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Le vite interrotte di Mariupol, “un mese d’orrore”

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“Il 24 febbraio non dovevo essere a Mariupol, ma in vacanza nei Carpazi. Era il mio compleanno. Mia sorella pero’ aveva promesso che sarebbe venuta da Kharkiv, cosi’ sono rimasta. E alle 5 del mattino, tutto il quartiere ha deciso di festeggiarmi con i fuochi d’artificio delle esplosioni”. L’incubo di Polina e’ quello di un’intera generazione interrotta. I primi giorni, molti abitanti di Mariupol non volevano crederci. Come sua madre, racconta. “All’inizio – spiega – avevamo deciso di restare, perche’ amiamo la nostra citta’. Si sentivano le esplosioni, ma fino al 2 marzo siamo rimasti a casa. Poi, quella mattina, un proiettile e’ arrivato fin dentro. E abbiamo iniziato a cercare un rifugio, anche se non ce ne erano molti. Cosi’ ci siamo nascosti nei sotterranei del Palazzo della Cultura”. In quel bunker, e’ rimasta fino al 6 marzo. Poi, con il cibo finito e l’acqua che scarseggiava, la decisione di provare a scappare, finche’ sono riusciti a raggiungere un’altra citta’ piu’ sicura dell’Ucraina. Da dove, ora, guardano la loro Mariupol agonizzante, con un misto di incredulita’ e sconforto. La fuga di Vlad, giornalista di 26 anni, e’ iniziata il 20 marzo, quando, racconta, “11 bombardamenti hanno colpito il nostro palazzo di notte”. Da Mariupol, e’ finito con la famiglia nelle zone controllate dai russi nella regione di Donetsk. Tornare nell’area in mano ai governativi in Ucraina, dice, era impossibile. E cosi’ la loro vita da profughi e’ iniziata in terra nemica, prima a Rostov sul Don, poi a Mosca, finche’ hanno trovato un passaggio per la Finlandia. Quel 24 febbraio e’ scolpito anche nella memoria di Daria, fin nei minimi dettagli. “Siamo stati svegliati alle 5:22 da una grande esplosione. Abbiamo scoperto che una granata era caduta su una casa a 4 km da noi. Quel giorno abbiamo deciso di correre al rifugio antiaereo”. All’inizio, racconta, la paura era forte, ma la situazione ancora sopportabile. “Pensavamo che tutto sarebbe finito in una settimana”, dice. I primi di marzo, pero’, le cose sono peggiorate. Niente piu’ elettricita’, acqua a singhiozzo. “I bombardamenti si sono intensificati. Uno ha colpito il nostro rifugio, che ha retto grazie alle mura molto spesse”. In quel bunker, la situazione si faceva sempre piu’ difficile. “C’erano 500 persone, ma solo 6 bagni. Le condizioni igieniche erano intollerabili. I bambini hanno cominciato a stare male, poi anche gli adulti. I negozi ormai erano chiusi, e in citta’ sono iniziati i saccheggi”. Il 5 marzo, racconta, i militari hanno portato meta’ degli sfollati nei sotterranei del Teatro d’arte drammatica, che 11 giorni dopo sarebbe stato colpito in uno dei bombardamenti piu’ drammatici dall’inizio della guerra. L’indomani, un raid ha colpito ancora il loro rifugio, che ha preso fuoco. E da allora hanno iniziato a saltare da un bunker all’altro. Il 23 marzo la decisione di provare a scappare, a ogni costo, tra strade sventrate e auto carbonizzate. “Ogni 5 minuti c’era un bombardamento sull’acciaieria Azovstal, alla nostra sinistra, e su quella Ilych, alla nostra destra, dall’altra parte del fiume. Dovevamo arrivare sull’altra sponda. Prima c’erano 5 ponti. Uno dopo l’altro, li abbiamo trovati distrutti. Per fortuna, l’ultimo, quello d’emergenza, era ancora mezzo intatto”. Il 25 marzo, infine, trovano un passaggio per Zaporizhzhya. “Abbiamo attraversato 19 posti di blocco. E’ stata dura, ma nulla in confronto a quello che avevamo vissuto. Per un paio di giorni sono rimasta in uno stato di apatia, felice solo di non sentire piu’ le bombe. Poi ho cominciato a pensare a quello che avevamo passato. E mi sono messa a piangere”.

