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Camorra Spa, tutti gli affari della camorra in Italia, Europa, Usa e Cina

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Fattura cifre astronomiche, investe a Wall Street, guarda con preoccupazione l’andamento di Piazza Affari, ha interessi nei più disparati settori dell’economia mondiale e dà pane e companatico a migliaia di “dipendenti”. Questo colosso finanziario solido e florido si chiama Camorra Spa, “una società di fatto il cui consiglio di amministrazione è costituito da esponenti di massimo rilievo nei clan camorristici, particolarmente abili nelle attività di impresa”. Così scrivono in una informativa per la magistratura gli uomini del Servizio centrale operativo della polizia di Stato che assieme all’Interpol indagano sugli affari leciti di alcune cosche camorristiche che a Napoli si scannano e all’estero concludono affari milionari.

Droga. L’affare più redditizio della camorra nei cinque continenti

IL DIRETTORIO CRIMINALE E GLI UOMINI DELLA CUPOLA
Il ritratto inquietante della presenza e del peso economico mafioso nelle attività commerciali e imprenditoriali legali emerge da indagini ancora in corso e da inchieste già concluse sulla cupola della camorra napoletana. Viene fuori il quadro di una camorra che ridefinisce il proprio programma criminale, “che non è più caratterizzato dalla perpetrazione di delitti di sangue e dalle classiche attività delinquenziali di natura economica (estorsioni, rapine, contrabbando, traffico di droga), ma è anche contraddistinto in maniera crescente dalla realizzazione di attività apparentemente lecite, svolte con mezzi e capitali illeciti”. E’ l’impresa mafiosa disegnata dai magistrati napoletani che analizzano “l’esistenza di un impianto mondiale organizzato come una holding occulta gestita in modo diretto, attraverso affiliati di fiducia, da associazioni criminali napoletane ed in particolare dai clan di Secondigliano”. Lo scrivono i funzionari dello Sco in un dossier, dove viene abbozzata la struttura occulta centrale, definita Direttorio, che gestisce una miriade di società commerciali, che altro non sono che “proiezioni economiche della camorra nella quasi totalità dei paesi europei, in America, in Australia, in Africa, in Cina e in altri paesi asiatici” affidate ad “uomini di paglia” (prestanome di fiducia) dell’organizzazione.
Nel Direttorio, con compiti anche di cassieri e controllori dei conti, ci sono persone di fiducia delle cosche vincenti: i Di Lauro, i Licciardi, i Mallardo, i Contini, i Moccia, i Fabbrocino, i Lo Russo, i Sarno. Insomma, il gotha della camorra. In questa struttura il camorrista si mimetizza e diviene imprenditore, riuscendo ad impiegare “le risorse finanziarie che gli derivano dalle azioni criminali, nella produzione e nella commercializzazione di beni in settori merceologici dove la holding criminale investe: abbigliamento, pellami, scarpe, utensili elettrici, computer, macchine da ufficio, fotocopiatrici e materiale fotografico”. Ma anche nel settore della ristorazione, della produzione e distribuzione di alimentari (pesce, mozzarella, caffè, pane e similari). Tra le attività dove solo di recente la “Camorra Spa” investe denaro sporco ci sono gli Internet Point, usati spesso anche come paravento per scommesse clandestine.

