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La Trump Organization colpevole di frode fiscale a Ny

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Colpevole di tutte le accuse di frode fiscale: è il verdetto di una giuria di Manhattan, dopo due giorni di camera di consiglio, nel processo penale alla Trump Organization per uno schema di frode fiscale durato 15 anni. La sentenza è prevista il 13 gennaio. La holding rischia una ammenda sino a 1,7 milioni di dollari, ma l’entità verrà stabilita dal giudice in un momento successivo.

A finire sotto accusa due delle 500 entità della holding e il 75enne Allen Weisselberg, ex direttore finanziario della società e da 50 anni uno dei più fidati luogotenenti della famiglia Trump, tanto da dichiararsi colpevole senza però tirare in ballo il ‘boss’. Il tycoon, come i figli, non era imputato ma per lui è una conclusione imbarazzante perché si tratta della compagnia che porta il suo nome e che lui stesso ha gestito per decenni costruendo un brand di (controverso) successo planetario, il marchio iconico di un impero che gestisce hotel, campi di golf e immobili di lusso. La condanna è anche un altro insidioso ostacolo alla sua ricandidatura alla Casa Bianca.

Sull’ex presidente infatti pendono altre inchieste: da quella parallela della procuratrice generale di New York Letitia James – che ha promosso una azione civile contro Trump e i tre figli adulti chiedendo 250 milioni di dollari di danni – alle indagini dell’Fbi sui documenti classificati sequestrati a Mar-a-Lago, dal procedimento in Georgia sulle pressioni per ribaltare il voto all’inchiesta parlamentare sull’assalto al Capitol.

La multa in sé è solo un graffio al colosso di famiglia ma rischia di aumentare la sfiducia di banche e partner d’affari per la scarsa trasparenza nella gestione contabile. Il colpo più duro per Trump comunque è quello alla sua immagine di uomo politico e d’azienda intoccabile, che finora è sempre riuscito a sopravvivere alle minacce della giustizia e ai controlli del Congresso. L’ex direttore finanziario è considerato il principale beneficiario dello schema, avendo ricevuto dal 2005 al 2021 auto di lusso, appartamenti in leasing, costose rette scolastiche private per i famigliari, per un valore di 1,7 milioni di dollari, evadendo il fisco per 900 mila dollari.

Gli inquirenti pensavano potesse essere l’anello debole per inchiodare Trump su questi ed altri reati (ad esempio gli asset gonfiati per evadere le tasse) ma il fido Weisselberg si è rifiutato di cooperare e si è limitato ad ammettere la propria colpevolezza per evitare una pena sino a 15 anni. Il patteggiamento gli ha riservato solo 5 mesi di cella (100 giorni in caso di buona condotta) ma in cambio ha dovuto testimoniare al processo e ammettere il suo ruolo nella cospirazione per l’evasione fiscale. La holding si è difesa sostenendo che Weisselberg beneficiava se stesso all’insaputa della compagnia. Un altro dirigente della società, il ‘controller’ Jeffrey McConney, ha ottenuto l’immunità per aver ammesso i crimini e aver deposto come testimone dell’accusa.

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I primi 100 giorni di Trump, già lavora a ‘nuovi siluri’

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Il traguardo dei primi 100 giorni è ormai alla porte. Al 29 aprile mancano solo pochi giorni: Donald Trump si regalerà un comizio stile elettorale per spegnere le candeline e fare il bilancio dei suoi ‘successi’. Finora però il presidente non sembra essere riuscito a convincere l’opinione pubblica, come testimoniano i sondaggi che lo indicano come il meno amato della storia. Rilevazioni che non lo scuotono, tanto che, come rivelano alcuni funzionari a Reuters on line, sta già lavorando a “nuovi siluri” dei prossimi 100 giorni. Guardando avanti il presidente intende concentrarsi più attivamente sui colloqui di pace e sulle trattative per gli accordi sui dazi in vista di luglio, quando scadranno i 90 giorni di pausa concessi sulle tariffe reciproche.

