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Il fallimento delle democrazie autoritarie di fronte alla pandemia

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A giudicare da come sono andate le cose finora, mi pare che proprio le “democrazie” autoritarie hanno dato le prove peggiori in occasione della pandemia. Come dite? Cosa sono le “democrazie autoritarie”? Proviamo a dirla così. Intanto, sono democrazie, cioè sistemi in cui i diritti individuali e collettivi sono garantiti dalla Costituzione e assicurati nel loro esercizio da istituzioni bilanciate, trasparenti e reciprocamente aperte al controllo. In esse, tuttavia, un qualche leader in carica cerca di dare un’impronta decisionista, anche al prezzo di chiudere un occhio sulla correttezza delle procedure e la coerenza dei risultati.
Particolarmente di fronte alle “emergenze”, qualcuno sostiene, quando c’è bisogno di decisioni rapide e concreti risultati tempestivi, le democrazie classiche sono troppo lente. Quale banco di prova più pertinente dell’epidemia generalizzata di Covid-19? Già, quale? Non si tratta più solo, ormai, del fallimento conclamato degli USA e del Brasile.

Donald Trump

Questi grandissimi Paesi americani sono ostaggio di personalità manifestamente inadeguate al ruolo che ricoprono, non solo dal punto di vista strettamente politico, ma altresì dal punto di vista intellettuale e, più in generale, dell’equilibrio della personalità, della capacità basica in ogni essere umano di fare appello al buon senso, quando non sa più a quale santo votarsi. Basterebbero loro, voi dite, a determinare ogni insuccesso. E con ragione: oltre 2,3 milioni di infettati negli USA e 120.000 morti, ormai più del doppio dei caduti in Vietnam, nel corso di tutta la guerra, come è stato calcolato.

Jair Bolsonaro

In Brasile, i contagiati sono 1,1 milioni con 51.000 decessi. Primo e secondo posto nel mondo: un bel risultato, non c’è che dire! Come se non bastasse, in questi Paesi si rivela il “cuore di tenebra” delle democrazie autoritarie, ossia l’emersione della più iniqua delle disuguaglianze sociali: la disparità umana di fronte alla morte. Come in Europa ancora nel tardo Medio Evo, quando gli indigenti campavano in media anche fino a dieci anni in meno dei benestanti. E dunque, nel Paese più ricco del mondo –come nel suo specchio sudamericano- chi muore non solo è il più vecchio e il più malato, apparentemente in base a una legge biologica, ma è soprattutto il più povero, chi non è protetto socialmente. Il nero, il favelado, il nativo indiano: che si trovi nei deserti d’Arizona o in Amazzonia. Colui che è discriminato, impossibilitato ad accedere all’unico sistema sanitario che potrebbe permettersi, quello pubblico, perché di fatto in quei Paesi questo non c’è o funziona male, o è sottoposto ad attacchi d’ogni sorta che lo rendono scarsamente efficace.


Si tratta di disastri sanitari che hanno non già una base unicamente patologica, ma una causa politica. Intendiamoci, i protocolli terapeutici, in attesa dei vaccini, continuano ad annaspare rispetto all’efficienza delle misure infettivologiche. Ma nel corso delle epidemie è sempre stato così, almeno fin oltre la soglia della modernità. Nell’Europa contemporanea, quando la medicina è diventata una scienza via via più affidabile grazie alle rivoluzioni concettuali documentate da M. Foucault in ordine alla “Nascita della clinica”, le cose sono migliorate assai. Tuttavia la prima fase è sempre stata dominata dal predominio della sanità pubblica sulla medicina. E il coronavirus non fa certo eccezione.
Ma non finisce qui, con gli USA e il Brasile, con D. Trump e J. Bolsonaro. Considerazioni analoghe potrebbero essere fatte per diversi altri Paesi. Ne segnaliamo tre, dove si sommano contagi in preoccupante ascesa, per i quali oltretutto non c’è verso di avere un’informazione quantitativa di qualche affidabilità. L’andamento dell’epidemia è un segreto di Stato, sia in Russia (terza al mondo secondo i dati ufficiali) che in India (quarta) e in Turchia. Pensate che in Russia, come sono costrette ad ammettere le stesse fonti ufficiali, in genere ricalcitranti, sono deceduti 489 tra medici e infermieri: più del doppio che da noi, ma con un’epidemia che ha cominciato a propagarsi ben più tardi che da noi, e cioè quando la sua pericolosità per gli operatori sanitari era ben nota.

