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L’era post Brexit inizia senza caos, ma la Scozia dice no

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Il temuto caos preannunciato alla vigilia non c’e’ stato, almeno per ora. Il giorno 1 dell’era post-Brexit – inaugurata allo scoccare sul Big Ben della mezzanotte dell’anno che inizia da Ivanov Shumeykov, primo camionista ad attraversare la Manica sotto il segno dell’addio del Regno Unito al mercato unico e all’unione doganale, a coronamento del percorso avviato dalla vittoria di ‘Leave’ al referendum del giugno 2016 e poi dal divorzio formale da Bruxelles di fine 2019 – e’ trascorsa senza code ne’ intoppi gravi. Ma ritardi e disagi per tir e merci sembrano solo rimandati di qualche giorno, quando il traffico riprendera’ a pieno regime; mentre sara’ il trascorrere dei mesi a misurare la portata dei contraccolpi piu’ generali per l’isola e per il governo Tory di Boris Johnson: alle prese fin da subito con le rinnovate istanze secessioniste della Scozia e, piu’ marginalmente, con le bizze d’un padre eurofilo che lo imbarazza una volta di piu’ chiedendo la doppia cittadinanza francese. Chi si aspettava code chilometriche lungo l’autostrada per Dover, e ingorghi stradali in prossimita’ degli scali dell’Eurotunnel o dei porti sul Canale simili a quelli registrati in occasione della chiusura delle frontiere da parte della Francia nei giorni prenatalizi causa Covid, ha dovuto ricredersi. Complici la prima giornata del nuovo anno e una contrazione dei trasporti dovuta anche alla scelta compiuta da diverse aziende britanniche che hanno preferito sospendere i servizi nella prima parte di gennaio, in attesa di maggiore chiarezza sui nuovi controlli doganali. Perche’ se ha scongiurato l’introduzione di dazi, tariffe e quote, l’accordo sul dopo Brexit, raggiunto il giorno prima di Natale tra Londra e Bruxelles per regolare i futuri rapporti commerciali (e non solo), non ha potuto evitare “sostanziali cambiamenti pratici e procedurali” sullo spostamento dei prodotti, sotto forma di verifiche e documenti d’accompagnamento. Misure burocratiche a cui il Regno Unito non intende dare per ora attuazione, ma che l’Ue introduce immediatamente, per un costo amministrativo complessivo di circa 8 miliardi di euro all’anno a carico degli esportatori britannici. E non senza sanzioni per i trasgressori che vanno da multe di 350 euro sino al divieto di transito. Per le prime settimane, in ogni modo, una certa indulgenza nei controlli appare scontata, proprio per evitare l’aggravarsi di rallentamenti comunque inevitabili quando i transiti torneranno ai livelli soliti. E scongiurare al contempo pericolose tensioni con i camionisti provenienti dall’isola, che al momento devono sottoporsi fra l’altro a test anti-Covid obbligatori al confine: sullo sfondo di un Paese flagellato in questi stessi giorni dal diffondersi della cosiddetta ‘variante inglese’ del coronavirus, da un allarmante rialzo di contagi censiti a una media di 50.000 circa al giorno, da nuove ombre di sovraffollamento in alcuni ospedali. Ma se sul fronte dei trasporti il governo puo’ tirare un temporaneo sospiro di sollievo, e’ l’integrita’ del Regno a tornare d’attualita’ (fra le altre incognite future che incombono su settori come i servizi finanziari della City, l’immigrazione, i movimenti personali, le universita’, l’industria musicale, il business dello sport o la cooperazione fra polizie) dopo l’ultimo minaccioso tweet della first minister indipendentista scozzese e leader nazionalista dell’Snp, Nicola Sturgeon. “La Scozia tornera’ presto, Europa. Tenete la luce accesa”, ha scritto Sturgeon, accompagnando il suo proclama con la foto provocatoria della scritta ‘Europe-Scotland’ proiettata la notte di Capodanno sulla facciata della sede della Commissione a Bruxelles. Una sfida destinata a consumarsi gia’ alla tornata di elezioni amministrative britanniche di maggio, quando verra’ rinnovato pure il Parlamento locale di Edimburgo; e in caso di vittoria netta dell’Snp saliranno di certo i toni della rivendicazione d’un nuovo referendum per la secessione da Londra della nazione del nord, molto piu’ anti-brexiteer dell’Inghilterra, dopo quello perduto nel 2014. Una preoccupazione in piu’ per BoJo che ha si’ guidato il Regno fuori dall’Ue, ma deve subire intanto pure l’ennesimo piccolo ‘affronto’ personale dal padre Stanley – da sempre pro Remain come buona meta’ della sua famiglia – il quale ha annunciato a stretto giro di voler chiedere un secondo passaporto francese in virtu’ dei natali di sua madre (nonna paterna di Boris).”Saro’ sempre europeo”, ha tagliato corto Stanley, 80enne ex eurodeputato Tory, evidentemente indifferente alle presunte nuove liberta’ evocate dal figlio fuori dal Club dei 27. Come quella, entrata in vigore giusto in queste ore, che segna l’abolizione Oltremanica dell’Iva (Vat) su assorbenti e altri prodotti igienici destinati alle donne: in barba alla tassazione minima del 5% prevista per ora dalle norme comunitarie.