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A Costanza tra Nato e ultradestra: la Romania divisa tra difesa occidentale e sovranismo populista

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Alle porte di Costanza, in Romania, le ruspe non si fermano mai. Anche di sabato, i cantieri sono in moto per ampliare la base aerea di Kogalniceanu, destinata a diventare il più grande presidio Nato in Europa. Il governo di Bucarest ha investito 2,5 miliardi di euro per rafforzare il fianco Est dell’Unione europea in chiave anti-Mosca. I cittadini, almeno per ora, sembrano approvare: «Ci sentiamo più protetti» dice Puio, ingegnere in pensione. «Porta lavoro», aggiunge George, saldatore.

LO STRAPPO ELETTORALE E L’OMBRA DELLA RUSSIA

Ma dietro questo consenso apparente, serpeggia la rabbia per la politica interna. Il primo turno delle elezioni presidenziali, tenutosi a novembre, è stato annullato dopo una sentenza shock della Corte costituzionale: accuse di ingerenze russe e irregolarità legate al candidato nazionalista Calin Georgescu (nella foto). Scomparso dalla scena pubblica, Georgescu resta un idolo dell’ultradestra romena. Anche se esplicitamente contrario alla Nato, in molti continuano a negarlo. «Sono fake news», assicura la professoressa Vasile Mandita.

IL VOTO DELL’ULTRADESTRA E LA SPINTA POPULISTA

Dalla regione della Dobrugia, Georgescu ha ottenuto i voti più alti. Ora, l’Aur, partito sovranista guidato da George Simion, punta a incassare quell’eredità politica. Simion ha promesso – con ambiguità – che in caso di vittoria nominerà Georgescu premier. E i suoi elettori lo prendono alla lettera: «Farà tutto quello che vuole Georgescu», ripetono. Simion è oggi il favorito, supportato anche da figure religiose controverse come l’arcivescovo Teodosio, noto per le sue simpatie filorusse e legami con i movimenti fascisti.

IL RITORNO DI PONTA E LA SFIDA A DUE TRA SOVRANISTI

In questo scenario s’inserisce anche Victor Ponta, ex premier e ora indipendente populista. A Isaccea, cittadina romena separata dall’Ucraina solo dal Danubio, dove sono caduti droni russi, la guerra non ha suscitato particolare empatia verso i profughi ucraini. «Lo Stato li aiutava più di noi», lamentano. E in molti ricordano le riforme economiche di Ponta, tra cui il taglio dell’Iva dal 24 al 19%.

Ora Ponta, definito un contorsionista della politica, si propone come nazionalista moderato ma competente, in contrapposizione a Simion. Se riuscirà a passare al ballottaggio, si prospetta una sfida tra due sovranisti, con implicazioni pericolose per l’equilibrio politico dell’Unione europea.

L’EUROPA GUARDA CON PREOCCUPAZIONE

Non è detto, però, che la sfida finale sarà tutta interna al fronte populista. A contendersi l’accesso al secondo turno ci sono anche due candidati europeisti: Nicusor Dan, sindaco di Bucarest, e Crin Antonescu, sostenuto dalla coalizione di governo. Ma la Romania sembra sempre più divisa tra lo slancio verso l’Occidente e le sirene del nazionalismo, tra la sicurezza assicurata dalla Nato e la retorica della Romania first.

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Donald Trump si immagina Papa: provocazione, meme e lotte di potere nella Chiesa americana

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Un’immagine generata dall’intelligenza artificiale ritrae Donald Trump in abiti papali: tiara dorata, croce pettorale e sguardo trionfale. Il fotomontaggio non è rimasto confinato nei social più irriverenti, ma è stato rilanciato dallo stesso presidente degli Stati Uniti sul sito ufficiale della Casa Bianca. Un gesto che ha suscitato sconcerto e ironia, alimentando ancora una volta il culto dell’immagine di un leader che gioca con l’iconografia del potere assoluto, tra politica e religione.

