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Corona Virus

L’immunità di gregge non funziona, lo stop da 80scienziati

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Era apparsa come la soluzione ideale per combattere il nuovo coronavirus e vari leader mondiali – dal premier britannico Boris Johnson al presidente brasiliano Jair Bolsonaro fino a quello degli Stati Uniti Donald Trump – l’hanno appoggiata convintamente, nonostante il giudizio degli esperti non fosse unanime. Oggi arriva pero’ la bocciatura ufficiale della scienza: l’immunita’ di gregge non arresta il virus, avvertono 80 esperti da tutto il mondo in una lettera aperta sulla rivista Lancet. Cio’ che serve in questo momento, al contrario, sono misure efficaci per il contenimento del contagio mentre nuovi passi avanti si stanno facendo sul fronte dei vaccini anti-Covid, anche se per un vaccino disponibile per tutti bisognera’ presumibilmente attendere il 2022. L’immunologo Usa Anthony Fauci gia’ lo scorso agosto avvertiva che se gli Stati Uniti dovessero lasciare che il coronavirus si diffondesse senza controlli per centrare la cosiddetta immunita’ di gregge il numero di morti salirebbe a un livello “totalmente inaccettabile”. Una posizione oggi sottoscritta da 80 scienziati che, su Lancet, affermano come l’idea di arrestare il virus raggiungendo l’immunita’ di gregge – per cui, una volta raggiunto un livello di immunizzazione considerato sufficiente in una popolazione, si possono considerare protette anche le persone che non hanno gli anticorpi a quel virus – e’ “un errore pericoloso, non supportato da alcuna evidenza scientifica”. Tale immunita’, infatti, non arresterebbe comunque il virus, che tornerebbe piu’ volte in nuove ondate anche perche’ sono sempre maggiori le evidenze secondo cui l’immunita’ post-infezione dura solo pochi mesi dal contagio. Percio’ servono con urgenza “efficaci misure di controllo”, scrivono gli scienziati. Tramontata la speranza nell’efficacia di tale approccio, l’arma definitiva contro la pandemia resta il vaccino. Passi avanti si continuano a fare ogni giorno e primi risultasti positivi si sono registrati anche per un candidato vaccino cinese, il BBIBP-CorV, ottenuto utilizzando l’intero virus SarsCov2 inattivato. E’ sicuro ed ha dimostrato di indurre una risposta immunitaria nei volontari, secondo i risultati preliminari di fase 1-2 pubblicati su The Lancet Infectious Diseases. La sperimentazione ha coinvolto oltre 600 volontari sani tra 18 e 80 anni di eta’. Proprio “la protezione degli anziani e’ un obiettivo chiave per un vaccino anti-Covid efficace poiche’ questo gruppo e’ a maggior rischio. E’ quindi incoraggiante che questo vaccino induca risposte anticorpali anche negli anziani over-60 e oltre”, afferma Xiaoming Yang, uno degli autori dello studio. Ad oggi sono 7 i candidati vaccini giunti alla finale fase 3 di sperimentazione. Non senza qualche imprevisto: dopo uno stop di alcuni giorni per una grave reazione in uno dei volontari del test, poi dimostratasi non collegata al vaccino, e’ infatti ripresa la fase 3 per il candidato anti-Covid messo a punto da Oxford-Irbm-AstraZeneca. Ed una sospensione cautelare e’ stata decisa qualche giorno fa anche per il candidato vaccino della Johnson & Johnson, sempre per una reazione avversa in uno dei partecipanti al test. Ma la pausa nella sperimentazione “e’ la dimostrazione che la ricerca e’ una cosa seria. Ancora non sappiamo cosa sia successo, ma stiamo cercando di capirlo perche’ al primo posto viene la sicurezza”, ha rilevato Massimo Scaccabarozzi, amministratore delegato di Janssen Italia, divisione farmaceutica di Johnson&Johnson. Quanto ai tempi, un vaccino potrebbe essere disponibile gia’ all’inizio del 2021, ha affermato il viceministro alla Salute Pierpalo Sileri, ma questo non significa che sara’ subito attuabile una vaccinazione di massa. Un concetto chiarito dalla stessa Organizzazione mondiale della sanita’: “La priorita’ l’avranno gli operatori sanitari e quelli in prima linea. Poi ci saranno gli anziani”, ha spiegato la capo ricercatrice Oms Soumya Swaminathanla. Un giovane in salute, ha chiarito, “potrebbe dover aspettare fino al 2022”.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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