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Kenya, Silvia Romano in Somalia dopo il rapimento

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Un trasferimento lampo in Somalia. Un blitz organizzato nei minimi dettagli fornendo ad una banda di criminali comuni kenyoti denaro e mezzi. Ci sarebbero quindi gruppi somali dietro il sequestro di Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in un centro commerciale nella citta’ di Chacama, a circa ottanta chilometri dalla capitale Nairobi, il 20 novembre scorso. E’ quanto emerge dagli sviluppi dell’ indagine avviata dalla Procura di Roma e coordinata dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco. Tasselli messi in fila grazie alla collaborazione tra i magistrati italiani e kenyoti. Un confronto tra investigatori che va avanti da settimane e che punta ad accertare se la ragazza italiana e’ ancora in vita e a chiarire le dinamiche che hanno portato al suo sequestro per mano di una banda di almeno otto persone di cui tre fermati nei mesi scorsi. Proprio oggi i tre sono tornati in carcere su disposizione della Procura generale del Kenya che gli contesta l’aggravante del terrorismo. Alla certezza che Simona fosse viva almeno fino al giorno di Natale si affianca ora la convinzione che sia stata portata in Somalia nei giorni, forse nelle ore, successive al rapimento. Elementi emersi dopo il terzo incontro tra investigatori a cui hanno partecipato i carabinieri del Ros. Gli indizi che fanno propendere per un trasferimento in territorio somalo sono legati al fatto che prima e dopo il sequestro ci sono stati contatti telefonici tra gli autori materiali del rapimento e la Somalia. Altro elemento acquisito e’ che si e’ trattato di un sequestro su commissione perche’ i mezzi (armi e moto) di cui erano dotati i rapitori sono giudicati da chi indaga “sproporzionati” rispetto al livello medio delle bande criminali kenyote. Infine la fuga, dopo che Silvia era stata prelevata, avvenuta in direzione della Somalia. Risultati investigativi ottenuti anche grazie al supporto dell’ intelligence italiana. Intanto si aggrava la posizione di Abdulla Gaba Wario, Moses Luwali Chembe e Said Adhan Abdi. Nei confronti dei tre, ritenuti gli autori materiali del blitz, i giudici kenyoti contestano da oggi anche il reato di “cospirazione con finalita’ di commettere un atto di terrorismo” oltre al sequestro di persona e possesso illegale di armi da fuoco. I magistrati hanno disposto il carcere e contestualmente revocato la liberta’ su cauzione. La conferma dell’esistenza in vita di Silvia almeno fino al 26 dicembre scorso era arrivata alle autorita’ locali dai due arrestati. La banda, dopo avere pedinato per alcuni giorni la cooperante, l’aveva prelevata nel centro commerciale per poi cederla ad una altra banda. Secondo gli inquirenti si tratta di criminali comuni armati con fucili Ak47 e granate. L’azione e’ avvenuta nella contea di Kilifi: Silvia Romano e’ stata bloccata e, dopo averle gettato via il passaporto e il telefono cellulare, e’ stata fatta salire a bordo di una motocicletta e portata verso una boscaglia nei pressi del fiume Tana. Nelle prossime settimane e’ in programma un nuovo incontro tra investigatori dopo quello avvenuto nei giorni scorsi durante il quale le autorita’ kenyote hanno messo a disposizione del team di inquirenti italiani documenti, verbali e tabulati telefonici.

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Putin ringrazia i soldati nordcoreani, ‘sono eroi’

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Il presidente russo, Vladimir Putin, ha ringraziato in un messaggio i soldati nordcoreani che hanno preso parte alla “liberazione della regione di Kursk” dalle truppe d’invasione ucraine, definendoli “eroi”. Lo riferisce il servizio stampa del Cremlino.

