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Camorra Spa, tutti gli affari della camorra in Italia, Europa, Usa e Cina

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Fattura cifre astronomiche, investe a Wall Street, guarda con preoccupazione l’andamento di Piazza Affari, ha interessi nei più disparati settori dell’economia mondiale e dà pane e companatico a migliaia di “dipendenti”. Questo colosso finanziario solido e florido si chiama Camorra Spa, “una società di fatto il cui consiglio di amministrazione è costituito da esponenti di massimo rilievo nei clan camorristici, particolarmente abili nelle attività di impresa”. Così scrivono in una informativa per la magistratura gli uomini del Servizio centrale operativo della polizia di Stato che assieme all’Interpol indagano sugli affari leciti di alcune cosche camorristiche che a Napoli si scannano e all’estero concludono affari milionari.

Droga. L’affare più redditizio della camorra nei cinque continenti

IL DIRETTORIO CRIMINALE E GLI UOMINI DELLA CUPOLA
Il ritratto inquietante della presenza e del peso economico mafioso nelle attività commerciali e imprenditoriali legali emerge da indagini ancora in corso e da inchieste già concluse sulla cupola della camorra napoletana. Viene fuori il quadro di una camorra che ridefinisce il proprio programma criminale, “che non è più caratterizzato dalla perpetrazione di delitti di sangue e dalle classiche attività delinquenziali di natura economica (estorsioni, rapine, contrabbando, traffico di droga), ma è anche contraddistinto in maniera crescente dalla realizzazione di attività apparentemente lecite, svolte con mezzi e capitali illeciti”. E’ l’impresa mafiosa disegnata dai magistrati napoletani che analizzano “l’esistenza di un impianto mondiale organizzato come una holding occulta gestita in modo diretto, attraverso affiliati di fiducia, da associazioni criminali napoletane ed in particolare dai clan di Secondigliano”. Lo scrivono i funzionari dello Sco in un dossier, dove viene abbozzata la struttura occulta centrale, definita Direttorio, che gestisce una miriade di società commerciali, che altro non sono che “proiezioni economiche della camorra nella quasi totalità dei paesi europei, in America, in Australia, in Africa, in Cina e in altri paesi asiatici” affidate ad “uomini di paglia” (prestanome di fiducia) dell’organizzazione.
Nel Direttorio, con compiti anche di cassieri e controllori dei conti, ci sono persone di fiducia delle cosche vincenti: i Di Lauro, i Licciardi, i Mallardo, i Contini, i Moccia, i Fabbrocino, i Lo Russo, i Sarno. Insomma, il gotha della camorra. In questa struttura il camorrista si mimetizza e diviene imprenditore, riuscendo ad impiegare “le risorse finanziarie che gli derivano dalle azioni criminali, nella produzione e nella commercializzazione di beni in settori merceologici dove la holding criminale investe: abbigliamento, pellami, scarpe, utensili elettrici, computer, macchine da ufficio, fotocopiatrici e materiale fotografico”. Ma anche nel settore della ristorazione, della produzione e distribuzione di alimentari (pesce, mozzarella, caffè, pane e similari). Tra le attività dove solo di recente la “Camorra Spa” investe denaro sporco ci sono gli Internet Point, usati spesso anche come paravento per scommesse clandestine.