La posta in gioco è alta: l’entrata in vigore dei dazi annunciato il 2 aprile, il ‘giorno della liberazione’, rischia di avere un impatto economico devastante per gli Stati Uniti, come Wall Street ha cercato a suon di cali consistenti di far capire al tycoon. I negoziati con l’Unione Europa appaiono in salita e quelli con la Cina devono, almeno formalmente, ancora iniziare, lasciando intravedere mesi di febbrili manovre per rimuovere l’incertezza e le nubi di recessione che si stanno addensando sull’economia. Al dossier commerciale si aggiunge quello dei colloqui di pace per l’Ucraina e per Gaza.

Mentre le trattative con l’Iran sul nucleare sembrano progredire, sulle tensioni fra Israele e Gaza la situazione appare in stallo, con i contatti fra Washington e Teheran che rischiano di rappresentare un ostacolo con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Gli sforzi della Casa Bianca sono concentrati in queste settimane sull’Ucraina anche se al momento la pace resta ancora lontana. Trump aveva promesso durante la campagna elettorale di risolvere la guerra 24 ore, per poi essere costretto a identificare in sei mesi un arco temporale “realistico”.

L’incontro fra il presidente e Volodymyr Zelensky a San Pietro, a margine del funerale di papa Francesco, lascia ben sperare ma i prossimi giorni saranno cruciali, come ha detto il segretario di stato Marco Rubio, per “determinare se tutte e due le parti vogliono la pace”. Trump agli americani presenta come promessa mantenuta nei primi 100 giorni quella di aver domato l’emergenza migranti. Gli arrivi al confine con il Messico sono crollati e le deportazioni di migranti senza documenti sono in aumento, anche se l’obiettivo di un milione di espulsioni in un anno appare irraggiungibile. I successi sull’immigrazione sono stati ottenuti non senza polemiche: le deportazioni sono state infatti accompagnate da una lunga serie di azioni legali, le ultime in ordine temporale riguardanti tre cittadini americani minorenni inviati in Honduras insieme alle loro madri. Il presidente rivendica come successo anche il Dipartimento per l’Efficienza del Governo di Elon Musk.

Il Doge continua alacremente a lavorare per ridurre i costi del governo, anche se gli iniziali ‘risparmi’ sono stati mangiati dai costi per i migliaia di licenziamenti effettuati. In vista dell’uscita di Musk dal governo, l’amministrazione Trump si sta muovendo per rafforzare il controllo sulle assunzioni privilegiando chi è “fedele alla legge e alle politiche del presidente”. Anche il Doge, di cui Trump è orgoglioso, si è attirato decine di cause per i suoi tagli ritenuti indiscriminati. Fra la stretta sui migranti ritenuta eccessiva e l’azione di Musk, oltre che per i timori di una recessione causata dai dazi, il presidente è in forte calo nei sondaggi.

Per l’Associated Press, quattro americani su 10 lo ritengono un presidente “terribile”. Per il Washington Post e Cnn il suo tasso di approvazione è il più basso della storia per i primi giorni di una presidenza (rispettivamente al 39% e al 41%). Valutazioni che non sembrano preoccupare Trump: in un Casa Bianca ben più stabile rispetto al caos del primo mandato – fatta eccezione per il caso Pete Hegseth – il presidente tira dritto e guarda avanti, sognando forse anche un terzo mandato nel 2028 come indicato anche dai cappellini in vendita sul suo sito.

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Pressing degli Usa per la tregua, Mosca attacca l’Europa

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Il faccia a faccia tra Volodymyr Zelensky e Donald Trump nella Basilica di San Pietro, fortemente sostenuto anche dalla Santa Sede, ha ridato speranza agli ucraini di ottenere una pace che non sia una resa, ma il percorso continua ad essere pieno di incognite. Kiev in questa fase rilancia gli appelli ai partner per spingere Mosca ad accettare almeno una tregua, mentre il Cremlino prova a tenersi stretti gli americani assicurando che sulla soluzione del conflitto le posizioni sono “coincidenti in molti punti”, mentre sono gli ucraini e gli europei a voler mettersi di traverso.