Mosca di notte

C’è da dire, come se tutto ciò non bastasse, che i tre Paesi di cui parliamo, in un periodo di così gravi preoccupazioni per il genere umano –sanitarie, economiche, sociali-, non trovano di meglio che infognarsi in guerre asimmetriche seguendo i canoni arcaici della difesa muscolare dei propri (supposti) national interests. In almeno due scacchieri medio-orientali, Libia e Siria-Irak, Mosca e Ankara si confrontano pericolosamente, in via diretta o per interposte armate (milizie siriane, mercenari russi, fazioni cirenaiche, gruppi tribali tripolini). L’India, a sua volta, in un momento in cui non si sa come gestire i morti per strada negli immensi grumi umani del sub-continente, riapre un fronte di combattimento con la Cina: uno scontro armato in piena crisi epidemica, per una annosa questione confinaria, per la quale chi soffia sul fuoco sembrano essere non solo i nazionalisti di N. Modi, al governo, ma piuttosto il Partito del Congresso, all’opposizione sotto la guida di Rahul Gandhi.

India, New Delhi

A che serve, ci chiediamo allora, avocare decisioni, rinforzare la leadership a discapito di altri poteri in equilibrio, se ciò non solo non serve a risolvere problemi di così immane portata, ma finisce con aggravarli? E non conviene, dunque, tenerci care le nostre democrazie, un po’ pletoriche se volete, un po’ dispersive, ma che alla fine appaiono come l’imperfezione minore rispetto a un peggio che è sempre dietro l’angolo? Si.

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Parigi, al via il processo ai “nonnetti rapinatori” che derubarono Kim Kardashian

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È iniziato ieri, davanti al tribunale di Parigi, il processo contro i dieci imputati – nove uomini e una donna – accusati della clamorosa rapina ai danni di Kim Kardashian, avvenuta nell’autunno del 2016. Il principale indiziato, Aomar, 68 anni, si è presentato in aula con passo incerto e bastone alla mano, fedele al suo profilo di “papy braqueur”, come i media francesi hanno soprannominato la banda: i nonnetti rapinatori.

I protagonisti della rapina

Aomar, nato nel 1956 in Algeria, è un veterano del crimine, autore dei primi furti già a 14 anni. A presentargli i complici era stata la compagna Christiane Glotin, detta Cathy, oggi 78enne, che gli fece incontrare “Pierrot il grosso”, 80 anni, altra vecchia conoscenza del mondo criminale francese.

Tra gli altri protagonisti c’è Yunice Abbas, 71 anni, che tentò una fuga rocambolesca in bicicletta portando con sé una borsa che credeva piena di armi, ma che invece conteneva gioielli e perfino il cellulare di Kim Kardashian, da cui avrebbe ricevuto una chiamata della cantante Tracy Chapman.

Spicca anche Didier “occhi blu” Dubreucq, 69 anni, con 23 anni di prigione alle spalle, che avrebbe partecipato direttamente all’irruzione nella suite della star americana.

La notte del colpo milionario

La rapina avvenne la notte del 3 ottobre 2016, in una suite di lusso nascosta in rue Tronchet, vicino alla Madeleine. Kim Kardashian, sola nella stanza, fu sorpresa da due uomini travestiti da poliziotti. Le strapparono il cellulare e, sotto minaccia, la costrinsero a consegnare l’anello di fidanzamento, un diamante da quasi 19 carati, regalo del marito Kanye West, valutato circa quattro milioni di dollari. La star fu legata, imbavagliata e rinchiusa nel bagno, mentre i rapinatori fuggivano con il bottino, comprendente anche contanti, gioielli e orologi di lusso.

La banda fu individuata grazie alle tracce di Dna lasciate nella suite.

Una rapina da fumetto

Sull’incredibile vicenda sono già stati pubblicati fumetti e libri, alcuni scritti dagli stessi imputati, che hanno contribuito ad alimentare il mito dell’«impresa dei nonnetti». Kim Kardashian è attesa in aula per testimoniare il prossimo 13 maggio.

 

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Elezioni in Canada, liberali di Carney vincono legislative e preparano la guerra a Trump

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Secondo le proiezioni dei media locali, è il Partito liberale di Mark Carney a vincere le elezioni legislative canadesi. I risultati preliminari del voto non permettono però di stabilire se il premier guiderà un governo di maggioranza o di minoranza.

Il primo ministro si avvierebbe quindi a portare i Liberali verso un nuovo mandato, dopo aver convinto gli elettori che la sua esperienza nella gestione delle crisi economiche lo rende pronto ad affrontare le mire del presidente americano Donald Trump. L’emittente pubblica Cbc e Ctv News hanno entrambe previsto che il Partito liberale formerà il prossimo governo canadese. Solo pochi mesi fa la strada per il ritorno al potere dei conservatori guidati da Pierre Poilievre sembrava spianata, dopo dieci anni sotto la guida di Justin Trudeau. Ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua offensiva senza precedenti contro il Canada, con dazi e minacce di annessione, hanno cambiato la situazione.

Elezioni in Canada, ecco chi è il primo ministro Mark Carney: l’uomo delle crisi

A Ottawa, dove i liberali si sono radunati per la notte delle elezioni, l’annuncio di questi primi risultati ha provocato un applauso e grida di entusiasmo. “Sono felicissimo, è ancora presto ma sono fiducioso che riusciremo ad avere la maggioranza”, David Lametti, ex ministro della Giustizia. La guerra commerciale di Trump e le minacce di annettere il Canada, rinnovate in un post sui social media il giorno delle elezioni, hanno indignato i canadesi e hanno reso i rapporti con gli Stati Uniti un tema chiave della campagna elettorale.