ECCO COME RIENTRANO A NAPOLI I RICAVI DELLA CAMORRA SPA
Le risorse investite producono reddito, denaro che ritorna a Napoli per essere riutilizzato dall’organizzazione mafiosa per pagare le ditte produttrici delle merci vendute e finanziare altre attività commerciali lecite in altri settori. Il denaro incassato in tutto il mondo nei negozi, nei magazzini e in tutti i punti vendita della rete commerciale della camorra confluisce nella cassa comune del cosiddetto Direttorio della holding criminale nei modi più disparati. A descrivere i metodi per il rientro in Italia dei capitali è il sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, Filippo Beatrice, che assieme ad altri colleghi firma un’inchiesta già sfociata nel luglio del 2004 in una retata con 97 arresti e centinaia di indagati.
C’è il metodo classico del trasporto fisico che prevede che i referenti della camorra in ogni paese del mondo, periodicamente tornino a Napoli per consegnare buona parte degli introiti ai referenti dei clan nel Direttorio. In molti casi la polizia ha controllato uomini vicini ai clan della camorra mentre scendevano da aerei provenienti da Usa, Canada, Brasile, Cina, Hong Kong, Grecia, Kenia, Australia, Sudafrica e tanti altri paesi con centinaia di migliaia di euro e dollari nascosti nei doppi fondi di bagagli, in giacche o borselli. Danaro sequestrato perché le persone fermate non hanno mai saputo spiegare l’origine di somme così consistenti. Ma si tratta di controlli che rappresentano una goccia nel mare. Un esempio su tutti. E’ il 14 dicembre del 2004, la polizia ferma a Fiumicino un napoletano proveniente dall’aeroporto JFK di New York. Nelle tasche l’uomo ha 130mila dollari in contanti. Alle contestazioni dei poliziotti risponde: “Faccio l’ambulante, esporto giacche e questo è il ricavato, non sapevo di dover dichiarare questi soldi alla dogana”. Il signore è sconosciuto al fisco ed ha legami di parentela con un boss della camorra.
Il sistema del Money Transfer è largamente diffuso e utilizzato dalla camorra per trasferire capitali illeciti. Il servizio che si articola secondo due modalità operative, la “To send money” che serve a inviare denaro in ogni parte del mondo e la “To receive money” che serve a riceverlo è l’ideale per un’organizzazione che ha necessità di far passare velocemente denaro da una parte all’altra del mondo. A gestire questo servizio grossi network internazionali che incassano commissioni salate che vanno dal 4 al 15 per cento e su cui la magistratura napoletana ha aperto un’inchiesta dopo aver sequestrato in alcune sedi italiane e svizzere centinaia di transazioni tra soggetti legati a filo doppio alle organizzazioni camorristiche. E’ un capitolo dell’inchiesta ancora tutto da approfondire. Scrive la polizia federale di Berna in risposta ad una rogatoria internazionale su alcune transazioni di denaro sospette effettuate a mezzo della Western Union: “In un solo giorno un napoletano 47enne ha inviato ai suoi più stretti congiunti, oltre 400mila euro”. L’uomo in questione è considerato dallo Sco “referente commerciale della camorra in Florida (Usa) e non risulta abbia mai svolto alcuna attività che possa economicamente giustificare una rimessa in denaro così sostanziosa”. Ma sempre per il tramite della Western Union, polverizzando in piccole somme ingenti risorse, in un altro spezzone d’inchiesta, stavolta in Inghilterra, Scotland Yard ha scoperto che due donne napoletane nullatenenti e nullafacenti, in una settimana, hanno ricevuto oltre 600mila euro.
Il riciclaggio del denaro attraverso il Casinò di Venezia. Gli accertamenti sin qui eseguiti hanno evidenziato come alcuni soggetti legati ai vertici dei clan fossero in rapporti di amicizia con porteur e altri personaggi che a vario titolo gravitano intorno al Casinò lagunare. In numerose intercettazioni telefoniche della Squadra Mobile di Napoli emerge la facilità e familiarità impressionante con cui vengono cambiati svariati assegni bancari. Il percorso degli assegni “sporchi” è stato monitorato anche grazie agli accertamenti eseguiti dai funzionari di Bankitalia, che hanno fatto una scoperta: provenivano tutti da Napoli o erano girati da napoletani.