ECCO COME RIENTRANO A NAPOLI I RICAVI DELLA CAMORRA SPA
Le risorse investite producono reddito, denaro che ritorna a Napoli per essere riutilizzato dall’organizzazione mafiosa per pagare le ditte produttrici delle merci vendute e finanziare altre attività commerciali lecite in altri settori. Il denaro incassato in tutto il mondo nei negozi, nei magazzini e in tutti i punti vendita della rete commerciale della camorra confluisce nella cassa comune del cosiddetto Direttorio della holding criminale nei modi più disparati. A descrivere i metodi per il rientro in Italia dei capitali è il sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, Filippo Beatrice, che assieme ad altri colleghi firma un’inchiesta già sfociata nel luglio del 2004 in una retata con 97 arresti e centinaia di indagati.
C’è il metodo classico del trasporto fisico che prevede che i referenti della camorra in ogni paese del mondo, periodicamente tornino a Napoli per consegnare buona parte degli introiti ai referenti dei clan nel Direttorio. In molti casi la polizia ha controllato uomini vicini ai clan della camorra mentre scendevano da aerei provenienti da Usa, Canada, Brasile, Cina, Hong Kong, Grecia, Kenia, Australia, Sudafrica e tanti altri paesi con centinaia di migliaia di euro e dollari nascosti nei doppi fondi di bagagli, in giacche o borselli. Danaro sequestrato perché le persone fermate non hanno mai saputo spiegare l’origine di somme così consistenti. Ma si tratta di controlli che rappresentano una goccia nel mare. Un esempio su tutti. E’ il 14 dicembre del 2004, la polizia ferma a Fiumicino un napoletano proveniente dall’aeroporto JFK di New York. Nelle tasche l’uomo ha 130mila dollari in contanti. Alle contestazioni dei poliziotti risponde: “Faccio l’ambulante, esporto giacche e questo è il ricavato, non sapevo di dover dichiarare questi soldi alla dogana”. Il signore è sconosciuto al fisco ed ha legami di parentela con un boss della camorra.
Il sistema del Money Transfer è largamente diffuso e utilizzato dalla camorra per trasferire capitali illeciti. Il servizio che si articola secondo due modalità operative, la “To send money” che serve a inviare denaro in ogni parte del mondo e la “To receive money” che serve a riceverlo è l’ideale per un’organizzazione che ha necessità di far passare velocemente denaro da una parte all’altra del mondo. A gestire questo servizio grossi network internazionali che incassano commissioni salate che vanno dal 4 al 15 per cento e su cui la magistratura napoletana ha aperto un’inchiesta dopo aver sequestrato in alcune sedi italiane e svizzere centinaia di transazioni tra soggetti legati a filo doppio alle organizzazioni camorristiche. E’ un capitolo dell’inchiesta ancora tutto da approfondire. Scrive la polizia federale di Berna in risposta ad una rogatoria internazionale su alcune transazioni di denaro sospette effettuate a mezzo della Western Union: “In un solo giorno un napoletano 47enne ha inviato ai suoi più stretti congiunti, oltre 400mila euro”. L’uomo in questione è considerato dallo Sco “referente commerciale della camorra in Florida (Usa) e non risulta abbia mai svolto alcuna attività che possa economicamente giustificare una rimessa in denaro così sostanziosa”. Ma sempre per il tramite della Western Union, polverizzando in piccole somme ingenti risorse, in un altro spezzone d’inchiesta, stavolta in Inghilterra, Scotland Yard ha scoperto che due donne napoletane nullatenenti e nullafacenti, in una settimana, hanno ricevuto oltre 600mila euro.
Il riciclaggio del denaro attraverso il Casinò di Venezia. Gli accertamenti sin qui eseguiti hanno evidenziato come alcuni soggetti legati ai vertici dei clan fossero in rapporti di amicizia con porteur e altri personaggi che a vario titolo gravitano intorno al Casinò lagunare. In numerose intercettazioni telefoniche della Squadra Mobile di Napoli emerge la facilità e familiarità impressionante con cui vengono cambiati svariati assegni bancari. Il percorso degli assegni “sporchi” è stato monitorato anche grazie agli accertamenti eseguiti dai funzionari di Bankitalia, che hanno fatto una scoperta: provenivano tutti da Napoli o erano girati da napoletani.