Carney, che non aveva mai ricoperto una carica elettiva e aveva sostituito Trudeau come premier solo il mese scorso, ha basato la sua campagna su un messaggio anti-Trump. In precedenza ha ricoperto la carica di governatore della banca centrale sia nel Regno Unito che in Canada e ha convinto gli elettori che la sua esperienza finanziaria globale lo rende pronto a guidare il Paese attraverso una guerra commerciale. Ha promesso di espandere le relazioni commerciali con l’estero per ridurre la dipendenza del Canada dagli Stati Uniti.

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Elezioni in Canada, ecco chi è il primo ministro Mark Carney: l’uomo delle crisi

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Ha guidato due banche centrali ma non era mai stato eletto. Il primo ministro canadese Mark Carney, che ha vinto le elezioni generali di lunedi’, e’ abituato a navigare nella tempesta. Con la vittoria del suo partito alle elezioni legislative, dovra’ rapidamente mettersi alla prova contro Donald Trump. Una sfida che dice di poter vincere: “Sono piu’ utile nei momenti di crisi.

Non sono molto bravo in tempo di pace”, ha detto di recente, in tono divertito, a un piccolo pubblico in un bar dell’Ontario. In poche settimane, questo sessantenne novizio della politica e’ riuscito a convincere i canadesi che la sua competenza in materia economica e finanziaria lo rende l’uomo giusto per guidare il paese immerso in una crisi senza precedenti. In effetti, la recessione minaccia questa nazione del G7, la nona economia piu’ grande del mondo, dopo l’imposizione dei dazi doganali da parte di Trump, che continua a ripetere che il destino del Canada e’ quello di diventare uno stato americano.

Nato a Fort Smith, nell’estremo nord, ma cresciuto a Edmonton, in questo West canadese piuttosto rurale e conservatore, Mark Carney e’ padre di quattro figlie e appassionato di hockey. Ha studiato ad Harvard e Oxford, prima di fare fortuna come banchiere d’investimento presso Goldman Sachs, a New York, Londra, Tokyo e Toronto. Nel 2008, nel bel mezzo della crisi finanziaria globale, e’ stato nominato governatore della Banca del Canada dal primo ministro conservatore Stephen Harper. Cinque anni dopo, e’ stato scelto dal primo ministro britannico David Cameron per dirigere la Banca d’Inghilterra, diventando il primo straniero a dirigere l’istituto. Poco dopo, si trovera’ di fronte alle turbolenze causate dal voto sulla Brexit. Un compito svolto con “convinzione, rigore e intelligenza”, secondo l’allora Cancelliere dello Scacchiere britannico, Sajid Javid.

Da anni circolavano voci sul suo ingresso in politica. Ma e’ stato solo all’inizio di gennaio, dopo le dimissioni di Justin Trudeau, di cui era stato consigliere economico, che ha deciso di buttarsi nell’arena. Dopo aver conquistato il Partito Liberale all’inizio di marzo, e’ diventato primo ministro e ha indetto le elezioni in seguito, dicendo che aveva bisogno di un “mandato forte” per affrontare le minacce di Trump, che ha cercato di “spezzare” il Canada.

Una vera e propria scommessa per questo ex portiere di hockey che non aveva mai fatto campagna elettorale e che ha preso le redini di un partito al suo punto piu’ basso nei sondaggi, appesantito dall’impopolarita’ di Justin Trudeau alla fine del suo mandato. E molti analisti hanno messo in dubbio la sua capacita’ di ribaltare la situazione su molti canadesi, mentre molti canadesi hanno incolpato i liberali per l’alta inflazione e la crisi immobiliare nel paese. Poco carismatico, in contrasto con l’immagine sgargiante di Justin Trudeau nei suoi primi giorni, sembra che siano proprio la sua serieta’ e il suo curriculum ad aver finalmente convinto la maggioranza dei canadesi.

“E’ un po’ un tecnocrate noioso, che soppesa ogni parola che dice”, dice Daniel Be’land della McGill University di Montreal. Ma anche “uno specialista in politiche pubbliche che padroneggia molto bene i suoi dossier”. “Questo profilo e’ rassicurante e soddisfa le aspettative dei canadesi per gestire questa crisi”, aggiunge Genevie’ve Tellier. Il suo principale avversario durante la campagna, il conservatore Pierre Poilievre, lo ha descritto come un membro dell'”e’lite che non capisce cosa sta passando la gente comune”, ha detto Lori Turnbull, professoressa alla Dalhousie University. Resta un argomento che sembra fargli perdere la flemma: la questione dei suoi beni. Secondo Bloomberg, a dicembre aveva stock option per un valore di diversi milioni di dollari. E i suoi rari scambi di tensione con i giornalisti durante la campagna elettorale riguardavano questa fortuna personale.

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