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Cronache

La Cupola e l’erede del ‘Papa’, il doppio colpo inferto alla mafia di Palermo

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Beni per un milione di euro sono stati sequestrati dai carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando provinciale di Palermo a Leandro Greco, 34 anni, nipote del ‘Papa di Ciaculli’ Michele Greco, tratto in arresto nell’operazione “Cupola 2.0”, nel dicembre del 2018, che ha sventato il piano di rifondazione della Cupola di Cosa nostra, successivamente condannato nel dicembre 2020, a 12 anni di reclusione per partecipazione all’associazione mafiosa con ruolo direttivo. L’attivita’ investigativa e le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, hanno consentito di dimostrare come Leandro Greco, detto “Michele”, si fosse fatto promotore della riorganizzazione della Commissione provinciale di Cosa nostra, prendendo parte a numerosi incontri con esponenti di vertice di altri mandamenti. Dall’attivita’ tecnica e’ emersa come figura designata ad assumere un ruolo di primo piano nel mandamento di Ciaculli. Tra i beni sequestrati due imprese individuali a Palermo, con attivita’ di ristorazione e con attivita’ di ingrosso di prodotti ortofrutticoli, una unita’ immobiliare a Palermo destinata a laboratorio artigianale e 12 rapporti bancari.

Giorno piu’, giorno meno, dieci anni dopo il blitz “Perseo” del dicembre 2008, che porto’ a 99 fermi poi trasformati in arresti, a dicembre 2018 finirono in carcere 49 persone, coinvolte nell’operazione denominata Nuova Cupola o Cupola 2.0. In entrambi i casi i carabinieri si mossero in base a un provvedimento di fermo da parte della Dda, a sottolineare l’urgenza di agire immediatamente, per impedire agli uomini delle cosche della citta’ e della provincia di Palermo di commettere altri reati, omicidi e non solo. In Cupola 2.0 altre sette persone vennero individuate poco piu’ di un mese dopo, grazie al pentimento-lampo di due boss di primo piano come Francesco Colletti, di Villabate (Palermo) e Filippo Salvatore Bisconti, di Belmonte Mezzagno (Palermo).

Il 3 dicembre 2020 la stangata con circa 4 secoli di carcere (la procura aveva chiesto 700 anni): 46 condanne e 9 assolti; un imputato e’ deceduto durante le fasi del processo. Tra i condannati Leandro Greco, allora nemmeno trentenne – nipote di Michele Greco, il ‘Papa di Ciaculli’ – e che oggi si e’ visto sequestrare il suo tesoro milionario tra imprese e rapporti finanziari. Con i due blitz i carabinieri avevano fermato per due volte, a dieci anni di distanza, i tentativi di ricostituire la commissione di Cosa nostra, l’organo di vertice della mafia, un tempo guidata proprio da Michele Greco e poi da Toto’ Riina, il “dittatore” che di fatto, sebbene detenuto, l’aveva retta fino al momento della morte, avvenuta il 17 novembre 2017. Il fatto che l’anziano capo di Corleone (Palermo) fosse ancora vivo e vegeto, nel 2008, era stato un freno alle trattative per rimettere in piedi il “direttivo” incaricato di valutare e decidere omicidi, delitti eccellenti, nuove possibili stragi (a cui si faceva pure riferimento indiretto, nelle intercettazioni, quando si parlava di “cose gravi”).

Di fatto, per il rispetto e il timore che Riina incuteva anche se sepolto dagli ergastoli, gia’ prima del maxifermo del 16 dicembre di dodici anni fa era abortito il primo tentativo, condotto da Benedetto Capizzi, capo del mandamento di Villagrazia, di imporsi al vertice. La causa, il dissenso di chi sosteneva che fosse comunque indispensabile, anche dalle carceri e dal 41 bis piu’ profondo, il consenso del “capo dei capi”.