SOLDI PER PAGARE PICCIOTTI, CORROMPERE PENTITI E ARRICCHIRE I BOSS
A giudicare dalla inchieste in corso la holding camorra fattura nell’economia globale legale qualche miliardo di euro. Un vorticoso giro d’affari, un circolo vizioso, che comincia con i soldi sporchi della camorra e finisce per rimpinguare le casse dei clan che usano queste risorse anche per altri scopi. Spiega Rosanna Saraceno, un giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Napoli, chiamata a pronunciarsi su una delicata inchiesta sulla holding criminale: “Gli enormi profitti conseguiti e confluiti nella cassa comune dei clan (il famigerato Direttorio, ndr) servono anche a pagare gli stipendi agli associati (i picciotti, i killer, i confidenti), versare denaro agli avvocati che assistono legalmente boss e gregari, a finanziare bisogni e capricci personali dei capi, a disporre sovvenzioni a favore degli ex collaboratori di giustizia per garantire il mantenimento di scelte non collaborative”, ma anche per corrompere pubblici ufficiali e funzionari utili ai fini del perfetto funzionamento delle attività dei clan della camorra. Alla signora Saraceno, giudice scortatissimo, è stata bruciata l’auto blindata mentre conduceva un interrogatorio in carcere.
LE SOCIETA’ DELLA CAMORRA IN ITALIA E ALL’ESTERO
La camorra produce merci e beni perlopiù a Napoli e nei paesi della cintura metropolitana e poi li commercializza all’estero. In un rapporto riservato della polizia, sul quale ora lavorano gli uomini di uno speciale gruppo investigativo che si occupa esclusivamente di aggredire i patrimoni dei boss della camorra, istituito dal ministero dell’Interno nel novembre del 2004, leggiamo: “Molte fabbriche che a Napoli e in provincia realizzano capi di abbigliamento e scarpe sono sotto il controllo dei clan e in particolare dei Licciardi, Di Lauro, Sarno, Lo Russo”.
Sono dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Gaetano Guida – riscontrate dagli investigatori – che indica molti di questi siti produttivi e che spiega come “queste fabbriche esistono solo in funzione dell’esportazione all’estero di tali capi d’abbigliamento”. Per chi non è pratico dell’area metropolitana di Napoli, ci troviamo in una zona dove effettivamente ci sono centinaia di fabbrichette che impiegano migliaia di persone, per buona parte in nero. Chiudere queste fabbriche significherebbe togliere uno stipendio a migliaia di famiglie, lasciarle aperte vorrebbe dire perpetuare l’ingrasso della camorra. Ma i clan hanno siti produttivi anche in paesi esteri. La Bka (polizia federale tedesca), in una relazione trasmessa alla Dia italiana, descrive nei dettagli gli interessi criminali della camorra di Secondigliano in Germania e in altri paesi dell’Est europeo relativamente alla commercializzazione di trapani Bosch, macchine fotografiche e persino computer. Merce prodotta a Hong Kong a costi ridottissimi e poi fatta arrivare a Napoli (nei containers del Porto), quindi esportata in tutta Europa.

LA CONCORRENZA SLEALE E GLI AFFARI DEL BOSS PAOLO DI LAURO

Il pentito Giuliano spiega al magistrato che lo interroga le caratteristiche di “un commercio senza concorrenza, perché quei pochi negozianti che cercano di agire autonomamente vengono costretti con la forza ad approvvigionarsi dai negozi dell’organizzazione criminale”. Salvo qualche piccola eccezione.
A Pechino in più occasioni è stata segnalata la presenza di tale Pasquale Zinzi, 53 anni, indicato dallo Sco quale componente del Direttorio come referente del clan Licciardi. Presenza che, scrivono gli 007 della polizia, “è verosimilmente da collegarsi agli interessi economici dell’organizzazione criminale in quel paese”. Informazione difficile da verificare per gli scarsi rapporti di collaborazione tra le polizie dei due Stati, ma indirettamente confermata dal pentito Gaetano Guida che nella sue dichiarazioni ha fatto riferimento anche all’esistenza di negozi di giacche e giubbini della camorra in Cina. Ma se è vero che il core business della Camorra Spa è all’estero, la holding del crimine continua a fare affari in maniera quasi pulita anche in Italia, in Campania e a Napoli.