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Elezioni in Canada, liberali di Carney vincono legislative e preparano la guerra a Trump

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Secondo le proiezioni dei media locali, è il Partito liberale di Mark Carney a vincere le elezioni legislative canadesi. I risultati preliminari del voto non permettono però di stabilire se il premier guiderà un governo di maggioranza o di minoranza.

Il primo ministro si avvierebbe quindi a portare i Liberali verso un nuovo mandato, dopo aver convinto gli elettori che la sua esperienza nella gestione delle crisi economiche lo rende pronto ad affrontare le mire del presidente americano Donald Trump. L’emittente pubblica Cbc e Ctv News hanno entrambe previsto che il Partito liberale formerà il prossimo governo canadese. Solo pochi mesi fa la strada per il ritorno al potere dei conservatori guidati da Pierre Poilievre sembrava spianata, dopo dieci anni sotto la guida di Justin Trudeau. Ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua offensiva senza precedenti contro il Canada, con dazi e minacce di annessione, hanno cambiato la situazione.

Elezioni in Canada, ecco chi è il primo ministro Mark Carney: l’uomo delle crisi

A Ottawa, dove i liberali si sono radunati per la notte delle elezioni, l’annuncio di questi primi risultati ha provocato un applauso e grida di entusiasmo. “Sono felicissimo, è ancora presto ma sono fiducioso che riusciremo ad avere la maggioranza”, David Lametti, ex ministro della Giustizia. La guerra commerciale di Trump e le minacce di annettere il Canada, rinnovate in un post sui social media il giorno delle elezioni, hanno indignato i canadesi e hanno reso i rapporti con gli Stati Uniti un tema chiave della campagna elettorale.

Carney, che non aveva mai ricoperto una carica elettiva e aveva sostituito Trudeau come premier solo il mese scorso, ha basato la sua campagna su un messaggio anti-Trump. In precedenza ha ricoperto la carica di governatore della banca centrale sia nel Regno Unito che in Canada e ha convinto gli elettori che la sua esperienza finanziaria globale lo rende pronto a guidare il Paese attraverso una guerra commerciale. Ha promesso di espandere le relazioni commerciali con l’estero per ridurre la dipendenza del Canada dagli Stati Uniti.

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Elezioni in Canada, ecco chi è il primo ministro Mark Carney: l’uomo delle crisi

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Ha guidato due banche centrali ma non era mai stato eletto. Il primo ministro canadese Mark Carney, che ha vinto le elezioni generali di lunedi’, e’ abituato a navigare nella tempesta. Con la vittoria del suo partito alle elezioni legislative, dovra’ rapidamente mettersi alla prova contro Donald Trump. Una sfida che dice di poter vincere: “Sono piu’ utile nei momenti di crisi.

Non sono molto bravo in tempo di pace”, ha detto di recente, in tono divertito, a un piccolo pubblico in un bar dell’Ontario. In poche settimane, questo sessantenne novizio della politica e’ riuscito a convincere i canadesi che la sua competenza in materia economica e finanziaria lo rende l’uomo giusto per guidare il paese immerso in una crisi senza precedenti. In effetti, la recessione minaccia questa nazione del G7, la nona economia piu’ grande del mondo, dopo l’imposizione dei dazi doganali da parte di Trump, che continua a ripetere che il destino del Canada e’ quello di diventare uno stato americano.

