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Lukashenko riappare con un messaggio, ma è giallo

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L’assenza, poi la riapparizione e ancora le voci che lo vorrebbero in fin di vita. Le notizie sulle condizioni di salute del presidente bielorusso Alexander Lukashenko, vere o presunte, non accennano a fermarsi nonostante il tentativo di Minsk di metterle a tacere con un messaggio diffuso oggi dal suo ufficio stampa in cui il dittatore bielorusso fa gli auguri al leader dell’Azerbaigian Ilham Aliyev per la festa nazionale del Paese. Lukashenko elogia il partenariato con Baku, “che si basa sull’interesse reciproco e su legami tradizionalmente amichevoli”, ma le sue parole appaiono ai più come una risposta alle indiscrezioni diffuse ieri dall’oppositore Valery Tsepkalo sulle sue presunte “condizioni critiche”.

Tsekpalo, già candidato alla presidenza del Paese, ex ambasciatore negli Stati Uniti e marito di Veronika Tsepkalo, anche lei in corsa contro Lukashenko nel 2020, aveva spiegato che il dittatore bielorusso “era stato trasportato d’urgenza al Moscow’s Central Clinical Hospital dopo il suo incontro a porte chiuse con Putin”. Le conseguenze di una malattia, o addirittura di un avvelenamento che porterebbe proprio la firma del Cremlino, sempre secondo Tsekpalo. E se non basta un comunicato a far venire meno i dubbi sulle sorti di Lukashenko, ecco che il gruppo di monitoraggio bielorusso Gayun afferma che il corteo del presidente è stato visto ieri a Minsk mentre si dirigeva verso la sua residenza, spiegando che questa informazione non permetterebbe di poter confermare il suo ricovero in ospedale nella capitale russa.

Anche dalla propaganda russa provano a tendere la mano all’alleato di Minsk, diffondendo oggi sul principale canale televisivo di Mosca, Rossija 1, un’intervista che Lukashenko avrebbe concesso al reporter Pavel Zarubin. Le sue dichiarazioni sulla guerra in Ucraina, che sarebbe stata “inevitabile”, e sul fatto che “tutti devono entrare nell’unione bielorusso-russa, e poi avranno armi nucleari”, finiscono in secondo piano rispetto alla testimonianza della sua presenza in pubblico. Eppure dai video diffusi da Zarubin su Telegram sembrerebbe che l’intervista risalga proprio al 25 maggio, giorno dell’incontro a Mosca con il presidente russo Vladimir Putin. La data non permetterebbe di affermare con certezza che Lukashenko sta bene, dal momento che proprio dopo quell’incontro il presidente bielorusso sarebbe stato trasportato in ospedale. Mentre Svetlana Tikhanovskaya, l’altra leader dell’opposizione bielorussa in esilio, tace, ad alimentare i dubbi ci pensa ancora Tsekpalo, che su Twitter parla di “un’operazione di ‘cover-up'” da parte del Cremlino.

L’operazione di Mosca sarebbe stata fatta perché “teme le speculazioni sul suo coinvolgimento nel deterioramento della sua salute”. Per nascondere il ricovero urgente nella capitale russa, l’aereo di Lukashenko sarebbe stato “inviato a Minsk senza di lui e senza aspettarlo all’aeroporto”. “Ho avuto un adenovirus, non morirò, state tranquilli” aveva detto il presidente bielorusso il 23 maggio, per giustificare la sua assenza in pubblico da quasi una settimana e quella durante la cerimonia del giorno della bandiera, la prima da quando ha assunto la più alta carica dello Stato dell’ex repubblica sovietica, 29 anni fa. Prima di tornare a farsi vedere, con una vistosa fasciatura al braccio, la sua ultima apparizione era stata proprio a Mosca durante le celebrazioni del 9 maggio, da cui era andato via in anticipo. Anche per questo Tsekpalo è convinto che “il Cremlino era a conoscenza delle cattive condizioni di salute di Lukashenko” ed “è possibile che questo sia legato all’inizio della pulizia del campo politico in Bielorussia”. Una possibilità che lascerebbe aperto qualsiasi scenario.

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I 5 secondi che hanno messo in ginocchio la Spagna

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Cinque secondi, il tempo di un sospiro, ma lunghissimi in termini di velocità della luce. Sono stati sufficienti per mettere in ginocchio la Spagna. E’ il lasso di tempo in cui si sono verificate “due perdite di generazione di corrente successive, che il sistema non è stato in grado di assorbire”, provocando alle 12,33 di lunedì il crollo al ‘punto zero’, il collasso totale del sistema elettrico.

La causa di quei cali di tensione, con un intervallo di appena un secondo e mezzo fra loro, seguito dopo 3,5 secondi dal collasso, è il principale nodo che si cerca di sciogliere per risalire alle origini del grande buio in cui è sprofondata ieri la penisola iberica, come ha spiegato il capo delle operazioni della Rete Elettrica Spagnola (Ree), Eduardo Prieto. “Bisognerà analizzare il perché si sono prodotte le due disconnessioni, in particolare la seconda che ha portato al collasso del sistema”, ha segnalato Prieto. Si dovranno “verificare le cause, analizzare la potenza, l’ubicazione, le condizioni in cui si è prodotta la disconnessione”.

