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L’Afghanistan e la geopolitica del cinismo

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Ashraf Ghani è durato dunque 10 giorni, nonostante mesi e mesi di negoziati, fiumi di denaro a sostegno delle sue armate, 6 .000 soldati americani ancora in questo momento a Kabul. Se vi dovessi dire quel che mi colpisce di più nella vicenda afghana, in questo giorno di ferragosto che ha visto la folgorante presa della capitale senza colpo ferire da parte dei mujiaheddin talebani, ebbene non avrei esitazioni: è la dichiarazione del Segretario di Stato americano, Anthony Blinken, resa alla CNN, secondo cui gli Stati Uniti “hanno raggiunto i loro obiettivi in Afghanistan”. “Mission accomplished“, disse il tutt’altro che innocuo Presidente G. Bush a bordo della portaerei Abraham Lincoln che stazionava al largo delle coste mediorientali, al tempo dell’invasione dell’Iraq. Disastri immani vennero negli anni successivi, centinaia di migliaia di morti, milioni di persone deterritorializzate…E le conseguenze di quella guerra sciagurata si svolgono ancora oggi nelle piane mesopotamiche, sotto gli occhi di tutti. 

Mission accomplished“, sentiamo dire oggi a Washington, con una lugubre coazione a ripetersi, che segnala nel modo più inquietante il vuoto pneumatico nel quale galleggia la politica estera americana. Almeno dal Vietnam in poi. E in ogni caso, noi il nostro giochino l’abbiamo fatto. Il Settimo Cavalleggeri ha suonato la sua carica. Per il resto, arrangiatevi. E, naturalmente, alla prossima.

Ashraf Ghani. Il presidente eletto scappato da Kabul

E ora, che succede? Quali sono le urgenze afghane che dovrebbero smuovere i blocchi marmorei del cinismo internazionale, per modo che questa fuga scomposta non si trasformi in un abbandono totale?

Sembra intanto che sia passato il principio elementare che “evacuazione” da Kabul non significhi solo “occidentali, civili e militari, che lasciano l’Afghanistan”, ma significhi altresì messa in salvo di tutti coloro che in un modo o in un altro hanno cooperato con le forze di occupazione, e delle loro famiglie. L’Italia, per parte sua, ha dichiarato di star facendo e di voler fare fino in fondo la sua parte. Ci contiamo.

Ma il punto cruciale, credo, è che bisogna restaurare nelle relazioni con l’Afghanistan un’arte della politica che da 40 anni, dai tempi dell’invasione dell’Armata Rossa, non si vede più da quelle parti. Basta con il frastuono delle armi, ha detto il Papa ieri, e mai come stavolta bisogna che questa posizione diventi la posizione di tutti. Bisogna parlare con il potere di Kabul, qualunque esso sia. Discutere, trattare, negoziare: è difficile? È scomodo? Sì, e allora? Alternative non ce ne sono e del resto quando mai la politica è stata una cosa facile?

Ben oltre il Governo di cui conosceremo presto i ministri, è la governamentalità afghana che va ricostituita. E ciò si può fare solo con la diplomazia, il buon senso, la cooperazione allo sviluppo. Investire per la “normalizzazione geopolitica” dell’Afghanistan, insomma, dicendo chiaramente, ciascuno per la sua parte -ed Europa in primis– che nessuno seguirà supinamente nessuno se altri squilli di tromba dovessero annunciare che “arrivano i nostri”. E ciò, dovrebbe emergere anche dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU che si riunisce in queste ore a New York.

La ricostituzione della governamentalità afghana è una faccenda che non si può fare da un giorno all’altro, si capisce. E tuttavia, essa transita attraverso alcuni snodi  che vanno affrontati subito. Il primo è certamente quello dei profughi. Bisogna accogliere con generosità, ma anche con la consapevolezza di adempiere a un’obbligazione di legge, le persone in fuga dall’Afghanistan. Bisogna favorire in ogni modo, anche attraverso semplificazioni burocratiche radicali, il ricongiungimento delle famiglie. Bene ha fatto il Canada ad annunciare la propria, immediata disponibilità ad accogliere 20.000 persone che necessitano di un luogo per vivere. Sarà essenziale, per gestire questo dossier così sensibile, dedicare attenzione a tutti i Paesi confinanti, dalle Repubbliche centro asiatiche all’Iran. Ma cruciale è certamente l’asse che si va profilando tra la Turchia e il Pakistan: ogni buona intenzione che venisse da questi due Paesi va colta e appoggiata, senza però dimenticare che di buone intenzioni è lastricata quella certa via per l’inferno. E dunque che le borse dei Paesi ricchi si aprano, convoglino un po’ del fiume di soldi che non va più alle spese militari, verso l’assistenza alle politiche migratorie di Ankara e di Islamabad, come pure di altri Paesi viciniori di buona volontà.