APPALTI PUBBLICI MILIONARI IN ODORE DI CAMORRA
Parlare di appalti pubblici in mano a imprese legate alla camorra non è una grande novità ma destano sconcerto alcune informative di reato che il Centro Dia della Campania ha depositato agli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta antimafia pochi giorni fa. Gli 007 napoletani su ordine del Viminale hanno preso in esame i lavori per la realizzazione di grandi infrastrutture al Sud dove lo Stato ha già erogato ed erogherà in futuro più di una ventina di miliardi di euro: Treno Alta Velocità (Tav), costruzione terza corsia della Salerno-Reggio Calabria, Metropolitana di Napoli. Ebbene, dopo aver “ispezionato” nove cantieri, hanno potuto accertare che in sette casi al lavoro c’erano “società inequivocabilmente collegate ad esponenti della criminalità organizzata campana”. In pratica, scrivono gli investigatori della Dia, “accedendo a questi cantieri è stato possibile documentare come la criminalità organizzata, con la complicità delle imprese appaltatrici e di funzionari pubblici, fosse riuscita ad ottenere enormi illeciti guadagni, imponendo proprie imprese di riferimento nell’affidamento dei sub appalti e degli altri sub contratti che venivano artatamente frazionati in modo tale da non raggiungere la soglia di valore minimo per l’applicazione della normativa antimafia”. La rescissione dei contratti con ordinanza prefettizia è stato il passo successivo delle indagini patrimoniali. Ma, fatto ancora più grave, queste stesse ditte -cacciate dai cantieri al Sud- in alcuni casi, dopo aver cambiato denominazione sociale e amministratore, sono ricomparse in altri cantieri di importanti opere pubbliche nel centro e nel nord Italia. Anche il clan Nuvoletta puntava sugli appalti pubblici: i carabinieri di Napoli un mese fa hanno messo sotto sequestro beni della cosca per 65 milioni di euro, comprese le quote di una società cooperativa che aveva ottenuto appalti in Emilia Romagna, Marche e Veneto per la costruzione di una casa di riposo, una scuola e un condominio di case popolari. Tutto riconducibile ad un prestanome, Pietro Nocera, 46 anni, latitante, considerato l’amministratore unico della cosca che ha solidi legami con la mafia vincente siciliana.

CAFFE, PANE E MOZZARELLA DEI CLAN VESUVIANI
Ma la camorra, spiegano sempre alla Dia, anche in Italia punta sulla gestione di negozi e di grosse catene di distribuzione alimentari per ripulire e reinvestire denaro illecitamente accumulato. Nel 2003 e nel 2004 la sola Dia ha sequestrato, con provvedimenti della magistratura, beni per circa 600 milioni di euro. Tanto ma sembra poco rispetto alle indagini che sono all’attenzione della magistratura: decine di richieste di sequestri di beni per almeno altri 900 milioni di euro attendono di essere valutate. La Guardia di Finanza nel 2004 ha messo sotto sequestro 68 aziende commerciali (valore 70milioni di euro) e ha presentato proposte per il sequestro di beni per altri 161 milioni. Quest’anno le cose andranno meglio visto che è stato istituito uno speciale nucleo interforze che ha base negli uffici della Dia di Napoli, con 60 uomini in organico che si occuperanno solo di misure di prevenzione patrimoniale. Ma sotto la lente di ingrandimento delle forze dell’ordine ci sono gli esercizi commerciali. Il comune di Napoli ha già assicurato tutta la collaborazione a finanza, polizia, carabinieri e Dia per contrastare il fenomeno del riciclaggio del denaro sporco della camorra promettendo di realizzare nei prossimi mesi una banca dati con tutte le licenze commerciali rilasciate o da rilasciare (oltre 40mila autorizzazioni) sul territorio comunale: queste preziose informazioni potranno essere consultate dagli investigatori, in maniera riservata, in ogni momento.
Solo così sarà più facile evitare episodi inquietanti come quelli che si sono verificati negli ultimi mesi di clan camorristici capaci di conseguire con la violenza il monopolio in alcuni settori del commercio. Nella zona vesuviana i magistrati inquirenti hanno scoperto che i boss, “avevano messo su una associazione criminale che con il ricorso alla violenza è riuscita a conseguire il monopolio di fatto del mercato delle farine alimentari nel comprensorio”. In pratica la cosca del posto con i proventi delle estorsioni aveva impiantato una attività imprenditoriale di vendita di farina e pane all’ingrosso: prodotti imposti con la forza a fornai, panificatori (persino quelli abusivi), salumerie e supermercati. Un’altra cosca napoletana costringeva ristoranti e pizzerie del Lungomare (Mergellina e Santa Lucia) a rifornirsi di latte e mozzarella prodotti nei suoi stabilimenti caseari o distribuiti dai suoi affiliati. A Pompei invece nel mirino della camorra il lucroso business della tazzulella di caffè: la camorra imponeva quello di sua produzione a bar, ristoranti e alberghi. Un giro d’affari milionario.

