico nell’area euro è tornato a scendere. L’Italia, come i partner europei, non è al riparo. “L’alto debito pubblico e la scarsa crescita dell’economia italiana rimangono fattori di vulnerabilità”, si legge nel documento di 49 pagine. I dazi potrebbero far peggiorare la qualità dei prestiti bancari, con le banche italiane più esposte della media europea allo scenario di un calo degli utili delle imprese esportatrici superiore all’1% a causa dei dazi Usa. Nel complesso “i rischi per il sistema finanziario italiano restano comunque moderati”. Le banche sono ben capitalizzate, e vengono in aiuto una bassa disoccupazione; uno spread dei Btp sull’ottovolante con i treasuries Usa, ma più basso che nello scorso autunno; una posizione netta creditrice sull’estero che ha indotto S&P a migliorare il rating, a beneficio dell’interesse estero sui titoli italiani.
Il ‘faro’ di Bankitalia guarda anche a rischi specifici come l’alto numero (119) di incidenti operativi o cibernetici che hanno colpito gli intermediari nel 2024, e gli 85 miliardi di euro di ‘certificates’, strumenti finanziari complessi, nei portafogli italiani di cui quasi due terzi retail: il valore più alto fra i Paesi europei, da tempo all’attenzione di Via Nazionale e Consob. Bankitalia – come la Bce – monitora poi con attenzione i piani sul fronte della finanza digitale dell’amministrazione Trump, da cui arrivano segnali di forte sostegno alle attività crypto e avversione all’euro digitale. Per ora i dazi non hanno fatto altro che indebolire il dollaro, creando addirittura un’opportunità per l’euro sottolineata dal membro del board della Bce Piero Cipollone, a patto di realizzare l’Unione dei risparmi e investimenti e un titolo comune europeo.
Ma ci sono due osservati speciali, il ‘Genius Act’ e lo ‘Stable Act’, due proposte di legge americane tese a promuovere le stablecoin, attività che a fronte di un ‘token’ hanno riserve in valuta, specie dollari. Alcuni economisti ipotizzano che serviranno a irrobustire il ruolo internazionale del dollaro. I rischi, per Bankitalia, arriverebbero se nelle due proposte ci fosse una rottura con i principi globali concordati nel Financial Stability Board e con la normativa più stringente del regolamento europeo Micar. Se dal 10% del mercato crypto attuale le stablecoin arrivassero ad assumere una dimensione sistemica – avverte Bankitalia – potrebbe esserci una “eccezionale domanda di titoli pubblici degli Stati Uniti”, ma in caso di dissesto dell’emittente il rischio è una corsa a liquidare che “provocherebbe tensioni sui mercati dei titoli pubblici americani e ripercussioni su altri comparti del sistema finanziario globale”. Non solo: se nell’area dell’euro si affermassero come sistema di pagamento stablecoin in euro offerti da intermediari Usa, secondo il Rapporto si rischiano “implicazioni anche per il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento e per la stessa sovranità monetaria”.
Dopo 13 mesi di stallo, ancora una fumata nera sul contratto del comparto Sanità 2022-24, che riguarda oltre 580mila lavoratori del Servizio sanitario nazionale tra infermieri – che rappresentano oltre la metà del totale – tecnici e personale non medico. Sul tavolo ci sono 172 euro di aumento mensile ma i sindacati di categoria sono divisi e varie sigle reputano insufficienti le risorse stanziate e carente la parte normativa. L’incontro di oggi all’Aran per la ripresa delle trattative, dopo che alcune sigle avevano già fatto saltare l’accordo nei mesi scorsi, si è dunque chiuso con un nulla di fatto. Un nuovo incontro è previsto il 22 maggio.
