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Corona Virus

Dall’eparina ai farmaci monoclonali, ecco i farmaci per curare i pazienti covid

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La battaglia contro il covid fatto non solo con i vaccini. Ci sono anche farmaci per trattare tutti i pazienti già infetti e gravemente malati. Ma se sui vaccini sono stati fatti passi da gigante, a oggi in Europa non esiste un farmaco specifico contro Covid-19 e se ne parlerà al 40° congresso della Società italiana di Farmacologia di marzo.
I farmaci per i pazienti gravi più gravi? I contagiati sono trattati con glucocorticoidi come il desametasone, un corticosteroide molto potente utilizzato da anni. È un antinfiammatorio che non agisce direttamente contro il virus ma è indicato per quei pazienti che richiedono ossigeno supplementare, per bloccare la cosiddetta “tempesta di citochine”, la risposta immunitaria così violenta che può portare alla morte.
Il Remdesivir è un altro farmaco importante.  A inizio pandemia questo antivirale era stato giudicato uno dei farmaci più promettenti perché si pensava che fosse in grado di inibire la replicazione del virus. I dati preliminari del trial Solidarity, che gode dell’ appoggio dell’Oms, ne ha però messo in discussione l’efficacia clinica perché non sembra ridurre la mortalità e funzionare nei pazienti più gravi. Oggi è utilizzato esclusivamente in casi selezionati dopo un’ accurata valutazione costi-benefici.
Altro farmaco è l’eparina. Per l’alterazione della coagulazione indotta dal covid è raccomandata l’eparina, farmaco anticoagulante per prevenire eventi trombo-embolici. Il basso dosaggio è raccomandato per pazienti allettati, anche a domicilio. Dosi più alte vanno somministrate solo in ospedale, valutando attentamente rischi e benefici.

Fiducia è stata posta anche nel plasma iperimmune. Quello proveniente da pazienti convalescenti, porta benefici quando l’infusione avviene entro pochissimi giorni dalla comparsa dei sintomi riducendo la probabilità di progressione della malattia verso gravi forme respiratorie. È però necessario che siano presenti nel siero anticorpi neutralizzanti, che in genere producono pazienti che hanno sviluppato una malattia grave. Difficilmente un asintomatico o paucisintomatico avrà nel suo plasma anticorpi neutralizzanti in grado di aiutare un altro malato.
Su cosa si sta puntando oggi? L’attenzione è tutta per i farmaci monoclonali, prodotti in laboratorio, che agiscono attaccando il virus mentre è in circolo e sono indicati in una fase precoce della malattia. Nel novembre scorso la Food and Drug Administration negli Stati Uniti ha approvato l’uso in emergenza di due anticorpi monoclonali, uno prodotto da Regeneron (quello con cui è stato curato Donald Trump) e l’altro studiato da Eli Lilly. L’ Ema non li ha ancora autorizzati perché ritiene che i benefici non siano così chiari.
Quali sono i problemi con i monoclonali?
Allo studio ci sono circa 200 farmaci monoclonali, ma almeno i due approvati negli Stati Uniti non sembrano efficaci su pazienti gravi. Per ottenere un beneficio devono essere somministrati entro 48-72 ore dalla manifestazione dei sintomi e la terapia va effettuata in ospedale per monitorare eventuali reazioni allergiche, causando ulteriore stress negli ospedali. Ma come si fa a decidere chi trattare con un farmaco tanto costoso? A oggi sappiamo che rischiano un aggravamento della malattia pazienti anziani e con malattie pregresse, ma non è sempre così dal momento che, seppur più raramente, hanno perso la vita per Covid-19 anche pazienti più giovani, in precedenza sani.
Al momento, dunque, a oltre anno dall’avvento del covid, non abbiamo ancora un farmaco specifico per chi si ammala in modo grave. La speranza arriva dai monoclonali ma è da chiarire se tra quelli che oggi sono arrivati in fase 3 ce ne sia qualcuno che funzioni anche su pazienti gravi o se invece questa classe di farmaci può funzionare solo se utilizzata in fase precoce della malattia.
Dal momento che il problema sembra essere l’ abnorme risposta immunitaria sviluppata contro il virus il futuro della ricerca potrebbe concentrarsi sull’ identificare un anticorpo monoclonale antinfiammatorio/immunosoppressivo. Ne esistono una quindicina utilizzati per trattare malattie autoimmuni, alcuni sono in sperimentazione contro il Covid.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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