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Strage Erba, la Cassazione: no alla revisione del processo per Romano e Bazzi

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I giudici della Corte di Cassazione hanno respinto il ricorso presentato da Olindo Romano e Rosa Bazzi, per la riapertura del processo sulla strage di Erba per cui i due coniugi sono stati condannati all’ergastolo. Il processo quindi non verrà riaperto e i due coniugi resteranno in carcere. Le tre fasi di giudizio, che hanno confermato l’ergastolo per Olindo Romano e Rosa Bazzi quali autori della strage di Erba hanno, secondo i giudici dell’Appello e ribadito poi dal procuratore capo di Como, che respinsero l’istanza di revisione, evidenziato “la correttezza dell’operato” del pm e dei carabinieri che “nella fase delle indagini preliminari, hanno raccolto prove materiali, documentali, dichiarative, scientifiche e logiche incontestabili” e “non certo le sole confessioni”.

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L’omicidio di Diabolik, killer condannato all’ergastolo

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Carcere a vita per il killer di Fabrizio ‘Diabolik’ Piscitelli, l’ultras della Lazio ucciso a Roma in un agguato nell’agosto del 2019. E’ quanto hanno deciso i giudici della terza Corte d’Assise dopo oltre cinque ore di camera di consiglio. Ergastolo ma non aggravante del metodo mafioso per il cittadino argentino noto come Raul Esteban Calderon ma la cui vera identità, secondo quanto emerso nel corso del processo, è quella di Gustavo Aleandro Musumeci. Un blitz di morte messo in atto in pieno giorno, nel parco degli Acquedotti. Un agguato che secondo l’impianto della Distrettuale antimafia si sarebbe consumato nel perimetro di una guerra tra gruppi criminali per la gestione delle piazze di spaccio sul territorio della Capitale.

I giudici hanno, quindi, accolto la richiesta di condanna avanzata dai pm che nel corso della requisitoria hanno ricostruito la genesi e la dinamica di quanto avvenuto nell’estate di sei anni fa. Una azione compiuta, secondo l’accusa, “con metodo mafioso e con l’agevolazione di un gruppo criminale, nato dai contrasti tra associazioni organizzate”, hanno spiegato i pm Cascini, Palazzi e Ceraso definendo l’evento come uno “spartiacque”.

Secondo l’accusa, Diabolik è stato punito perché aveva “esondato”: la sua morte è stata in sostanza un “avviso ai naviganti: una sanzione che doveva essere compresa da tutti”. Piscitelli “non era docile, si atteggiava lui stesso come un capo – ha aggiunto l’accusa -. Piscitelli era tante cose, ha avuto una vita criminale accertata, trattava anche da mammasantissima la pace tra due consorterie mafiose”. Il killer ha “mostrato grande freddezza e professionalità” colpendolo “alle spalle con un solo colpo che coglie la vittima di sorpresa”. Si tratta di un delitto “compiuto in pieno giorno, in un parco pubblico: in quel momento era presente tantissima gente, impegnata nelle attività più disparata”. Nella descrizione di quanto avvenuto, il pm Palazzi ha affermato che il video di una telecamera a circuito chiuso “offre una prova importante, formidabile. Un’immagine piuttosto completa dal momento dell’esecuzione alla fuga del killer. Un filmato che dice tante cose: un runner, atletico, alto, con una vistosa fasciatura sul polpaccio destro proprio lì dove Calderon ha un vistoso tatuaggio”.

I pm di piazzale Clodio, nel corso della requisitoria, hanno citato anche una serie di testimonianze finite agli atti della indagine della Dda. In particolare le parole della ex di Calderon, Rina Bussone che collegata da un sito protetto nel settembre 2023 ha confermato davanti ai giudici le accuse nei confronti dell’imputato. “Lui mi disse ‘ho ammazzato Diabolik’.” Ma se per l’accusa il killer è l’autore materiale di un omicidio, i mandanti sono ancora in via di identificazione in un procedimento che è ancora al vaglio degli inquirenti. Lo stesso Calderon, nel corso del processo, ha fornito la sua versione dei fatti respingendo le accuse e dichiarandosi estraneo a quanto avvenuto. In una memoria depositata nell’ottobre scorso l’imputato si è detto “addolorato” per la morte “del signor Piscitelli” aggiungendo di sperare “che verrà fuori chi ha commesso questo bruttissimo delitto e paghi con la giustizia e verso la famiglia di Piscitelli, liberandomi di questa accusa che pesa su di me come un macigno, anche per la mia famiglia che sta vivendo una bruttissima esperienza”.

