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Salute

Lotta al cancro, Giordano: prevenzione e ricerca per produrre farmaci-armi che uccidono cellule cattive

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Il professor Antonio Giordano è un oncologo e ricercatore di fama mondiale. È da sempre in prima linea nella ricerca sul cancro. Nato e cresciuto a Napoli, laureatosi alla Federico II, oggi è il direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine della Temple University di Philadelphia, nonché professore di anatomia e istologia patologica all’Università di Siena. Il suo instancabile lavoro di ricerca e le scoperte a cui ha contribuito hanno aperto nuovi e promettenti scenari nella lotta al cancro, un male che fino a qualche tempo fa sembrava quasi indecifrabile e impossibile da battere.

Professor Giordano, di che cosa si occupa la sua ricerca?

Il focus principale della mia ricerca è lo studio dei meccanismi molecolari che regolano il ciclo e la divisione cellulare, la cui alterazione induce una proliferazione incontrollata, il leit motiv della tumorigenesi. Oggi, finalmente, a distanza di 30 anni dalle nostre prime scoperte che hanno prima identificato e poi caratterizzato le molecole chiave della proliferazione cellulare, abbiamo dei farmaci in grado di bloccare specificamente queste molecole e già li stiamo utilizzando in modo efficace contro alcuni tipi di tumore, come quelli della mammella.

Quali sono le nuove frontiere nella lotta al cancro?

I progressi degli ultimi 50 anni sono incredibili: nel 1953 il premio Nobel James Watson, di cui sono stato allievo, scopriva insieme a Francis Crick la struttura a doppia elica della molecola del DNA. A quei tempi la cellula era così sconosciuta da apparire ai ricercatori come una vera e propria “black box”. Da allora, grazie anche all’enorme sviluppo di tecnologie definite ‘high throughput’, siamo stati in grado di decodificare gran parte dei processi di questa scatola nera e sviluppare strategie di precisione che bersagliano in maniera personalizzata le specifiche alterazioni di ciascun tipo di tumore, in ogni singolo paziente. Gli obiettivi futuri consistono nell’aumentare sempre più il nostro arsenale di armi contro il tumore. Occorre continuare ad identificare, grazie alla ricerca di base, i molteplici meccanismi molecolari che consentono al cancro di svilupparsi e progredire eludendo i meccanismi immunitari di difesa antitumorale, e sviluppare farmaci specifici o riadattare farmaci già esistenti per nuovi scopi. Bisogna anche investire nella ricerca per identificare biomarcatori che possano aiutarci ad effettuare diagnosi sempre più precoci, e tecnologie come la biopsia liquida sono molto promettenti in questa direzione. Ma soprattutto bisogna intraprendere azioni serie per la prevenzione.

Quanto incide l’ambiente circostante nell’insorgenza della patologia?

Il cancro è una malattia multifattoriale in cui la genetica svolge un ruolo importante ma sono determinanti anche l’ambiente in cui viviamo e gli stili di vita. L’associazione cancro-ambiente è ben nota per alcuni tumori come il mesotelioma, dovuto all’esposizione all’amianto, o il cancro del polmone, dovuto al fumo di sigaretta. Nonostante l’evidenza di queste relazioni pericolose, i forti interessi economici legati all’uso dell’amianto e del tabacco non hanno impedito l’enorme impatto negativo sulla salute di milioni di individui. Di questa esperienza si dovrebbe far tesoro prima di immettere nell’ambiente sostanze potenzialmente pericolose; si dovrebbe combattere l’inquinamento ambientale promuovendo comportamenti virtuosi a livello individuale per modificare gli stili di vita. In quest’ottica mi unisco al monito di Papa Francesco che, nell’enciclica sull’ambiente del 2015, ha definito la terra come la nostra casa. Se continueremo a maltrattarla, non avremo un’altra casa.

A che punto è la ricerca sul cancro? Quando verrà sconfitto?