SOLDI PER PAGARE PICCIOTTI, CORROMPERE PENTITI E ARRICCHIRE I BOSS
A giudicare dalla inchieste in corso la holding camorra fattura nell’economia globale legale qualche miliardo di euro. Un vorticoso giro d’affari, un circolo vizioso, che comincia con i soldi sporchi della camorra e finisce per rimpinguare le casse dei clan che usano queste risorse anche per altri scopi. Spiega Rosanna Saraceno, un giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Napoli, chiamata a pronunciarsi su una delicata inchiesta sulla holding criminale: “Gli enormi profitti conseguiti e confluiti nella cassa comune dei clan (il famigerato Direttorio, ndr) servono anche a pagare gli stipendi agli associati (i picciotti, i killer, i confidenti), versare denaro agli avvocati che assistono legalmente boss e gregari, a finanziare bisogni e capricci personali dei capi, a disporre sovvenzioni a favore degli ex collaboratori di giustizia per garantire il mantenimento di scelte non collaborative”, ma anche per corrompere pubblici ufficiali e funzionari utili ai fini del perfetto funzionamento delle attività dei clan della camorra. Alla signora Saraceno, giudice scortatissimo, è stata bruciata l’auto blindata mentre conduceva un interrogatorio in carcere.
LE SOCIETA’ DELLA CAMORRA IN ITALIA E ALL’ESTERO
La camorra produce merci e beni perlopiù a Napoli e nei paesi della cintura metropolitana e poi li commercializza all’estero. In un rapporto riservato della polizia, sul quale ora lavorano gli uomini di uno speciale gruppo investigativo che si occupa esclusivamente di aggredire i patrimoni dei boss della camorra, istituito dal ministero dell’Interno nel novembre del 2004, leggiamo: “Molte fabbriche che a Napoli e in provincia realizzano capi di abbigliamento e scarpe sono sotto il controllo dei clan e in particolare dei Licciardi, Di Lauro, Sarno, Lo Russo”.
Sono dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Gaetano Guida – riscontrate dagli investigatori – che indica molti di questi siti produttivi e che spiega come “queste fabbriche esistono solo in funzione dell’esportazione all’estero di tali capi d’abbigliamento”. Per chi non è pratico dell’area metropolitana di Napoli, ci troviamo in una zona dove effettivamente ci sono centinaia di fabbrichette che impiegano migliaia di persone, per buona parte in nero. Chiudere queste fabbriche significherebbe togliere uno stipendio a migliaia di famiglie, lasciarle aperte vorrebbe dire perpetuare l’ingrasso della camorra. Ma i clan hanno siti produttivi anche in paesi esteri. La Bka (polizia federale tedesca), in una relazione trasmessa alla Dia italiana, descrive nei dettagli gli interessi criminali della camorra di Secondigliano in Germania e in altri paesi dell’Est europeo relativamente alla commercializzazione di trapani Bosch, macchine fotografiche e persino computer. Merce prodotta a Hong Kong a costi ridottissimi e poi fatta arrivare a Napoli (nei containers del Porto), quindi esportata in tutta Europa.

LA CONCORRENZA SLEALE E GLI AFFARI DEL BOSS PAOLO DI LAURO

Il pentito Giuliano spiega al magistrato che lo interroga le caratteristiche di “un commercio senza concorrenza, perché quei pochi negozianti che cercano di agire autonomamente vengono costretti con la forza ad approvvigionarsi dai negozi dell’organizzazione criminale”. Salvo qualche piccola eccezione.
A Pechino in più occasioni è stata segnalata la presenza di tale Pasquale Zinzi, 53 anni, indicato dallo Sco quale componente del Direttorio come referente del clan Licciardi. Presenza che, scrivono gli 007 della polizia, “è verosimilmente da collegarsi agli interessi economici dell’organizzazione criminale in quel paese”. Informazione difficile da verificare per gli scarsi rapporti di collaborazione tra le polizie dei due Stati, ma indirettamente confermata dal pentito Gaetano Guida che nella sue dichiarazioni ha fatto riferimento anche all’esistenza di negozi di giacche e giubbini della camorra in Cina. Ma se è vero che il core business della Camorra Spa è all’estero, la holding del crimine continua a fare affari in maniera quasi pulita anche in Italia, in Campania e a Napoli.

APPALTI PUBBLICI MILIONARI IN ODORE DI CAMORRA
Parlare di appalti pubblici in mano a imprese legate alla camorra non è una grande novità ma destano sconcerto alcune informative di reato che il Centro Dia della Campania ha depositato agli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta antimafia pochi giorni fa. Gli 007 napoletani su ordine del Viminale hanno preso in esame i lavori per la realizzazione di grandi infrastrutture al Sud dove lo Stato ha già erogato ed erogherà in futuro più di una ventina di miliardi di euro: Treno Alta Velocità (Tav), costruzione terza corsia della Salerno-Reggio Calabria, Metropolitana di Napoli. Ebbene, dopo aver “ispezionato” nove cantieri, hanno potuto accertare che in sette casi al lavoro c’erano “società inequivocabilmente collegate ad esponenti della criminalità organizzata campana”. In pratica, scrivono gli investigatori della Dia, “accedendo a questi cantieri è stato possibile documentare come la criminalità organizzata, con la complicità delle imprese appaltatrici e di funzionari pubblici, fosse riuscita ad ottenere enormi illeciti guadagni, imponendo proprie imprese di riferimento nell’affidamento dei sub appalti e degli altri sub contratti che venivano artatamente frazionati in modo tale da non raggiungere la soglia di valore minimo per l’applicazione della normativa antimafia”. La rescissione dei contratti con ordinanza prefettizia è stato il passo successivo delle indagini patrimoniali. Ma, fatto ancora più grave, queste stesse ditte -cacciate dai cantieri al Sud- in alcuni casi, dopo aver cambiato denominazione sociale e amministratore, sono ricomparse in altri cantieri di importanti opere pubbliche nel centro e nel nord Italia. Anche il clan Nuvoletta puntava sugli appalti pubblici: i carabinieri di Napoli un mese fa hanno messo sotto sequestro beni della cosca per 65 milioni di euro, comprese le quote di una società cooperativa che aveva ottenuto appalti in Emilia Romagna, Marche e Veneto per la costruzione di una casa di riposo, una scuola e un condominio di case popolari. Tutto riconducibile ad un prestanome, Pietro Nocera, 46 anni, latitante, considerato l’amministratore unico della cosca che ha solidi legami con la mafia vincente siciliana.