Nel 2018 invece la situazione era ben definita, perche’ il 29 maggio di quell’anno i capi dei principali mandamenti si erano riuniti in una villa della periferia di Palermo, collocata fra le borgate collinari che sorgono ai piedi di Baida, del monte Cuccio e di Bellolampo. Il summit – tenuto con mille accorgimenti, in un luogo che nemmeno i pentiti erano riusciti con certezza a individuare – aveva portato a un accordo: il compito di cercare di salvare il salvabile e di tenere insieme un’organizzazione che aveva fatto dell’unita’ e della compattezza la propria dirompente forza criminale, era stato affidato a Settimo Mineo, capo di Pagliarelli, condannato a 16 anni.

Un uomo quasi ottantenne, nel momento dell’arresto, e che poi – in tempi di Covid – ha piu’ volte chiesto, invano, la scarcerazione per il rischio di contagiarsi in carcere. Apparentemente modesto, fratello di un uomo assassinato negli anni ’80, alla vigilia della guerra di mafia scatenata dai Corleonesi, Mineo era stato graziato e poi, con la sua fedelta’ e col massimo rispetto delle regole, era salito di grado nelle gerarchie mafiose e nella considerazione degli altri capi. Fino a essere considerato l’unico che potesse, per carisma, capacita’ di lavorare nell’interesse comune, eta’ avanzata, tradizione e agganci col passato, capitanare il tentativo della mafia di risalire. L’avventura si era di fatto conclusa col blitz del 4 dicembre 2018.

Le indagini coordinate dalla Dda di Palermo avevano visto emergere anche un altro personaggio che era il contraltare di Mineo, il giovane Leandro Greco, che aveva scelto di farsi chiamare – per darsi un contegno, una dignita’ criminale, quasi una legittimazione all’esercizio del potere – Michele, come il nonno, proprio il boss di Ciaculli. Era lui a gestire i rapporti con i paesi della provincia, lui che pretendeva la “delega” dei “paesani” per esprimere le loro posizioni. Voleva, come si dice in dialetto e nel gergo di Cosa nostra, “acchianarsene”, salire i gradini del potere mafioso, saltando i passaggi intermedi per effetto del cognome pesante e della sua venerazione nei confronti della memoria del nonno.

Pur sempre di un giovane pero’ si trattava, dato che Greco, al momento dell’arresto, nel lasciare la caserma Carini, si abbasso’ a fare un gesto non certo da capo dei capi, distribuendo baci a distanza ai familiari che assistevano alla sua traduzione in carcere. Altri capi di rilievo il boss di Porta Nuova, Gregorio Di Giovanni; il responsabile della zona opposta della citta’, Tommaso Natale, Calogero Lo Piccolo (27 anni al figlio di Salvatore e fratello di Sandro), poi gli altri capi dei mandamenti di San Lorenzo, Resuttana, Palermo Centro, Noce, Cruillas: Erasmo Lo Bello, Rubens D’Agostino, Gaspare Rizzuto, Giuseppe Serio, Salvatore Sciarabba, Giovanni Salerno e Francesco Caponnetto. E ancora il boss di corso Calatafimi, Filippo Annatelli, Gaetano Leto, Salvatore Pispicia e Salvatore Sorrentino, delle zone vicine, Pagliarelli, Mezzomonreale.

Tutti attorno a un tavolo per spartirsi un potere che pero’ per Cosa nostra e’ molto diversa da quella di trent’anni fa, per i colpi subiti da magistratura, forze dell’ordine, pentimenti e reazione della societa’ civile. Nel processo di quasi quattro anni fa erano stati infatti parte civile 20 imprenditori, 5 associazioni antiracket, i Comuni di Villabate, Ficarazzi e Misilmeri (Palermo). E la giustizia batte’ un altro colpo durissimo, quella volta lungo 400 anni.

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Vincenzo Nibali: «Ero un carusu dannificu. La bici mi ha salvato dalla strada»

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Messina, la Sicilia, la fatica, la gloria. Vincenzo Nibali si racconta al Corriere della Sera, tra ricordi di un’infanzia ribelle, il riscatto sulla bicicletta e la consapevolezza maturata solo dopo il ritiro. Un’intervista intensa, autentica, a cuore aperto.