Oggi riusciamo in molti casi a guarire da tumori per cui fino a pochi anni fa non c’era nulla da fare. In altri casi riusciamo a cronicizzare la malattia, aumentando anche notevolmente la sopravvivenza dei pazienti. La sfida è ancora aperta, perché i tumori sono caratterizzati da una incredibile eterogeneità di alterazioni molecolari che consente loro di diventare un bersaglio mobile, cambiando composizione e sviluppando resistenza ai farmaci e ai trattamenti terapeutici. Oggi abbiamo molti strumenti per velocizzare ancora di più la transizione tra la fase di scoperta derivata dalla ricerca di base e la fase di traslazione alla clinica con lo sviluppo di nuovi farmaci o combinazioni di farmaci. Per arricchire sempre più il nostro arsenale però occorre investire maggiormente nella ricerca promuovendo azioni multidisciplinari e premiando i ricercatori che sono tra le categorie di lavoratori più bistrattate nel nostro Paese.

Ogni volta che un ricercatore italiano si rende protagonista di qualche importante scoperta, parte la retorica dei “cervelli in fuga”. Perché in Italia i ricercatori vengono maltrattati e quasi costretti a scappare all’estero?

L’Italia – pur non disponendo delle risorse e delle strutture degli Stati Uniti – continua a generare menti brillanti che contribuiscono da protagonisti alle più importanti scoperte scientifiche. I ricercatori però vengono elogiati solo quando c’è lo scalpore di qualche scoperta e dimenticati nel quotidiano nonostante anni di studio, impegno e abnegazione nel lavoro svolto spesso addirittura senza stipendio! L’Italia è poco competitiva a livello di strutture e certamente non premia il merito. Inoltre c’è un problema di carattere culturale perché, in più di qualche caso, la ricerca subisce l’influenza della politica che, finanziandola, ne condiziona gli esiti, con la conseguenza che i giovani ricercatori non trovano l’ambiente ideale per poter sviluppare la loro creatività e il loro talento.

Cosa si sente di dire ad un giovane ricercatore italiano?

Suggerisco di non smettere mai di lavorare su se stessi migliorandosi, approfittando delle grandi potenzialità che offre oggi il web, che consente di accedere a risorse gratuite come riviste scientifiche ‘open access’, webinar, database pubblici. Gli direi di sperimentarsi in ambienti competitivi al fine di acquisire conoscenze e competenze con esperienze all’estero, anche se brevi. Gli direi di non mollare perché non si può rinunciare all’idea che l’eccellenza e il merito prima o poi vengano premiati.

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Politica

Regioni contro piano pandemico. Ministero, ‘confronto’

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Il piano pandemico 2025-2029 messo a punto dal governo potrebbe rivelarsi una nuova fonte di frizione tra il ministero della Salute e le Regioni. Rinviato all’esame della Conferenza delle Regioni, ha infatti ricevuto un netto stop dalla commissione Salute della Conferenza: è “ridondante”, “manca la catena di comando” ed è dunque necessaria una sua “revisione e ristrutturazione”. Critiche alle quali il dicastero risponde, ma aprendo al dialogo e con la richiesta di un “confronto immediato”.

Le osservazioni sul piano sono contenute in una nota della Commissione: il ‘Piano strategico-operativo di preparazione e risposta ad una pandemia da patogeni a trasmissione respiratoria a maggiore potenziale pandemico 2025-2029’, proposto dal ministero della Salute, “risulta “eccessivamente discorsivo, ridondante e di difficile consultazione” e “non presenta una catena di comando chiara e definita”, si legge. Le Regioni chiedono pertanto di “renderlo molto più sintetico e schematico per facilitarne la fruizione, evitando ridondanze e ripetizioni di concetti”. Critico il tema della catena di comando: il piano si limita “ad elencare sommariamente i vari possibili attori”. Inoltre, “non assume alcun valore decisionale né orientativo per le Regioni, ma rimanda a decisioni successive, non affronta gli aspetti relativi alla gestione della privacy e non propone scenari coerenti e sostenibili con la risposta che il Piano dovrebbe invece proporre”.