CAFFE, PANE E MOZZARELLA DEI CLAN VESUVIANI
Ma la camorra, spiegano sempre alla Dia, anche in Italia punta sulla gestione di negozi e di grosse catene di distribuzione alimentari per ripulire e reinvestire denaro illecitamente accumulato. Nel 2003 e nel 2004 la sola Dia ha sequestrato, con provvedimenti della magistratura, beni per circa 600 milioni di euro. Tanto ma sembra poco rispetto alle indagini che sono all’attenzione della magistratura: decine di richieste di sequestri di beni per almeno altri 900 milioni di euro attendono di essere valutate. La Guardia di Finanza nel 2004 ha messo sotto sequestro 68 aziende commerciali (valore 70milioni di euro) e ha presentato proposte per il sequestro di beni per altri 161 milioni. Quest’anno le cose andranno meglio visto che è stato istituito uno speciale nucleo interforze che ha base negli uffici della Dia di Napoli, con 60 uomini in organico che si occuperanno solo di misure di prevenzione patrimoniale. Ma sotto la lente di ingrandimento delle forze dell’ordine ci sono gli esercizi commerciali. Il comune di Napoli ha già assicurato tutta la collaborazione a finanza, polizia, carabinieri e Dia per contrastare il fenomeno del riciclaggio del denaro sporco della camorra promettendo di realizzare nei prossimi mesi una banca dati con tutte le licenze commerciali rilasciate o da rilasciare (oltre 40mila autorizzazioni) sul territorio comunale: queste preziose informazioni potranno essere consultate dagli investigatori, in maniera riservata, in ogni momento.
Solo così sarà più facile evitare episodi inquietanti come quelli che si sono verificati negli ultimi mesi di clan camorristici capaci di conseguire con la violenza il monopolio in alcuni settori del commercio. Nella zona vesuviana i magistrati inquirenti hanno scoperto che i boss, “avevano messo su una associazione criminale che con il ricorso alla violenza è riuscita a conseguire il monopolio di fatto del mercato delle farine alimentari nel comprensorio”. In pratica la cosca del posto con i proventi delle estorsioni aveva impiantato una attività imprenditoriale di vendita di farina e pane all’ingrosso: prodotti imposti con la forza a fornai, panificatori (persino quelli abusivi), salumerie e supermercati. Un’altra cosca napoletana costringeva ristoranti e pizzerie del Lungomare (Mergellina e Santa Lucia) a rifornirsi di latte e mozzarella prodotti nei suoi stabilimenti caseari o distribuiti dai suoi affiliati. A Pompei invece nel mirino della camorra il lucroso business della tazzulella di caffè: la camorra imponeva quello di sua produzione a bar, ristoranti e alberghi. Un giro d’affari milionario.