Una giovinezza a rischio: «Compagni con la pistola nello zaino»

«Ero un carusu dannificu», dice Nibali, usando l’espressione siciliana per “bambino disastroso”. Uno che attirava guai: sassate alle vetrate, petardi nelle cassette postali, motorini lanciati contro i muri. Una giovinezza vissuta in un quartiere difficile di Messina, dove alcuni compagni portavano la pistola a scuola. Nessuna mafia organizzata, ma il pizzo sì: «Colpì anche la cartoleria dei miei genitori».

La salvezza arriva su due ruote: «Sempre in salita, come da Messina»

La svolta arriva con la bici, a 12 anni, grazie al padre e ai suoi amici cicloturisti. Le prime gare, l’ammiraglia della Cicli Molonia, il traghetto per Villa San Giovanni che diventava un passaggio simbolico verso il sogno. A 15 anni vince a Siena e non torna più: «Mai avuto nostalgia. I miei genitori mi dissero: se ti impongono cose sbagliate torna, qui avrai sempre un lavoro. Mi ha aiutato a non cedere al doping».

L’ascesa, la gloria, il peso della vittoria

Nibali è uno dei pochi ciclisti ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri. Il Tour de France del 2014 è stato l’apice, ma anche l’inizio di un incubo: «Non potevamo camminare con la carrozzina di nostra figlia senza essere assaliti. Solo adesso che ho smesso, vivo davvero». E confessa: «Mai provato e mai pensato di doparmi. Ma ho pagato il sospetto solo perché vincevo ed ero italiano».

La caduta che fa crescere: l’Olimpiade sfumata

Nel 2016 era lanciato verso l’oro olimpico, ma cadde in curva. «Scelsi io di rischiare, e sbagliai. Nessuna scusa». Parla anche del secondo posto alla Liegi-Bastogne-Liegi, “scippato” da un dopato, ma senza rancore: «Non mi chiedo mai quanto ho perso per colpa del doping».

Il ritorno da turista: «Messina è ‘u megghiu postu nto munnu’»

Oggi Nibali è ambasciatore del Giro e padre presente. Ha visitato la Sicilia con le figlie per farla conoscere da turista: «Antonello da Messina, i templi di Agrigento, i boschi dei Peloritani… È il posto più bello del mondo». Un campione che, a distanza di anni, può guardarsi indietro con orgoglio: «A testa alta, sempre».

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Guerra dei cassonetti ai Parioli: scompaiono i bidoni davanti a casa Castellitto

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Nel quartiere elegante e silenzioso dei Parioli esplode una singolare guerra urbana, fatta di strisce gialle, rifiuti e cortili privati. Oggetto del contendere: un set di cassonetti della raccolta differenziata, misteriosamente spariti dalla carreggiata davanti alla villa dell’attore Sergio Castellitto.

I cassonetti finiscono nel cortile dell’attore

La miccia si accende nella notte tra il 20 e il 21 aprile. I bidoni che servivano i residenti della zona vengono spostati oltre il cancello della villa in cui vive Castellitto, allineati ordinatamente nel cortile. Una rimozione anomala che di fatto priva della raccolta l’intero isolato. Le strisce gialle, predisposte per accogliere i cassonetti, rimangono desolatamente vuote.

Secondo indiscrezioni, l’attore avrebbe più volte manifestato il suo malcontento per la presenza dei contenitori davanti all’ingresso della sua abitazione, considerandoli poco decorosi. I vicini, al contrario, li ritengono un servizio essenziale, invocandone semmai una manutenzione più frequente.

Denuncia in arrivo e reazione dei residenti

A seguito dell’episodio, il quartiere insorge. I residenti, costretti a girovagare per il quartiere con buste e cartoni, scattano foto e si interrogano sul destino dei contenitori. Tra loro anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino, recentemente trasferitosi nella zona.

Dopo poche ore, i cassonetti scompaiono anche dalla visuale del villino: né davanti al cancello né sul marciapiede. Ma non vengono ricollocati nella loro sede originaria. La vicenda, lungi dal concludersi, potrebbe ora avere conseguenze legali.