Tra le questioni urgenti, e pur delicate trattandosi ormai dell’”Emirato islamico dell’Afghanistan”, porrei la soglia della sharia, che dovrebbe essere riconosciuta come lo spazio fluido di una specie di principio giuridico islamico secondo il quale seppure si elabori un diritto fondamentalista a base “religiosa”, questo va tenuto distinto da costruzioni giuridiche che non sono “religiose”, ma sono puramente e semplicemente “ideologiche”. E voglio citare da una parte la condizione della donna che nel nuovo Emirato rischia di diventare il “bene mobile” di un tempo, simboleggiato da una specie di burka animato, posto sotto la tutela di un fratello, di un marito, di un padre. Insomma una persona che ”appartiene” sempre a qualcuno e mai a se stessa. I diritti delle donne, dunque, da una parte e, dall’altra, il diritto della cultura ad esistere in t.u.t.t.e. le sue manifestazioni, artistiche o scientifiche, senza altre giustificazioni che non siano la loro pura e semplice espressione. Insomma, non vorremmo vedere altri bombardamenti di statue di Budda nel nome di Allah…..  

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Harry torna ad attaccare la monarchia: gelo totale con re Carlo dopo l’intervista alla BBC

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harry e meghan

«Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», scriveva Tolstoj. E quella dei Windsor continua a dimostrarlo. Dopo l’intervista rilasciata dal principe Harry alla BBC, i rapporti con re Carlo sono ai minimi storici. Secondo fonti vicine a Buckingham Palace, le parole del duca di Sussex avrebbero ulteriormente inasprito le tensioni familiari, già esplose negli ultimi cinque anni.

LE PAROLE CHE HANNO FATTO INFURIARE BUCKINGHAM PALACE

Nel corso dell’intervista, Harry ha toccato temi delicati, parlando anche della malattia del padre. Un passaggio sul “tempo rimasto” a Carlo è stato giudicato da molti sudditi di pessimo gusto. «Non è il modo per ottenere una riconciliazione», ha commentato un residente di Windsor. In tanti ricordano l’esempio della regina Elisabetta, che mai avrebbe approvato un simile approccio mediatico.

Harry si è detto deluso per la revoca della scorta a lui, Meghan e ai loro figli. Una decisione che ritiene legata alla volontà della Corona di punire la loro scelta di lasciare il Regno Unito. E ha anche accennato velatamente alla morte di sua madre Diana, suggerendo che «c’è chi vuole che la storia si ripeta».

LO STRAPPO CON IL PADRE E LA CORTE

A peggiorare la situazione, la sconfitta di Harry alla Corte d’Appello di Londra, che ha confermato la legittimità della revoca della protezione armata. Il principe sostiene di essere vittima di una trappola governativa, e ha annunciato che scriverà alla ministra degli Interni Yvette Cooper e, se necessario, anche al premier Keir Starmer.

Il Palazzo ha reagito in modo inusuale con un comunicato ufficiale che, senza citare direttamente Harry, ha ricordato che la questione sicurezza è stata più volte valutata dai tribunali, con la stessa conclusione: nessuna protezione speciale per il principe.

IL CONGELAMENTO DEI RAPPORTI FAMILIARI

«Mio padre non mi parla più», ha ammesso Harry. «Ci sono membri della famiglia che non mi perdoneranno mai». Un riferimento diretto all’autobiografia Il minore e ad altre tensioni mai risolte. Harry ha anche detto di conoscere i nomi dei responsabili delle decisioni più dolorose.