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Magnate asiatico Kwong, mai pagato o conosciuto Boraso

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Il magnate singaporiano Ching Chiat Kwong si chiama ‘fuori’ dalle accuse che lo inseriscono nell’inchiesta di Venezia, sostenendo di non aver “mai pagato, ne’ conosciuto” l’assessore Renato Boraso, in carcere per corruzione. Kwong, indagato dai pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini, ha fatto conoscere la sua posizione attraverso il proprio difensore, l’avvocato Guido Simonetti. Nelle carte dell’accusa il miliardario asiatico è chiamato in causa – per l’acquisto dei due palazzi veneziani Donà e Papadopoli, e per la trattativa sui ‘Pili’ – assieme a Luois Lotti, suo plenipotenziario in Italia, e Claudio Vanin, imprenditore prima con loro in affari, ora ingaggiato in una dura lotta legale con Lotti.. A Venezia c’è intanto attesa per capire quali saranno le mosse del sindaco Luigi Brugnaro, a sua volta indagato, che pressato dei partiti della sua maggioranza – in particolare Fdi – ha deciso di anticipare al 2 agosto (prima era il 9 settembre) la data del chiarimento in Consiglio Comunale. Brugnaro continua a lavorare, e non ha intenzione di presentarsi dimissionario.

E se può essere suggestivo accostarvi oggi le dimissioni di Giovanni Toti, suo ex compagno di avventura in ‘Coraggio Italia’, da ambienti vicini a Ca’ Farsetti si fa notare come le due vicende siano “completamente diverse”. Brugnaro è indagato per concorso in corruzione con i due dirigenti dell’ufficio di gabinetto Morris Ceron e Derek Donadini. Quando scoppiò l’inchiesta il Procuratore Bruno Cherchi aveva sottolineato che l’iscrizione del sindaco nel registro era stata fatta solo “a sua tutela”. I chiarimenti veri, tuttavia, non saranno possibili fino a quando i nomi di peso finiti nell’inchiesta non decideranno di presentarsi davanti ai magistrati. Oggi intanto ha provato a chiarire la propria posizione l’uomo d’affari singaporiano “Ching Chiat Kwong – ha dichiarato l’avvocato Simonetti – “non ha mai disposto né effettuato (neppure tramite persone terze) il pagamento di una somma nei confronti dell’assessore Renato Boraso”.

Inoltre “non ha mai neppure conosciuto l’assessore Renato Boraso”. E sulle due operazioni portate a termine da Kwong a Venezia, viene sottolineato che i due edifici citati nell’inchiesta, palazzo Donà e palazzo Papadopoli, “sono stati acquistati attraverso una procedura ad evidenza pubblica e a prezzi in linea (se non superiori) al loro valore di mercato”. Nelle carte dell’inchiesta, l’accusa sottolinea tuttavia che proprio per far abbassare il valore di acquisto di palazzo Papadopoli, da 14 mln a 10,7 mln, Boraso avrebbe ricevuto da Kwong “”per il tramite dei suo collaboratori”, la somma di 73.200 euro, attraverso due fatture da 30.000 euro più Iva, emesse da una società dell’assessore, la Stella Consuting, per una consulenza “in realtà mai conferita, ne’ eseguita”. Quanto all’affare, poi sfumato, dei Pili, l’avvocato di Kwong evidenzia “come la trattativai non si sia in alcun modo mai concretizzata, fermandosi ad uno stadio del tutto embrionale”.

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‘Sgomberate la Vela’, l’ordinanza del 2015 mai eseguita

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Un’ordinanza datata ottobre 2015 metteva in guardia dal pericolo crolli: la Vela Celeste va sgomberata, il succo di una relazione del Comune di Napoli messa nero su bianco. La firma in calce è quella del sindaco dell’epoca, Luigi de Magistris. Un sos che non troverà mai seguito e di cui oggi la città piange le conseguenze dopo il crollo del ballatoio-passerella che lunedì sera ha determinato la morte di tre persone e il ferimento di altre dodici. Dunque, non solo il documento datato 2016 che denunciava la mancata manutenzione dei ballatoi della Vela Celeste di Scampia con relativo rischio crollo, dal passato emerge anche un’altra carta che chiama in causa l’immobilismo delle istituzioni. Perché quell’ordinanza di sgombero coatto non è mai stata presa in considerazione?

E perché si è preferito agire con degli accorgimenti che sanno di palliativo piuttosto che affrontare di petto l’emergenza segnalata da quel documento pubblicato sull’albo pretorio del Comune? Domande in attesa di risposta e sulle quali la procura di Napoli – che ha aperto un’indagine contro ignoti per crollo colposo e omicidio colposo – intende fare chiarezza. L’ordinanza firmata de Magistris – è quanto emerge – era dettata dalla necessità di tutelare l’incolumità di 159 famiglie per un totale di 600 persone residenti nella Vela Celeste. Alla base del provvedimento c’era la relazione di un dirigente comunale che delineava un quadro di pericolo allarmante. Anche la politica chiede di fare chiarezza.