Nato a Fort Smith, nell’estremo nord, ma cresciuto a Edmonton, in questo West canadese piuttosto rurale e conservatore, Mark Carney e’ padre di quattro figlie e appassionato di hockey. Ha studiato ad Harvard e Oxford, prima di fare fortuna come banchiere d’investimento presso Goldman Sachs, a New York, Londra, Tokyo e Toronto. Nel 2008, nel bel mezzo della crisi finanziaria globale, e’ stato nominato governatore della Banca del Canada dal primo ministro conservatore Stephen Harper. Cinque anni dopo, e’ stato scelto dal primo ministro britannico David Cameron per dirigere la Banca d’Inghilterra, diventando il primo straniero a dirigere l’istituto. Poco dopo, si trovera’ di fronte alle turbolenze causate dal voto sulla Brexit. Un compito svolto con “convinzione, rigore e intelligenza”, secondo l’allora Cancelliere dello Scacchiere britannico, Sajid Javid.

Da anni circolavano voci sul suo ingresso in politica. Ma e’ stato solo all’inizio di gennaio, dopo le dimissioni di Justin Trudeau, di cui era stato consigliere economico, che ha deciso di buttarsi nell’arena. Dopo aver conquistato il Partito Liberale all’inizio di marzo, e’ diventato primo ministro e ha indetto le elezioni in seguito, dicendo che aveva bisogno di un “mandato forte” per affrontare le minacce di Trump, che ha cercato di “spezzare” il Canada.

Una vera e propria scommessa per questo ex portiere di hockey che non aveva mai fatto campagna elettorale e che ha preso le redini di un partito al suo punto piu’ basso nei sondaggi, appesantito dall’impopolarita’ di Justin Trudeau alla fine del suo mandato. E molti analisti hanno messo in dubbio la sua capacita’ di ribaltare la situazione su molti canadesi, mentre molti canadesi hanno incolpato i liberali per l’alta inflazione e la crisi immobiliare nel paese. Poco carismatico, in contrasto con l’immagine sgargiante di Justin Trudeau nei suoi primi giorni, sembra che siano proprio la sua serieta’ e il suo curriculum ad aver finalmente convinto la maggioranza dei canadesi.

“E’ un po’ un tecnocrate noioso, che soppesa ogni parola che dice”, dice Daniel Be’land della McGill University di Montreal. Ma anche “uno specialista in politiche pubbliche che padroneggia molto bene i suoi dossier”. “Questo profilo e’ rassicurante e soddisfa le aspettative dei canadesi per gestire questa crisi”, aggiunge Genevie’ve Tellier. Il suo principale avversario durante la campagna, il conservatore Pierre Poilievre, lo ha descritto come un membro dell'”e’lite che non capisce cosa sta passando la gente comune”, ha detto Lori Turnbull, professoressa alla Dalhousie University. Resta un argomento che sembra fargli perdere la flemma: la questione dei suoi beni. Secondo Bloomberg, a dicembre aveva stock option per un valore di diversi milioni di dollari. E i suoi rari scambi di tensione con i giornalisti durante la campagna elettorale riguardavano questa fortuna personale.

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Putin ordina 3 giorni di tregua. Trump, ‘sia permanente’

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Una nuova tregua di tre giorni, dall’8 al 10 maggio: è questa per ora la risposta di Vladimir Putin alle sollecitazioni di Donald Trump, che era tornato nelle ultime ore a chiedergli di “smettere di sparare, sedersi e firmare un accordo” per la fine dei combattimenti. Troppo poco, fa sapere la Casa Bianca, secondo la quale quella che il presidente americano chiede è “una tregua russo-ucraina permanente”. Stessa reazione da Kiev. “Se la Russia vuole davvero la pace, dovrebbe cessare immediatamente il fuoco”, per “30 giorni” e non solo tre, ha affermato il ministro degli Esteri, Andriy Sybiga. Il segnale è stato lanciato da Putin dopo le nuove dichiarazioni che esprimono tutta la frustrazione di Trump. Questo secondo cessate il fuoco – dopo quello di 30 ore per Pasqua – dovrebbe coprire non solo il 9 maggio, quando in Russia si festeggerà l’80/o anniversario della vittoria sul nazifascismo, ma anche l’8, quando lo stesso evento sarà celebrato in Ucraina. “La Russia ritiene che la parte ucraina seguirà questo esempio”, ha detto Putin.