A Washington, tuttavia, questo stallo viene vissuto con crescente insofferenza. Ed ora la nuova richiesta alle parti in conflitto è di accettare concessioni reciproche entro la prossima settimana. I colloqui tra Zelensky, Trump e i leader dei volenterosi, a margine dei funerali del Papa, hanno in qualche modo reindirizzato la pressione diplomatica verso la Russia. Tanto che lo stesso presidente americano, nel volo di rientro da Roma, si è lasciato andare ad un’insolita sfuriata nei confronti di Putin, accusandolo di “prendere in giro” gli sforzi di pace con i suoi raid sui civili, e minacciando nuove sanzioni. Mosca ha provato a schivare questi strali rimarcando le distanze all’interno del blocco transatlantico.

Ha iniziato il portavoce di Vladimir Putin, Dmitry Peskov, assicurando che il lavoro con gli americani continua, “in modo discreto e non in pubblico”. E ricordando le convergenze tra le due potenze, a partire dall’idea che la Crimea sia russa e che Kiev non potrà mai entrare nella Nato. A rafforzare il concetto ci ha poi pensato Serghiei Lavrov. Il ministro degli Esteri ha accusato gli europei di “voler trasformare, insieme a Zelensky, l’iniziativa di pace di Trump in uno strumento per rafforzare l’Ucraina”, a dispetto delle idee della Casa Bianca. Mosca, in particolare, conta sul fatto che le rivendicazioni territoriali di Kiev, così come le garanzie di sicurezza, non interessino più di tanto a Washington.

Gli ucraini al contrario vogliono ricompattare i loro alleati. Zelensky, pur smentendo la resa nel Kursk, ha ammesso che la situazione al fronte è difficile per gli incessanti raid russi ed ha sottolineato che il nemico insiste nell'”ignorare la proposta degli Stati Uniti di un cessate il fuoco completo e incondizionato”. Nel frattempo il leader ucraino ha continuato a tessere la sua tela diplomatica. Così, in occasione dei funerali del Papa, ha cercato la sponda dei partner, ma anche del Vaticano. Come dimostrano gli incontri con il segretario di Stato Pietro Parolin ed il presidente della Cei Matteo Zuppi, che in passato erano stati mandati da Papa Francesco in missione a Kiev e l’arcivescovo di Bologna anche a Mosca.

Al termine dei quali Zelensky si è detto “grato per il sostegno al diritto all’autodifesa dell’Ucraina e anche al principio secondo cui le condizioni di pace non possono essere imposte al paese vittima. In seguito, l’ambasciatore ucraino, Andrii Yurash, ha fatto sapere che anche il faccia a faccia Zelensky-Trump ha “avuto il sostegno della Santa Sede: di tutti, non di una persona in particolare”. E se una trattativa diretta tra Mosca e Kiev ancora non appare all’orizzonte, gli Stati Uniti provano a stringere i tempi. “Questa settimana – ha spiegato il segretario di Stato Marco Rubio – cercheremo di determinare se le due parti vogliono veramente la pace e quanto sono ancora vicine o lontane dopo circa 90 giorni di tentativi”. E l’avvertimento è chiaro: “L’unica soluzione è un accordo negoziato in cui entrambi dovranno rinunciare a qualcosa che affermano di volere e dovranno dare qualcosa che non vorrebbero dare. In questo modo si mette fine a una guerra e questo è quello che stiamo cercando di fare”.

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Verso summit con Trump, von der Leyen sente Meloni

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Le poche parole scambiate sul sagrato di San Pietro sono bastate a riaprire un canale che sembrava chiuso. Dalla stretta di mano fra Ursula von der Leyen e Donald Trump, a margine dei funerali del papa, a Bruxelles si è cominciato a lavorare per trasformare una promessa informale in un incontro ufficiale. Appena rientrata da Roma, la presidente della Commissione europea ha sentito la premier Giorgia Meloni per fare il punto su “tutte le questioni di interesse comune attuale” e coordinarsi sui dossier più urgenti del sostegno all’Ucraina e dei dazi. E, dietro le quinte, i pontieri Ue lavorano per definire i tempi e le condizioni migliori di un appuntamento che potrebbe riannodare i fili dei rapporti transatlantici. Il calendario offre a von der Leyen due occasioni certe per incrociare Trump, entrambe a giugno: il G7 di Calgary e il vertice Nato all’Aja. Ma a Palazzo Berlaymont si punta ad accorciare i tempi.