In questo contesto, il senatore Lindsey Graham, da sempre fedele a Trump, si è spinto a dichiarare che non sarebbe da escludere l’ipotesi di un “Pontefice Donald I”, ipotizzando che concentrare in una sola figura la guida degli Stati Uniti e quella della Chiesa cattolica sarebbe «vantaggioso per il mondo». Uno scherzo di cattivo gusto? Probabile. Ma il messaggio è chiaro: Trump vuole restare al centro della scena, anche a costo di ridicolizzare simboli millenari.

Le ambizioni americane nel prossimo Conclave

Sebbene il gesto resti simbolico e provocatorio, rilancia l’attenzione sul peso crescente della Chiesa americana nel futuro del Vaticano. Gli Stati Uniti rappresentano il secondo blocco cardinalizio più numeroso dopo l’Italia, e i loro vescovi sono divisi tra una maggioranza conservatrice — guidata da figure come i cardinali Raymond Burke e Timothy Dolan — e una minoranza progressista rappresentata da Blase Cupich e Joseph Tobin.

Le tensioni si estendono anche ai nomi potenzialmente papabili: Kevin Farrell e Robert Prevost, pur considerati “mediatori”, portano con sé il fardello degli scandali e delle mancate vigilanze, specialmente nei casi di abusi. Dolan stesso, uomo vicino a Trump, appare ormai più come kingmaker che come candidato al soglio pontificio.

La Chiesa americana e lo spettro dello scisma conservatore

Il peso crescente dei conservatori americani nella Chiesa cattolica è legato anche a un progetto culturale e ideologico preciso: frenare o ribaltare le riforme di Papa Francesco, considerate troppo aperte al relativismo. Dalla liturgia in latino al rigido dogmatismo su sesso, matrimonio e sacerdozio, il cattolicesimo tradizionalista americano si fa sentire, sostenuto anche economicamente da think tank e fondazioni conservatrici.

Il momento simbolico di questa frattura fu il 26 agosto 2018, quando Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Usa, accusò Francesco di aver coperto abusi sessuali del cardinale McCarrick. Da lì, un tentativo di “golpe ecclesiastico” sostenuto anche da figure chiave del trumpismo come Steve Bannon, che continua a definire il Papa un “marxista illegittimo”.

Il peso politico di Vance e la reazione dei vescovi

A completare il quadro di tensione c’è JD Vance, vicepresidente Usa, cattolico convertito e oppositore dichiarato di Bergoglio. Francesco lo aveva inizialmente escluso da un incontro per ragioni di salute, poi ricevuto comunque — un gesto che ha preceduto di poche ore la morte del Pontefice. Vance si è dichiarato parte della “Chiesa della Resistenza”, la corrente ideologica interna alla Chiesa che si ispira alle posizioni di Viganò.

Le sue dichiarazioni, soprattutto quelle secondo cui i vescovi si opporrebbero alle deportazioni di massa solo per interesse economico, sono state definite “malvagie e volgari” proprio dal cardinale Dolan, da sempre vicino a Trump.

La Santa Sede osserva, mentre Trump gioca con il sacro

Il Vaticano non ha commentato ufficialmente l’ultima provocazione di Trump, ma è evidente che il clima tra Santa Sede e Washington resta teso. L’immagine papale del presidente è una metafora e una sfida, un gesto che, sotto la maschera del meme, rivela l’aspirazione profonda a un dominio culturale oltre che politico.

E mentre Trump indossa digitalmente l’abito del Papa, la Chiesa americana si avvicina al prossimo Conclave più spaccata che mai, pronta a pesare più delle altre nella scelta del successore di Pietro — ma anche a rischiare di spingere ancora più in là la frattura ecclesiale tra Nord e Sud del mondo, tra apertura e conservazione, tra sinodo e scisma.

