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Da ‘traditori’ di Benyamin Netanyahu ad angeli degli aiuti

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Fino ad due settimane fa erano bollati dal premier Benyamin Netanyahu (Bibi per i suoi fan) come gli ‘anarchici’, ‘i traditori di sinistra’, che sobillavano il Paese contro la sua riforma giudiziaria. Oggi sono diventati gli ‘angeli’ dell’assistenza umanitaria alle famiglie degli uccisi da Hamas, agli sfollati – circa 600mila – del sud e del nord di Israele. La loro base è un immenso capannone della Fiera di Tel Aviv dove in 15 mila – lo stesso 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas – sono accorsi al richiamo delle organizzazioni più attive contro il governo di destra del premier.

A cominciare da ‘Fratelli e sorelle in armi’, il gruppo di riservisti più tenace nell’opposizione politica all’esecutivo. In pochi giorni hanno trovato posto per 8.000 persone sfollate, messo su oltre 1.000 attività per i minori evacuati, distribuito 12.000 pasti, trasportato 8.000 civili e militari richiamati in servizio quando, la sera dell’attacco, ancora stavano celebrando la fine della festa di Sukkot. Sono andati anche direttamente nei kibbutz assaltati per aiutare i civili feriti e chi avesse bisogno, gatti e cani compresi.

Nel capannone – hanno raccontato i media – c’è di tutto: supporto psicologico, vestiti, attrezzature per chi scappando dal kibbutz ha perso ogni cosa, lunghe tavolate per offrire cibo e bevande. Ci sono anche kit per la ‘shiva”, la veglia funebre di sette giorni che ogni famiglia osserva per i suoi morti, almeno quelli che sono stati identificati. Ma quello che ha colpito di più è che nel capannone ci sono insieme laici e religiosi che negli otto mesi di proteste si sono considerati nemici giurati. “Se mi avessero detto due settimane fa che sarei stato a parlare con un giornalista ortodosso, avrei detto ‘svegliati dal sogno e fallo in fretta’”, ha ammesso Noam Lanir uno dei fondatori di ‘Fratelli e sorelle in armi’ commentando l’intervista data ad un giornalista del quotidiano religioso ‘Kikar ha Shabbat’.

E il reporter ha ammesso: “Dopo 9 mesi di odio, abbiamo capito che siamo fratelli”. Dello stesso avviso è stato Gigi Levy-Weiss, un ex pilota: “Abbiamo un popolo incredibile ed è qui che puoi vedere il cuore dello spirito di Israele”. Nell’immenso capannone non c’è alcuna gerarchia ma tutto fila come una oliata organizzazione militare.

“Dalle 7.30 di quel 7 ottobre – ha raccontato Tamir Reicher, attivista anti riforma Netanyahu descrivendo come tutto è nato – abbiamo cominciato a ricevere una quantità di messaggini da posti come Kfar Aza”, uno dei kibbutz più martoriati dall’attacco di Hamas e “ci siamo organizzati”. Il capannone in breve è diventato uno spot per vip: è stato visitato dagli ex premier Yair Lapid e Naftali Benet, dal direttore dell’agenzia ebraica Doron Almog – che ha perso, uccisi da Hamas, due famigliari a Kfar Aza – dal cancelliere tedesco Olaf Scholtz e anche dal segretario di stato Usa Antony Blinken.

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Putin ringrazia i soldati nordcoreani, ‘sono eroi’

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Il presidente russo, Vladimir Putin, ha ringraziato in un messaggio i soldati nordcoreani che hanno preso parte alla “liberazione della regione di Kursk” dalle truppe d’invasione ucraine, definendoli “eroi”. Lo riferisce il servizio stampa del Cremlino.