Se il negoziato su Kiev e le garanzie di sicurezza dovesse accelerare, i giorni successivi al 16 maggio – quando Trump concluderà la visita in Arabia Saudita e potrebbe incontrare Vladimir Putin (si è parlato anche di Istanbul come sede del loro confronto) – potrebbero rappresentare la finestra giusta per una tappa continentale del presidente statunitense e il primo vero faccia a faccia con von der Leyen, magari a Bruxelles. Roma, la cornice immaginata al rientro da Washington di Meloni, sarebbe sostanzialmente sorpassata come ipotesi ma “poco cambia, l’importante non è dove si farà ma il risultato”, dicono dal suo entourage, ricordando che dalla missione alla Casa Bianca la premier era riuscita a ottenere la disponibilità del tycoon a valutare un incontro Ue-Usa. Nei corridoi delle istituzioni comunitarie si sottolinea che non c’è alcuna intenzione di escludere la premier italiana, anzi: se creerà uno spazio di dialogo, sarà valorizzato.

Ma se l’occasione dovesse maturare in altro modo, l’Ue è pronta a coglierla, consapevole della necessità di chiudere sui dazi entro giugno. A Bruxelles si ragiona comunque con realismo, sapendo che quando Trump attraversa l’Atlantico lo fa seguendo logiche e priorità sue. Anche per questo non è esclusa l’ipotesi di una missione di von der Leyen a Washington per guidare in prima persona una trattativa commerciale che – per competenza – spetta esclusivamente alla Commissione. Uno scenario che avrebbe i contorni del déjà-vu: nel luglio 2018, Jean-Claude Juncker volò alla Casa Bianca per fermare la tempesta commerciale in corso e bloccare la minaccia di dazi sulle auto europee dopo che Washington aveva già colpito acciaio e alluminio. Un confronto teso, ma alla fine produttivo.

Nello Studio Ovale, l’ex presidente Ue riuscì a strappare un accordo che portò al congelamento di nuovi dazi, alla cooperazione sui regolamenti tecnici e a spalancare le porte del mercato europeo al gnl americano. Tutti temi che, a distanza di sette anni, sono di nuovo sul tavolo Ue-Usa accanto all’impegno europeo di acquistare più armi americane, al pressing per far salire la spesa militare continentale e alla sfida sul terreno strategico della Big Tech. La Casa Bianca, dal canto suo, ha pronta una roadmap per velocizzare le trattative con i governi di tutto il mondo sui dazi reciproci annunciati nel Liberation day. L’amministrazione Trump, stando alle indiscrezioni del Wall Street Journal, punta a trattare con i 18 principali interlocutori muovendosi lungo quattro direttrici: dazi, barriere non tariffarie, commercio digitale, sicurezza economica. E i colloqui proseguiranno a rotazione con ciascun partner fino alla scadenza della tregua, l’8 luglio. Senza accordi – e salvo nuovi capovolgimenti -, le sovrattasse scatteranno.

Anche in questo quadro potrebbe aprirsi lo spazio per un incontro fra l’Europa e gli Stati Uniti. Per ora il negoziato resta nelle mani degli esperti, impegnati a preparare il terreno per la ripresa “quando opportuno” dei contatti politici e abbozzare un’intesa di principio. Il lavoro, è l’ammissione di Bruxelles, “è ancora molto”. L’esito resta incerto. Per questo il piano B è già predisposto: i contro-dazi Ue sui prodotti iconici Usa sono pronti a partire il 14 luglio. E il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, lavora a un possibile vertice straordinario a 27 nell’ultima settimana di maggio, quando anche Berlino avrà il suo nuovo cancelliere, Friedrich Merz.

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