Intanto, anche per il contratto dei medici è stallo: attendono ancora l’atto di indirizzo e chiedono di avviare subito le trattative. Nell’incontro di oggi, i sindacati degli infermieri e di categoria confermano posizioni differenti. Da un lato il sindacato Nursind, favorevole ad una chiusura. “Anche oggi – rileva il segretario Andrea Bottega – abbiamo ribadito la nostra disponibilità a sottoscrivere il Ccnl, ma soprattutto sollevato un problema di tempi perché i fondi, seppure pochi e insufficienti a compensare l’inflazione degli ultimi anni, vanno spesi entro fine anno come previsto dal Documento di finanza pubblica. Oppure sarà meglio poi doversi piegare a quanto sarà deciso unilateralmente dal governo? Questa sì che sarebbe una sconfitta per le relazioni sindacali”. Riferendosi quindi alle sigle che insistono sul nodo dei fondi, Bottega sottolinea che “la questione delle scarse risorse non è da porre al tavolo Aran. Non è in quella sede che può essere affrontata e risolta. Per disporre di nuovi stanziamenti, infatti, serve una legge”.
Per il Nursing up, l’incontro “si è rapidamente trasformato nell’ennesimo muro contro muro, senza uno spiraglio di soluzione”. E pur chiedendo di chiudere il contratto al più presto, il sindacato chiede a governo e regioni “da che parte stanno: basta teatrini, i professionisti sanitari non sono marionette”. E’ netta invece l’opposizione di Fp Cgil e Uil Fpl: “Non è emersa alcuna novità sostanziale, né sul piano economico né su quello normativo. Ancora una volta – affermano – il confronto si è rivelato privo di contenuti in grado di rispondere concretamente alle attese dei lavoratori e lavoratrici del settore. Ribadiamo con fermezza l’indisponibilità a sottoscrivere una pre-intesa che non riconosca il valore del personale sanitario attraverso tutele reali, diritti esigibili e un adeguato incremento salariale”. Insomma, avvertono, “in assenza di un cambio di rotta non esistono le condizioni per la chiusura positiva della trattativa”. Da parte sua, l’Aran sottolinea che, anche se restano distanti le posizioni delle parti, “il confronto ha permesso di entrare nel merito di alcune questioni specifiche, offrendo l’occasione per un dialogo più concreto. Per continuare il confronto e verificare se ci sono le condizioni per arrivare a un’intesa”.
Ricorda quindi che si prevede un aumento medio mensile di 172,37 euro per tredici mensilità, pari al 6,8% in più rispetto agli stipendi attuali, e le risorse stanziate ammontano a 1,784 miliardi. Oltre agli aspetti economici, il contratto introduce inoltre “maggiore tutela contro le aggressioni al personale, riorganizzazione degli incarichi professionali, potenziamento della formazione e nuove misure per migliorare l’equilibrio tra vita e lavoro”. Intanto, medici e dirigenti sanitari ancora attendono l’atto di indirizzo necessario ad avviare le trattative per il loro contratto 2022-24, dunque già scaduto. “Non solo non siamo disponibili ad aspettare, perchè è inaccettabile dover attendere la conclusione del contratto del comparto Sanità per poter iniziare a discutere di quello dei medici – affermano i leader dei sindacati Anaao e Cimo, Pierino Di Silverio e Guido Quici – ma anzi chiediamo di fare un ulteriore passo avanti accorpando i trienni contrattuali 2022-24 e 2025-27, una decisione che sarebbe storica”. Questo, concludono, per “garantire ai colleghi adeguamenti retributivi accettabili e bloccare l’intollerabile tradizione di firmare solo contratti già scaduti”.
Dopo quasi 30 anni, Françoise Bettencourt Meyers(foto Imagoeconomica) lascia il consiglio di amministrazione di L’Oréal, pur mantenendo la presidenza della holding familiare Tethys, primo azionista del gruppo. Al suo posto nel board entrerà un altro rappresentante di Tethys, mentre il ruolo di vicepresidente sarà assunto dal figlio Jean-Victor Meyers, 38 anni. Françoise Bettencourt Meyers, 71 anni, è l’unica erede diretta del fondatore di L’Oréal, Eugène Schueller.