“Il popolo russo non dimenticherà mai l’impresa delle forze speciali coreane, onoreremo sempre gli eroi coreani che hanno dato la vita per la Russia, per la nostra comune libertà, al pari dei loro compagni d’armi russi”, si legge nel messaggio di Putin. Il presidente russo sottolinea che l’intervento è avvenuto “nel pieno rispetto della legge internazionale”, in base all’articolo 4 dell’accordo di partenriato strategico firmato nel giugno dello scorso anno tra Mosca e Pyongyang, che prevede assistenza militare reciproca in caso di aggressione a uno dei due Paesi. “Gli amici coreani – ha aggiunto Putin – hanno agito in base a un senso di solidarietà, giustizia e genuina amicizia. Lo apprezziamo molto e ringraziamo con sincerità il presidente Kim Jong-un personalmente”.

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Trump: Zelensky vuole un accordo e rinuncerebbe alla Crimea. Putin smetta di sparare e firmi

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Volodymyr Zelensky è “più calmo” e “vuole un accordo”. È quanto ha riferito Donald Trump, secondo quanto riportato dai media americani, dopo il loro incontro avvenuto nella suggestiva cornice di San Pietro, a margine dei funerali di papa Francesco.

Un incontro positivo e nuove prospettive

Trump ha descritto l’incontro con il presidente ucraino come «andato bene», sottolineando che Zelensky sta «facendo un buon lavoro» e che «vuole un accordo». Secondo il tycoon, il leader ucraino avrebbe ribadito la richiesta di ulteriori armi per difendersi dall’aggressione russa, anche se Trump ha commentato con tono scettico: «Lo dice da tre anni. Vedremo cosa succede».

La questione della Crimea

Tra i temi toccati nel colloquio, anche quello della Crimea. Alla domanda se Zelensky sarebbe disposto a cedere la Crimea nell’ambito di un eventuale accordo di pace, Trump ha risposto: «Penso di sì». Secondo il presidente americano, «la Crimea è stata ceduta anni fa, senza un colpo di arma da fuoco sparato. Chiedete a Obama». Una posizione che conferma il suo approccio pragmatico alla questione ucraina.

L’appello a Putin: “Smetta di sparare”

Trump ha ribadito di essere «molto deluso» dalla Russia e ha lanciato un nuovo appello al presidente Vladimir Putin: «Deve smettere di sparare, sedersi e firmare un accordo». Il tycoon ha anche rinnovato la convinzione che, se fosse stato lui presidente, la guerra tra Mosca e Kiev «non sarebbe mai iniziata».

Un contesto suggestivo

Riferendosi all’incontro tenutosi a San Pietro, Trump ha aggiunto: «È l’ufficio più bello che abbia mai visto. È stata una scena molto bella». Un commento che sottolinea anche la forza simbolica del luogo dove i due leader si sono parlati, all’ombra della basilica vaticana.

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Media, due giornalisti italiani espulsi dal Marocco

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Due giornalisti italiani sarebbero stati espulsi ieri sera dalle autorità marocchine con l’accusa di aver cercato di entrare illegalmente nella città di Laayoune (El Aaiun). Lo rivela il quotidiano marocchino online Hespress. Matteo Garavoglia, 34 anni, giornalista freelance originario di Biella e collaboratore del ‘Manifesto’, e il fotografo Giovanni Colmoni, avrebbero tentato di entrare nella città marocchina meridionale al confine con la regione contesa del Sahara Occidentale “senza l’autorizzazione richiesta dalla polizia”.

I due erano a bordo di un’auto privata e, secondo quanto riporta il quotidiano marocchino, sarebbero stati fermati dagli agenti che hanno interpretato il tentativo di ingresso come un “atto provocatorio, in violazione delle leggi del Paese che regolano gli ingressi dei visitatori stranieri”. Sempre secondo l’Hespress, i due reporter avrebbero cercato di “sfruttare il fatto di essere giornalisti per promuovere programmi separatisti. Per questo sono stati fermati e successivamente accompagnati in auto nella città di Agadir”. Non era la prima volta che i due tentavano di entrare a Laayoune, secondo il quotidiano, ma sempre “nel disprezzo per le procedure legali del Marocco”.

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