Ma in caso di violazioni, le forze armate di Mosca “daranno una adeguata ed efficace risposta”. Durante la tregua pasquale le parti si erano accusate reciprocamente di numerose violazioni, ma avevano riconosciuto entrambe una significativa riduzione dei combattimenti. Nella dichiarazione di cessate il fuoco, Putin ribadisce “la sua disponibilità a negoziati di pace senza precondizioni, miranti ad eliminare le cause di fondo della crisi ucraina e all’interazione costruttiva con i partner internazionali”. Gli stessi concetti espressi dopo l’incontro in San Pietro fra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, quando il presidente Usa aveva per la prima volta criticato duramente Putin accusandolo di “sparare missili in aree civili e città” e chiedendosi se non lo stesse “prendendo in giro”. “Perché aspettare fino all’8 maggio? Se la guerra potesse essere fermata ora e la tregua mantenuta per 30 giorni – ha scritto Sybiga su X – sarebbe un vero passo avanti, non solo un gesto per una parata”. Mentre la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha fatto sapere che Trump vuole un cessate il fuoco definitivo, ma esprime insoddisfazione nei confronti sia di Putin sia di Zelensky, chiedendo loro di sedersi finalmente al tavolo delle trattative.

Lo stesso tycoon, del resto, non ha risparmiato ancora qualche punzecchiatura al presidente ucraino. “Mi dice che ha bisogno di più armi, ma lo chiede da tre anni”, ha detto, con apparentemente riferimento al colloquio in Vaticano. E poi è tornato ad affermare che ormai la Crimea è persa per l’Ucraina, “perché è stata data via da Barack Obama e Biden”. E a chi gli chiedeva se il capo di Stato ucraino potrebbe accettare questa prospettiva, ha risposto: “Penso di sì”. Zelensky, insomma, adesso è “più calmo” e “vuole un accordo”, ha concluso Trump. Non è chiaro se le affermazioni dell’inquilino della Casa Bianca riflettano reali segnali promettenti o semplicemente la sua impazienza. Di possibili trattative sono tornati a parlare in un colloquio telefonico Lavrov e il segretario di Stato americano Marco Rubio. Nella conversazione è stata sottolineata “l’importanza di consolidare i presupposti che stanno emergendo per avviare negoziati”, ha detto il ministero degli Esteri di Mosca. Ma è impossibile sapere se dietro ai felpati toni diplomatici ci sia qualcosa di concreto.

Lo stesso Lavrov, del resto, in un’intervista al giornale brasiliano O Globo, ha detto che “la palla” è nel campo di Kiev, che però finora “non ha dimostrato la sua capacità di negoziare”. Per farlo, affermano all’unisono Lavrov e il Cremlino, l’Ucraina dovrebbe per prima cosa revocare il decreto presidenziale firmato nel settembre del 2022, e tuttora in vigore, che vieta negoziati con Putin. E comunque per Mosca, insiste Lavrov, rimane “imperativo” l’obiettivo di vedere riconosciuto a livello internazionale il suo possesso non solo della Crimea, ma anche delle quattro regioni russe che oggi le sue truppe controllano solo parzialmente: Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson. La mediazione che per ora l’amministrazione Trump si mostra determinata a portare avanti sembra dunque ancora in salita, mentre sul terreno si continua a morire. Tre persone sono rimaste uccise in un attacco russo su un villaggio nella regione di Donetsk, secondo l’ufficio del Procuratore regionale. E intanto il Wall Street Journal lancia un nuovo allarme sui presunti piani ostili di Mosca contro Paesi della Nato, scrivendo che a circa 160 chilometri dal confine con la Finlandia, nella città di Petrozavodsk, gli ingegneri militari russi stanno espandendo le basi dove il Cremlino prevede di creare un nuovo quartier generale dell’esercito per supervisionare decine di migliaia di soldati nei prossimi anni.

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