Ama pronta a sporgere denuncia

La municipalizzata dei rifiuti, Ama (foto Imagoeconomica), non intende lasciar cadere il caso. I vertici dell’azienda starebbero preparando una denuncia ai carabinieri per la scomparsa dei contenitori. Anche l’assessore al Verde del Municipio, Rosario Fabiano, si è attivato per fare luce sull’accaduto.

Il comitato Le Muse: “I cassonetti tornino al loro posto”

Dal comitato di zona Le Muse l’appello è chiaro: «Speriamo che quei cassonetti tornino al più presto al loro posto. Sarebbe grave se così non fosse. Si tratta di oggetti che appartengono alla collettività, ricordiamolo».

Intanto, nel quartiere ovattato dei Parioli, il decoro urbano si trasforma in una guerra di nervi, tra privacy e servizio pubblico, in attesa che si ristabilisca un fragile equilibrio tra rifiuti e rispetto.

 

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La madre del 17enne condannato per l’omicidio di Santo Romano: «Non è lui l’autore dei post provocatori»

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Ha deciso di rivolgersi alla polizia postale la madre del 17enne condannato a 18 anni e 8 mesi per l’omicidio di Santo Romano, ucciso nella notte tra l’uno e il due novembre scorsi a San Sebastiano al Vesuvio. Lo fa per chiedere chiarezza su una vicenda che – a suo dire – rischia di danneggiare ulteriormente il figlio.

La denuncia: «Quei post non li ha scritti mio figlio»

«Mio figlio è detenuto ad Airola, non ha accesso ai social e non è stato mai segnalato per l’uso di telefoni cellulari in modo clandestino», spiega la donna, assistita dall’avvocato Luca Raviele. E chiarisce: «Non può essere lui l’autore dei messaggi comparsi in rete dopo la sentenza». Messaggi che – accompagnati da immagini del ragazzo risalenti a mesi fa – contengono frasi provocatorie e offensive, come: «Io 18 anni e 8 mesi me li faccio seduto su un cesso».

Una pioggia di messaggi offensivi

Quei post, circolati in modo virale sui social, hanno fatto riesplodere le tensioni tra i familiari delle due fazioni coinvolte nella tragica vicenda. E la madre del minore condannato prende le distanze: «Non c’entriamo nulla. Né io, né parenti o conoscenti abbiamo scritto o condiviso quei contenuti. Spero che la polizia postale indaghi per risalire ai veri responsabili».

La notte dell’omicidio: una lite per una scarpa sporca

Tutto è iniziato in piazza Capasso, cuore della movida di San Sebastiano. Un banale litigio per una scarpa pestata ha innescato lo scontro tra due gruppi di ragazzi. Dopo un primo alterco, la situazione sembrava rientrata, ma secondo quanto ricostruito dagli inquirenti – anche grazie a un video – Santo Romano sarebbe tornato indietro rivolgendosi all’auto dove si trovava L.D.M. Un gesto, forse un lancio, e poi il dramma: due colpi di pistola al petto, esplosi dal 17enne. Santo muore sul colpo.

Un processo doloroso e una sentenza pesante

Martedì scorso è arrivata la condanna in primo grado: 18 anni e 8 mesi di reclusione per omicidio, tentato omicidio e detenzione di arma da fuoco. L’indagine è stata condotta dal pm Ettore La Ragione della Procura per i Minori. Una sentenza che ha alimentato il dolore dei familiari di Santo Romano, un ragazzo di 19 anni, portiere di una squadra di calcio, noto nel suo gruppo per essere sempre un paciere.

Il timore di nuove tensioni

I post emersi nelle ultime ore rischiano di avvelenare ulteriormente il clima. «Non voglio neanche ripetere il contenuto di certi messaggi – spiega la madre del ragazzo – sono offensivi, gratuiti, e danneggiano mio figlio. Non possiamo permettere che a una tragedia come questa si aggiungano nuove ingiustizie». Per questo è stata sporta una formale denuncia contro ignoti: sarà ora compito degli investigatori della polizia postale stabilire chi si nasconde dietro quegli account.

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