La Commissione Salute richiede anche lo stralcio di alcune parti e la loro inclusione in un documento successivo “concordato con le Regioni”. Si richiedono poi maggiori dettagli per “l’utilizzo del finanziamento soprattutto per l’assunzione di personale al fine di rafforzare le strutture regionali che si occupano della preparedness pandemica”. La nota è del 18 aprile scorso e si convoca una riunione tecnica in videoconferenza per il 21 maggio. Alla bocciatura delle Regioni risponde Maria Rosaria Campitiello, capo dipartimento prevenzione, ricerca ed emergenze sanitarie del ministero della Salute: “Apprendiamo delle nuove sopraggiunte esigenze rappresentate dalla Commissione salute in merito al nuovo piano pandemico, e per questo chiederò immediatamente un confronto con la Commissione, confidando che si possa arrivare nel più breve tempo alla chiusura del testo del nuovo piano nell’interesse della salute pubblica degli italiani”. Il piano, sottolinea, “è frutto di un lungo percorso di condivisione anche con i rappresentanti delle Regioni, le cui richieste sono state nella maggior parte recepite nella stesura del documento”.

Campitiello ricorda inoltre che l’ultima legge di bilancio stanzia i fondi necessari per l’attuazione del piano aggiornato: si tratta di 50 milioni di euro per l’anno 2025; 150 milioni per il 2026 e 300 milioni annui a decorrere dal 2027. Il nuovo piano – inviato alla Conferenza delle Regioni lo scorso febbraio e che introduce delle modifiche rispetto alle bozze precedenti – prevede, tra le misure indicate, l’impiego dei vaccini ma non come unico strumento per contrastare la diffusione dei contagi, restrizioni alla libertà personale solo in alcuni casi e unicamente di fronte a una “pandemia di carattere eccezionale”, ma senza ricorrere ai Dpcm come invece è avvenuto negli anni del Covid. Previsti anche test, isolamento dei casi, tracciamento dei contatti e la messa in quarantena degli individui esposti, così come la nomina di un Commissario straordinario. Il piano ipotizza poi 3 scenari, due dovuti a virus influenzali e considerati più probabili e il cosiddetto worst-case, il peggiore possibile, poco probabile ma che non può essere escluso. In quello più grave si stimano fino a 3 milioni di ricoveri e oltre 360mila persone in terapia intensiva.

“Le Regioni stroncano il piano del governo, ma danno l’ok alle misure di Conte”, commenta Andrea Quartini, capogruppo M5s in Commissione Affari Sociali: “Quello che non viene nominato dalla Commissione Salute – sottolinea – sono infatti le misure contenute nel piano, quelle su cui l’esecutivo ha fatto copia-incolla dagli strumenti messi in campo dal governo Conte durante il Covid e che vengono evidentemente giudicate positivamente”.

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Salute

Curare l’ipertensione riduce rischio demenza e declino mentale

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Combattere la pressione alta riduce del 15% il rischio di demenza e del 16% quello di declino cognitivo: lo rivela uno studio clinico di fase 3 che ha coinvolto quasi 34.000 pazienti, i cui risultati sono resi noti su Nature Medicine, evidenziando che un controllo più intensivo sui pazienti ipertesi, potrebbe ridurre l’impatto globale della demenza. Lo studio è stato condotto da epidemiologi e clinici dell’università del Texas a Dallas. Si stima che il numero globale di persone colpite da demenza raggiungerà 152,8 milioni entro il 2050.

Diversi studi hanno evidenziato che adottare uno stile di vita sano, dalla dieta all’attività fisica regolare, potrebbe essere il modo più efficace per ridurre l’aumento dei casi a livello globale. Si è anche visto che le persone con ipertensione non trattata hanno un rischio maggiore del 42% di ammalarsi nel corso della vita rispetto ai coetanei sani. Questo lavoro, però, è proprio uno studio clinico per testare l’effetto dei farmaci antipertensivi sul rischio di demenza. Diretto da Jiang He, lo studio ha valutato l’efficacia di un intervento condotto da operatori sanitari sul controllo della pressione, sulla demenza e sulla compromissione cognitiva, in 33.995 pazienti ipertesi in Cina.