Ma ha anche riconosciuto come “molto probabile” che la fonte di generazione interessata dal calo sia quella solare, senza dare però ulteriori spiegazioni. Lunedì, in quei cinque secondi precedenti al collasso, che ha fatto “scomparire 15 gigawatt di elettricità dalla rete”, l’equivalente al 60% della domanda di energia spagnola – come aveva segnalato il premier – si era registrato un picco di produzione di energia solare nella zona del sudovest della Spagna, in Estremadura. E le rinnovabili stavano fornendo il 78% della domanda di elettricità del Paese. Il surplus di energia disponibile avrebbe provocato uno sbilanciamento della rete elettrica iberica, rendendo impossibile assicurare la stabilità del sistema, secondo quanto ha ipotizzato l’ex presidente di Rete Elettrica, Jorge Fabra, a Tve. Un primo squilibrio sarebbe stato assorbito dalla rete, mentre il secondo con un effetto domino, avrebbe superato la capacità di risposa del sistema, facendo crollare prima la rete spagnola e poi quella portoghese. E causando il distacco della interconnessione con la Francia.

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Parigi, al via il processo ai “nonnetti rapinatori” che derubarono Kim Kardashian

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È iniziato ieri, davanti al tribunale di Parigi, il processo contro i dieci imputati – nove uomini e una donna – accusati della clamorosa rapina ai danni di Kim Kardashian, avvenuta nell’autunno del 2016. Il principale indiziato, Aomar, 68 anni, si è presentato in aula con passo incerto e bastone alla mano, fedele al suo profilo di “papy braqueur”, come i media francesi hanno soprannominato la banda: i nonnetti rapinatori.

I protagonisti della rapina

Aomar, nato nel 1956 in Algeria, è un veterano del crimine, autore dei primi furti già a 14 anni. A presentargli i complici era stata la compagna Christiane Glotin, detta Cathy, oggi 78enne, che gli fece incontrare “Pierrot il grosso”, 80 anni, altra vecchia conoscenza del mondo criminale francese.

Tra gli altri protagonisti c’è Yunice Abbas, 71 anni, che tentò una fuga rocambolesca in bicicletta portando con sé una borsa che credeva piena di armi, ma che invece conteneva gioielli e perfino il cellulare di Kim Kardashian, da cui avrebbe ricevuto una chiamata della cantante Tracy Chapman.

Spicca anche Didier “occhi blu” Dubreucq, 69 anni, con 23 anni di prigione alle spalle, che avrebbe partecipato direttamente all’irruzione nella suite della star americana.

La notte del colpo milionario

La rapina avvenne la notte del 3 ottobre 2016, in una suite di lusso nascosta in rue Tronchet, vicino alla Madeleine. Kim Kardashian, sola nella stanza, fu sorpresa da due uomini travestiti da poliziotti. Le strapparono il cellulare e, sotto minaccia, la costrinsero a consegnare l’anello di fidanzamento, un diamante da quasi 19 carati, regalo del marito Kanye West, valutato circa quattro milioni di dollari. La star fu legata, imbavagliata e rinchiusa nel bagno, mentre i rapinatori fuggivano con il bottino, comprendente anche contanti, gioielli e orologi di lusso.

La banda fu individuata grazie alle tracce di Dna lasciate nella suite.

Una rapina da fumetto

Sull’incredibile vicenda sono già stati pubblicati fumetti e libri, alcuni scritti dagli stessi imputati, che hanno contribuito ad alimentare il mito dell’«impresa dei nonnetti». Kim Kardashian è attesa in aula per testimoniare il prossimo 13 maggio.

 

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Elezioni in Canada, liberali di Carney vincono legislative e preparano la guerra a Trump

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Secondo le proiezioni dei media locali, è il Partito liberale di Mark Carney a vincere le elezioni legislative canadesi. I risultati preliminari del voto non permettono però di stabilire se il premier guiderà un governo di maggioranza o di minoranza.

Il primo ministro si avvierebbe quindi a portare i Liberali verso un nuovo mandato, dopo aver convinto gli elettori che la sua esperienza nella gestione delle crisi economiche lo rende pronto ad affrontare le mire del presidente americano Donald Trump. L’emittente pubblica Cbc e Ctv News hanno entrambe previsto che il Partito liberale formerà il prossimo governo canadese. Solo pochi mesi fa la strada per il ritorno al potere dei conservatori guidati da Pierre Poilievre sembrava spianata, dopo dieci anni sotto la guida di Justin Trudeau. Ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua offensiva senza precedenti contro il Canada, con dazi e minacce di annessione, hanno cambiato la situazione.

Elezioni in Canada, ecco chi è il primo ministro Mark Carney: l’uomo delle crisi

A Ottawa, dove i liberali si sono radunati per la notte delle elezioni, l’annuncio di questi primi risultati ha provocato un applauso e grida di entusiasmo. “Sono felicissimo, è ancora presto ma sono fiducioso che riusciremo ad avere la maggioranza”, David Lametti, ex ministro della Giustizia. La guerra commerciale di Trump e le minacce di annettere il Canada, rinnovate in un post sui social media il giorno delle elezioni, hanno indignato i canadesi e hanno reso i rapporti con gli Stati Uniti un tema chiave della campagna elettorale.

Carney, che non aveva mai ricoperto una carica elettiva e aveva sostituito Trudeau come premier solo il mese scorso, ha basato la sua campagna su un messaggio anti-Trump. In precedenza ha ricoperto la carica di governatore della banca centrale sia nel Regno Unito che in Canada e ha convinto gli elettori che la sua esperienza finanziaria globale lo rende pronto a guidare il Paese attraverso una guerra commerciale. Ha promesso di espandere le relazioni commerciali con l’estero per ridurre la dipendenza del Canada dagli Stati Uniti.

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