A partire dalla segretaria del Pd Elly Schlein che ne ha parlato al festival di Giffoni: “È un tragedia drammatica – ha detto -. Abbiamo immediatamente espresso tutta la nostra vicinanza alle persone, alle famiglie, al quartiere colpito. C’è da fare luce su quello che è accaduto perché non può succedere una cosa del genere”. Fare luce è quello che intende fare la Procura di Napoli che ha disposto l’ampliamento dell’area sottoposta a sequestro, dal terzo piano fino al piano terra. Le verifiche stanno riguardando anche le posizioni dei residenti nella Vela “incriminata” che, in gran parte, secondo quanto si apprende da fonti qualificate, risulterebbero abusivi. E intanto si sta rivelando più difficoltosa del previsto l’acquisizione della copiosa documentazione amministrativa sulla Vela Celeste. Si tratta in particolare degli atti relativi al progetto di riqualificazione ReStart e alla manutenzione del complesso di edilizia popolare con relative negligenze che oramai sono date per scontate. Fondamentali saranno per gli inquirenti le risultanze del lavoro affidato al perito, un ingegnere strutturista forense. Conferito, infine, l’incarico per gli esami autoptici sui corpi delle tre vittime.

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Rifiuta nutrizione artificiale,”ok a suicidio assistito”

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Si è sbloccato l’iter per l’accesso al suicidio medicalmente assistito della 54enne toscana, completamente paralizzata a causa di una sclerosi multipla progressiva, che aveva rifiutato la nutrizione artificiale: la Asl Toscana nord ovest ha dato parere favorevole. “E’ la prima applicazione della nuova sentenza della Consulta che ha esteso il concetto di ‘trattamento di sostegno vitale'”, afferma l’associazione Luca Coscioni a cui si era rivolta tempo fa la donna e che ne aveva reso noto il caso un mese fa. L’Azienda sanitaria, spiega oggi l’associazione, “ha comunicato il suo parere favorevole: la donna possiede tutti e 4 i requisiti previsti dalla sentenza 242/2019 (Cappato/Dj Fabo) per poter accedere legalmente al suicidio medicalmente assistito in Italia. Da oggi se confermerà la sua volontà, potrà procedere a porre fine alle sue sofferenze. La Commissione medica della azienda sanitaria ora aspetta di sapere le modalità di esecuzione e il medico scelto dalla donna, in modo da assicurare ‘il rispetto della dignità della persona’”. La donna aveva inviato la richiesta di verifica delle sue condizioni il 20 marzo e a causa del diniego opposto aveva diffidato l’Asl, il successivo 29 giugno, alla revisione della relazione finale con particolare riferimento alla sussistenza del requisito del trattamento di sostegno vitale, essendo totalmente dipendente dall’assistenza di terze persone e avendo rifiutato la nutrizione artificiale con la Peg ritenendola un accanimento terapeutico.

Ora la revisione del parere della Asl “è avvenuta – rileva l’associazione – alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale 135 del 2024 che ha esteso l’interpretazione del concetto di ‘trattamento di sostegno vitale'”: fino a quest’ultima sentenza l’Azienda sanitaria “non riconosceva la presenza di questo requisito, in quanto equiparava il rifiuto della nutrizione artificiale all’assenza del ‘trattamento di sostegno vitale'”. I giudici della Consulta però “hanno chiarito che ‘non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali'”. “È la prima applicazione diretta della sentenza 135” della Consulta “che interpreta in modo estensivo e non discriminatorio il requisito del trattamento di sostegno vitale – dichiara l’avvocato Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’associazione Coscioni, difensore e coordinatrice del collegio legale della 54enne -. La signora dopo mesi di attesa e sofferenze, con il rischio di morire in modo atroce per soffocamento anche solo bevendo, potrà decidere con il medico di fiducia quando procedere, comunicando all’Azienda sanitaria tempi e modalità di autosomministrazione del farmaco al fine di ricevere assistenza e quanto necessario. Le decisioni della Consulta, che hanno valore di legge, colmano il vuoto in materia dettando le procedure da seguire per chi vuole procedere con il suicidio medicalmente assistito”.

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