I pazienti avevano almeno 40 anni, vivevano in zone rurali e soffrivano di ipertensione non gestita. I pazienti sono stati divisi in due gruppi: 17.407 pazienti hanno ricevuto farmaci antipertensivi e sono stati seguiti dal personale sanitario con consigli anche a casa relativi allo stile di vita (inclusi perdita di peso, riduzione del sale nella dieta e del consumo di alcol) e aderenza alla terapia farmacologica. I partecipanti nel gruppo di controllo sono stati formati nella gestione della pressione arteriosa ma con monitoraggi solo ambulatoriali. Nel corso di 48 mesi, gli autori hanno osservato che il gruppo di intervento ha ottenuto un miglior controllo della pressione sanguigna, con un numero maggiore di pazienti che ha raggiunto i livelli target rispetto al gruppo di controllo. Ma soprattutto è emerso che una gestione intensiva della pressione riduce sostanzialmente il rischio di demenza di qualsiasi tipo (non solo Alzheimer) del 15% e quello di declino cognitivo del 16%. Secondo gli autori questo tipo di intervento dovrebbe essere ampiamente adottato e ampliato per contribuire ad alleggerire il carico globale della demenza.

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Cronache

Aneurisma della vena renale: intervento da record al Santobono su un 17enne

Salvato il rene con un’operazione mininvasiva: è il primo caso al mondo in età adolescenziale.

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Un intervento mai eseguito prima al mondo su un paziente adolescente è stato portato a termine con successo all’Ospedale Santobono di Napoli. Un ragazzo di 17 anni è stato operato d’urgenza per un raro aneurisma della vena cava-renale, una patologia riscontrata finora solo in pochi casi al mondo, e sempre in età adulta. La straordinaria operazione ha permesso di salvare il rene, evitando l’asportazione dell’organo grazie all’utilizzo della chirurgia laparoscopica, tecnica mininvasiva d’eccellenza.

Il primo caso al mondo trattato in età pediatrica

Il giovane era stato trasferito d’urgenza da un altro ospedale dopo che la dilatazione anomala della vena renale destra, fino alla congiunzione con la vena cava, aveva compromesso seriamente la funzionalità renale. L’intervento è stato eseguito dal dottor Giovanni Di Iorio, direttore della Struttura complessa di Urologia pediatrica del Santobono, con la sua equipe altamente specializzata. Nessuno dei casi simili descritti in letteratura scientifica aveva mai consentito di salvare il rene. In questo caso, invece, è stata possibile una ricostruzione minuziosa della vena renale, senza occlusione e senza asportazione dell’organo.

Chirurgia mininvasiva e recupero record

L’intervento, reso ancora più complesso dalla posizione delicata dell’aneurisma e dalle sue dimensioni, è stato eseguito in laparoscopia, tecnica che ha ridotto notevolmente il dolore post-operatorio e permesso un recupero rapido. «Abbiamo scelto un approccio mininvasivo avanzato, grazie all’esperienza del nostro team e al supporto dell’equipe anestesiologica, riuscendo a garantire al paziente una soluzione efficace e sicura», ha dichiarato il dottor Di Iorio.

Una nuova frontiera per la chirurgia adolescenziale

«La fascia adolescenziale è spesso in una terra di mezzo tra pediatria e medicina per adulti», ha spiegato Rodolfo Conenna, direttore generale del Santobono-Pausilipon. «Per questo stiamo lavorando per ampliare i nostri percorsi assistenziali dedicati ai giovani fino ai 18 anni». Tutte le competenze acquisite saranno trasferite nel nuovo ospedale Santobono, in costruzione a Napoli Est, con spazi più ampi, nuove tecnologie e una forte spinta sulla ricerca scientifica.

Il giovane paziente, ora in ottime condizioni cliniche, sarà a breve dimesso e continuerà il percorso di recupero con un monitoraggio specialistico costante da parte del team del Santobono.

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