Da parte della famiglia reale, la fiducia è ormai compromessa. Le parole del principe avrebbero convinto Buckingham Palace che non è più possibile alcun dialogo riservato. «Le sue dichiarazioni dimostrano che non ci si può fidare di lui», trapela da fonti vicine alla Corona. Il loro ultimo incontro risale al febbraio 2024, quando Harry volò a Londra per vedere il padre dopo l’annuncio della sua malattia. Ma quel fragile momento di riavvicinamento si è dissolto.

UN FUTURO SENZA RICONCILIAZIONE?

Harry ha ammesso di non credere più che potrà portare i suoi figli in Gran Bretagna, farli conoscere al nonno e legarli a quel Paese che pure fa parte del loro patrimonio culturale. A quanto pare, la volontà di normalizzazione a corte è oggi inesistente. E il principe resta, ancora una volta, più lontano che mai dalla sua famiglia.

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A Costanza tra Nato e ultradestra: la Romania divisa tra difesa occidentale e sovranismo populista

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Alle porte di Costanza, in Romania, le ruspe non si fermano mai. Anche di sabato, i cantieri sono in moto per ampliare la base aerea di Kogalniceanu, destinata a diventare il più grande presidio Nato in Europa. Il governo di Bucarest ha investito 2,5 miliardi di euro per rafforzare il fianco Est dell’Unione europea in chiave anti-Mosca. I cittadini, almeno per ora, sembrano approvare: «Ci sentiamo più protetti» dice Puio, ingegnere in pensione. «Porta lavoro», aggiunge George, saldatore.

LO STRAPPO ELETTORALE E L’OMBRA DELLA RUSSIA

Ma dietro questo consenso apparente, serpeggia la rabbia per la politica interna. Il primo turno delle elezioni presidenziali, tenutosi a novembre, è stato annullato dopo una sentenza shock della Corte costituzionale: accuse di ingerenze russe e irregolarità legate al candidato nazionalista Calin Georgescu (nella foto). Scomparso dalla scena pubblica, Georgescu resta un idolo dell’ultradestra romena. Anche se esplicitamente contrario alla Nato, in molti continuano a negarlo. «Sono fake news», assicura la professoressa Vasile Mandita.

IL VOTO DELL’ULTRADESTRA E LA SPINTA POPULISTA

Dalla regione della Dobrugia, Georgescu ha ottenuto i voti più alti. Ora, l’Aur, partito sovranista guidato da George Simion, punta a incassare quell’eredità politica. Simion ha promesso – con ambiguità – che in caso di vittoria nominerà Georgescu premier. E i suoi elettori lo prendono alla lettera: «Farà tutto quello che vuole Georgescu», ripetono. Simion è oggi il favorito, supportato anche da figure religiose controverse come l’arcivescovo Teodosio, noto per le sue simpatie filorusse e legami con i movimenti fascisti.

IL RITORNO DI PONTA E LA SFIDA A DUE TRA SOVRANISTI

In questo scenario s’inserisce anche Victor Ponta, ex premier e ora indipendente populista. A Isaccea, cittadina romena separata dall’Ucraina solo dal Danubio, dove sono caduti droni russi, la guerra non ha suscitato particolare empatia verso i profughi ucraini. «Lo Stato li aiutava più di noi», lamentano. E in molti ricordano le riforme economiche di Ponta, tra cui il taglio dell’Iva dal 24 al 19%.

Ora Ponta, definito un contorsionista della politica, si propone come nazionalista moderato ma competente, in contrapposizione a Simion. Se riuscirà a passare al ballottaggio, si prospetta una sfida tra due sovranisti, con implicazioni pericolose per l’equilibrio politico dell’Unione europea.

L’EUROPA GUARDA CON PREOCCUPAZIONE

Non è detto, però, che la sfida finale sarà tutta interna al fronte populista. A contendersi l’accesso al secondo turno ci sono anche due candidati europeisti: Nicusor Dan, sindaco di Bucarest, e Crin Antonescu, sostenuto dalla coalizione di governo. Ma la Romania sembra sempre più divisa tra lo slancio verso l’Occidente e le sirene del nazionalismo, tra la sicurezza assicurata dalla Nato e la retorica della Romania first.