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Il 9 maggio di Putin, vent’anni dopo: la parata della Vittoria tra retorica e potere globale

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Era il 2005 quando Vladimir Putin celebrava il 60° anniversario della vittoria contro il nazifascismo con i grandi della Terra al suo fianco: da George W. Bush a Jacques Chirac, da Hu Jintao a Silvio Berlusconi. Un tempo in cui la Russia sembrava al centro del mondo, non ai margini, come oggi. Quel 9 maggio segnò la nascita della parata militare che conosciamo, la prima grande cerimonia moderna che intrecciava memoria storica, potenza militare e ambizioni geopolitiche.

Da allora, la Festa della Vittoria è diventata il rito fondante dell’identità russa contemporanea, un momento in cui Mosca ribadisce il proprio posto nella storia e nella geopolitica. Un evento solenne, destinato a commemorare i milioni di morti della Grande Guerra Patriottica, ma anche a legittimare la visione politica di Putin sul presente e sul futuro della Russia.

Il culto della vittoria: da Breznev a Putin

Se oggi il 9 maggio è il simbolo della forza nazionale russa, non lo è sempre stato. Stalin scelse di sminuirlo per oscurare l’ascesa popolare del maresciallo Zhukov e per concentrare la sacralità del potere sul 7 novembre, anniversario della Rivoluzione. Solo con Breznev il 9 maggio tornò ad essere festa ogni cinque anni, trasformandosi però nel culto consolatorio della vittoria, utile a lenire il trauma collettivo della guerra.

Putin ha saputo farne un pilastro del suo potere personale, identificandosi con i valori eroici della resistenza sovietica per costruire una narrazione patriottica unificatrice. A partire dal 2005, il 9 maggio è diventato l’evento simbolico della Russia che resiste e trionfa.

L’ombra della guerra in Ucraina sulla celebrazione

Quest’anno, la parata sarà inevitabilmente segnata dal conflitto in Ucraina, che ha alterato l’immagine della Russia a livello globale. Durante una recente maratona educativa con i giovani, Putin ha parlato di “memoria storica come chiave per capire il presente”, unendo il ricordo della guerra del ‘45 con l’“Operazione militare speciale” in Ucraina. Ha invitato gli “eroi di oggi” a parlare con le nuove generazioni, per trasmettere i valori della “difesa della Patria”.

Xi Jinping torna a Mosca: segnale alla comunità internazionale

Mosca riceverà 19 leader stranieri, ma l’attenzione sarà tutta per uno: Xi Jinping. Il presidente cinese non partecipava alla Festa della Vittoria dal 2015. La sua presenza ha un significato geopolitico preciso: confermare che l’asse Mosca-Pechino è solido, nonostante l’attuale riavvicinamento tra la Russia e la nuova amministrazione americana guidata da Donald Trump. La collaborazione militare tra Russia e Cina resta avvolta dal riserbo, ma la postura multipolare auspicata dal Cremlino dal 2022 passa proprio da questa alleanza.

Il dilemma retorico: Putin parlerà ancora di antiamericanismo?

Negli ultimi anni, Putin ha fatto della retorica antioccidentale e antiamericana un marchio di fabbrica. Nel 2023 definì gli Stati Uniti «pronti a fare patti con il Diavolo pur di danneggiare la Russia». Ora, con un equilibrio globale più incerto e interlocutori ambigui, il leader russo dovrà decidere quale tono assumere il 9 maggio.

Da un lato vorrà mostrare forza e coesione interna; dall’altro dovrà misurare le parole per non compromettere i rapporti con i partner che, pur critici verso l’Occidente, non sposano fino in fondo il confronto armato.

Un messaggio al mondo: pace o sfida?

Il 9 maggio sarà anche un test per comprendere se Putin intende davvero aprire a una trattativa di pace o proseguire il conflitto. La presenza dei Brics, la postura di Pechino, l’assenza di Modi: tutti segnali da interpretare in chiave diplomatica.

Più che un semplice evento celebrativo, la parata sarà un barometro dello stato geopolitico della Russia, un’occasione per contare gli amici rimasti e per misurare il tono dello zar di fronte al mondo.

 

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