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La strage del lavoro, tre morti tra fabbriche e strade

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Daniel aveva compiuto 22 anni proprio ieri ma invece di festeggiare era al lavoro, nello stabilimento Stm che stampa ingranaggi industriali a Maniago (Pordenone). Lavorava su una macchina a temperature altissime quando all’1.30 di notte una scheggia incandescente lo ha trafitto alla schiena, uccidendolo all’istante. A nulla è servito l’allarme al 112: quando il rianimatore è arrivato non c’era più niente da fare. Ma Daniel non è l’unica vittima sul lavoro in una giornata tragica. Altri due morti in Campania e in Umbria, vittime in una strage che non si ferma e che investe tutta la penisola. L’Inail ricorda che nel 2024 sono stati oltre mille i decessi, in crescita rispetto al 2023. E a gennaio di quest’anno i morti sono già 45 (+36,4% rispetto a gennaio 2024) e 14 in itinere, ovvero nel tragitto tra casa e lavoro (+16,7% rispetto a inizio 2024).

Intanto l’impianto in cui lavorava Daniel è stato posto sotto sequestro dai carabinieri che conducono le indagini. Non è ancora chiaro se il ragazzo sia morto per un malfunzionamento della macchina o per una manovra sbagliata. Il turno di questa mattina intanto è stato sospeso in segno di lutto e per consentire i rilievi. “E’ straziante e inconcepibile che un giovane perda la vita mentre svolge il suo lavoro e non smetteremo mai di impegnarci, come uomini, come politici e come governo, per garantire la sicurezza di tutti i lavoratori”, ha detto Luca Ciriani, ministro per i rapporti con il Parlamento. L’altra vittima aveva 38 anni, si chiamava Umberto Rosito, era originario di Bari e faceva l’operaio.

E’ morto investito da un mezzo pesante mentre lavorava sulla carreggiata nord dell’Autosole nei pressi di Orvieto dove era residente. Era dipendente di una ditta del posto impegnata in interventi di manutenzione in autostrada. Sulla dinamica sono in corso indagini della polizia stradale di Orvieto. L’uomo aveva appena iniziato a predisporre la segnaletica per un cantiere stradale quando è stato travolto da un autoarticolato che trasportava alimenti. E’ morto sul colpo. Era sposato e padre di una bambina di tre anni. Il terzo incidente sul lavoro mortale è avvenuto ieri sera, a Sant’ Antonio Abate, (Napoli), dove il dipendente di una ditta di smaltimento rifiuti di 50 anni, Nicola Sicignano, è deceduto perché, secondo una prima ricostruzione, sarebbe rimasto incastrato con il braccio e la testa nel nastro trasportatore della linea di lavoro. L’area è stata sequestrata e sono in corso le indagini della Compagnia di Castellammare di Stabia, del Nucleo Investigativo di Torre Annunziata con la collaborazione del Nucleo Carabinieri Ispettorato del Lavoro e dell’Asl di Napoli.

A constatare il decesso dell’operaio, nato a Vico Equense e residente a Gragnano, è stato il 118. Regolarmente assunto dalla Sb Ecology srl, Sicignano era sposato e aveva due figli. Sulla salma messa sotto sequestro dagli inquirenti sarà eseguito l’esame autoptico su disposizione dalla procura di Torre Annunziata che sta coordinando le indagini del carabinieri. Un altro incidente sul lavoro, fortunatamente non mortale, alla diga di Cumbidanovu a Orgosolo (Nuoro). Un operaio è caduto da 4 metri mentre lavorava imbragato. Soccorso dal 118 l’uomo è stato portato all’ospedale in codice rosso per un trauma al rachide e sottoposto a ulteriori accertamenti. Sulle morti ha parlato anche la segretaria del Pd, Elly Schlein che sottolinea la necessità “di agire su più fronti”. Per Francesca Re David, segretaria confederale della Cgil, “queste stragi non si possono fermare con la burocrazia” e la segretaria della Uil, Ivana Veronese, chiede “un segnale da Palazzo Chigi”.

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