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Donald Trump si immagina Papa: provocazione, meme e lotte di potere nella Chiesa americana

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Un’immagine generata dall’intelligenza artificiale ritrae Donald Trump in abiti papali: tiara dorata, croce pettorale e sguardo trionfale. Il fotomontaggio non è rimasto confinato nei social più irriverenti, ma è stato rilanciato dallo stesso presidente degli Stati Uniti sul sito ufficiale della Casa Bianca. Un gesto che ha suscitato sconcerto e ironia, alimentando ancora una volta il culto dell’immagine di un leader che gioca con l’iconografia del potere assoluto, tra politica e religione.

In questo contesto, il senatore Lindsey Graham, da sempre fedele a Trump, si è spinto a dichiarare che non sarebbe da escludere l’ipotesi di un “Pontefice Donald I”, ipotizzando che concentrare in una sola figura la guida degli Stati Uniti e quella della Chiesa cattolica sarebbe «vantaggioso per il mondo». Uno scherzo di cattivo gusto? Probabile. Ma il messaggio è chiaro: Trump vuole restare al centro della scena, anche a costo di ridicolizzare simboli millenari.

Le ambizioni americane nel prossimo Conclave

Sebbene il gesto resti simbolico e provocatorio, rilancia l’attenzione sul peso crescente della Chiesa americana nel futuro del Vaticano. Gli Stati Uniti rappresentano il secondo blocco cardinalizio più numeroso dopo l’Italia, e i loro vescovi sono divisi tra una maggioranza conservatrice — guidata da figure come i cardinali Raymond Burke e Timothy Dolan — e una minoranza progressista rappresentata da Blase Cupich e Joseph Tobin.

Le tensioni si estendono anche ai nomi potenzialmente papabili: Kevin Farrell e Robert Prevost, pur considerati “mediatori”, portano con sé il fardello degli scandali e delle mancate vigilanze, specialmente nei casi di abusi. Dolan stesso, uomo vicino a Trump, appare ormai più come kingmaker che come candidato al soglio pontificio.

La Chiesa americana e lo spettro dello scisma conservatore

Il peso crescente dei conservatori americani nella Chiesa cattolica è legato anche a un progetto culturale e ideologico preciso: frenare o ribaltare le riforme di Papa Francesco, considerate troppo aperte al relativismo. Dalla liturgia in latino al rigido dogmatismo su sesso, matrimonio e sacerdozio, il cattolicesimo tradizionalista americano si fa sentire, sostenuto anche economicamente da think tank e fondazioni conservatrici.

Il momento simbolico di questa frattura fu il 26 agosto 2018, quando Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Usa, accusò Francesco di aver coperto abusi sessuali del cardinale McCarrick. Da lì, un tentativo di “golpe ecclesiastico” sostenuto anche da figure chiave del trumpismo come Steve Bannon, che continua a definire il Papa un “marxista illegittimo”.

Il peso politico di Vance e la reazione dei vescovi

A completare il quadro di tensione c’è JD Vance, vicepresidente Usa, cattolico convertito e oppositore dichiarato di Bergoglio. Francesco lo aveva inizialmente escluso da un incontro per ragioni di salute, poi ricevuto comunque — un gesto che ha preceduto di poche ore la morte del Pontefice. Vance si è dichiarato parte della “Chiesa della Resistenza”, la corrente ideologica interna alla Chiesa che si ispira alle posizioni di Viganò.

Le sue dichiarazioni, soprattutto quelle secondo cui i vescovi si opporrebbero alle deportazioni di massa solo per interesse economico, sono state definite “malvagie e volgari” proprio dal cardinale Dolan, da sempre vicino a Trump.

La Santa Sede osserva, mentre Trump gioca con il sacro

Il Vaticano non ha commentato ufficialmente l’ultima provocazione di Trump, ma è evidente che il clima tra Santa Sede e Washington resta teso. L’immagine papale del presidente è una metafora e una sfida, un gesto che, sotto la maschera del meme, rivela l’aspirazione profonda a un dominio culturale oltre che politico.

E mentre Trump indossa digitalmente l’abito del Papa, la Chiesa americana si avvicina al prossimo Conclave più spaccata che mai, pronta a pesare più delle altre nella scelta del successore di Pietro — ma anche a rischiare di spingere ancora più in là la frattura ecclesiale tra Nord e Sud del mondo, tra apertura e conservazione, tra sinodo e scisma.

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