“Il popolo russo non dimenticherà mai l’impresa delle forze speciali coreane, onoreremo sempre gli eroi coreani che hanno dato la vita per la Russia, per la nostra comune libertà, al pari dei loro compagni d’armi russi”, si legge nel messaggio di Putin. Il presidente russo sottolinea che l’intervento è avvenuto “nel pieno rispetto della legge internazionale”, in base all’articolo 4 dell’accordo di partenriato strategico firmato nel giugno dello scorso anno tra Mosca e Pyongyang, che prevede assistenza militare reciproca in caso di aggressione a uno dei due Paesi. “Gli amici coreani – ha aggiunto Putin – hanno agito in base a un senso di solidarietà, giustizia e genuina amicizia. Lo apprezziamo molto e ringraziamo con sincerità il presidente Kim Jong-un personalmente”.

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Trump: Zelensky vuole un accordo e rinuncerebbe alla Crimea. Putin smetta di sparare e firmi

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Volodymyr Zelensky è “più calmo” e “vuole un accordo”. È quanto ha riferito Donald Trump, secondo quanto riportato dai media americani, dopo il loro incontro avvenuto nella suggestiva cornice di San Pietro, a margine dei funerali di papa Francesco.

Un incontro positivo e nuove prospettive

Trump ha descritto l’incontro con il presidente ucraino come «andato bene», sottolineando che Zelensky sta «facendo un buon lavoro» e che «vuole un accordo». Secondo il tycoon, il leader ucraino avrebbe ribadito la richiesta di ulteriori armi per difendersi dall’aggressione russa, anche se Trump ha commentato con tono scettico: «Lo dice da tre anni. Vedremo cosa succede».

La questione della Crimea

Tra i temi toccati nel colloquio, anche quello della Crimea. Alla domanda se Zelensky sarebbe disposto a cedere la Crimea nell’ambito di un eventuale accordo di pace, Trump ha risposto: «Penso di sì». Secondo il presidente americano, «la Crimea è stata ceduta anni fa, senza un colpo di arma da fuoco sparato. Chiedete a Obama». Una posizione che conferma il suo approccio pragmatico alla questione ucraina.

L’appello a Putin: “Smetta di sparare”

Trump ha ribadito di essere «molto deluso» dalla Russia e ha lanciato un nuovo appello al presidente Vladimir Putin: «Deve smettere di sparare, sedersi e firmare un accordo». Il tycoon ha anche rinnovato la convinzione che, se fosse stato lui presidente, la guerra tra Mosca e Kiev «non sarebbe mai iniziata».

Un contesto suggestivo

Riferendosi all’incontro tenutosi a San Pietro, Trump ha aggiunto: «È l’ufficio più bello che abbia mai visto. È stata una scena molto bella». Un commento che sottolinea anche la forza simbolica del luogo dove i due leader si sono parlati, all’ombra della basilica vaticana.

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Media, due giornalisti italiani espulsi dal Marocco

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Due giornalisti italiani sarebbero stati espulsi ieri sera dalle autorità marocchine con l’accusa di aver cercato di entrare illegalmente nella città di Laayoune (El Aaiun). Lo rivela il quotidiano marocchino online Hespress. Matteo Garavoglia, 34 anni, giornalista freelance originario di Biella e collaboratore del ‘Manifesto’, e il fotografo Giovanni Colmoni, avrebbero tentato di entrare nella città marocchina meridionale al confine con la regione contesa del Sahara Occidentale “senza l’autorizzazione richiesta dalla polizia”.

I due erano a bordo di un’auto privata e, secondo quanto riporta il quotidiano marocchino, sarebbero stati fermati dagli agenti che hanno interpretato il tentativo di ingresso come un “atto provocatorio, in violazione delle leggi del Paese che regolano gli ingressi dei visitatori stranieri”. Sempre secondo l’Hespress, i due reporter avrebbero cercato di “sfruttare il fatto di essere giornalisti per promuovere programmi separatisti. Per questo sono stati fermati e successivamente accompagnati in auto nella città di Agadir”. Non era la prima volta che i due tentavano di entrare a Laayoune, secondo il quotidiano, ma sempre “nel disprezzo per le procedure legali del Marocco”.

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