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Corona Virus

Coronavirus, ecco chi sono i pazienti morti e perchè fa più paura il virus della cattiva informazione

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Proviamo a fare informazione fornendo notizie, fatti, evitando commenti. Quando non ci comportiamo in questo modo, sbagliamo. È l’approccio normale. Questo metodo lo usiamo, ovviamente, anche nel raccontare l’Italia ai tempi del Coronavirus. Trattandosi poi di questioni mediche, evitiamo qualsiasi commento perché un giornalista non ha conoscenze scientifiche tali da commentare in maniera puntuale e seria informazioni mediche. E allora proviamo a tirare un pochino di somme alla fine di una prima settimana di informazione main stream spasmodica, asfissiante sulla presunta epidemia da coronavirus in Italia. Abbiamo capito anche noi di Juorno che non è una banale influenza, ma che non è nemmeno la peste bubbonica, il colera che fa centinaia di morti nello Yemen tra le popolazioni sotto le bombe o Ebola che uccide da anni migliaia di persone in Africa nel silenzio assoluto dei media. E allora nel racconto di questa influenza da coronavirus (una variante più virulenta della normale influenza)  occorre trovare un equilibrio tra allarmismo o terrorismo mediatico e indifferenza. Il punto di equilibrio si chiama buona informazione. La si fa con dati, numeri, fatti, facendo parlare medici, scienziati, istituzioni scientifiche. I politici capiscono di questioni mediche più o meno quanto i giornalisti. Nulla.

E allora parlando di Coronavirus diciamo che il numero di morti provocati in Italia direttamente dalla normale influenza (cioè la morte causata dalla influenza) varia tra i 200 e 300 ogni anno. Altri 7/8mila morti sono invece causati indirettamente dalla influenza. Vuol dire che l’influenza è una concausa della morte perchè come patologia si innesta su altre patologie più gravi e causa il decesso dei pazienti.

Dunque ogni anno, secondo dati dell’istituto Superiore di Sanità, non dati di Juorno, in Italia muoiono direttamente (2/300 persone) e indirettamente (7/8mila) tra le 7mila e le 8mila persone. Davanti a quella che nei numeri è una carneficina non ci risulta che venga usata la stessa attenzione mediatica riservata al coronavirus. Oggi, mediamente, ogni media italiano dedica a questa pagina di informazione circa la metà del tempo o dello spazio (su carta o sul web) a disposizione. Ma per raccontare che cosa? O meglio, o peggio per esaltare quali aspetti?

Dare spazio ad iniziative estemporanee di politici, amplificare idiozie di sfaccendati che tirano fuori le profezie di Nostradamus o ancora dare fiato a tesi complottiste sull’utilità dei vaccini ed altre scemenze sui virus scappati dai laboratori di guerra o inoculati sulla terra dall’esercito degli extraterrestri che sta per invaderci. C’è poi il capitolo dei social e dei virologi della domenica. Ma quella è patologia seria che andrebbe curata con altri vaccini o con psicoterapeuti.

Il coronavirus, dicono gli scienziati, è una influenza determinata da un virus assai coriaceo che necessita di un vaccino specifico per evitare che si propaghi (se un virus non lo uccidi evolve in epidemia e poi pandemia) e faccia danni devastanti a livello globale.

Su questo sta lavorando la comunità scientifica internazionale, collaborando per trovare il farmaco killer del coronavirus. Sono state tre ricercatrici italiane dello Spallanzani a isolare il virus. E la loro scoperta non l’hanno conservata ma messa a disposizione della comunità scientifica mondiale.

Davanti ad una situazione come questa, tutto sommato lineare, ci stiamo affannando in Italia a dare una rappresentazione del Paese quasi caricaturale. Mi spiego. Telegiornali, speciali, dirette, approfondimenti, documentari, giornalisti vestiti da inviati di guerra con maschere antigas e microfono come se raccontassero una guerra nucleare e batteriologica in corso, uso di termini come epidemia, pandemia, isolamento, cordone sanitario che quasi mai hanno attinenza con la realtà. Insomma piuttosto che dare informazioni o meglio fare informazione, stiamo allarmando e terrorizzando milioni di italiani e convincendo la comunità internazionale che siamo un paese infetto da evitare. E infatti l’isterismo con cui i media hanno contagiato l’Italia ha anche convinto alcuni paesi (Grecia, Austria, Romania, isole Mauritius, Israele) a dichiarare l’Italia un Paese da evitare o a bloccare nostri connazionali e rispedirli a casa. Siamo alla follia. Che cosa è successo in Italia? Ci sono alcuni focolai di infezione che il Governo ha individuato e isolato, abbiamo poche decine di migliaia di persone che devono restare a casa per due settimane. Non decine di milioni come in Cina. C’è la difficoltà a individuare il paziente zero perchè l’infezione si è sviluppata in un ospedale. Davanti a questa situazione oggettiva di difficoltà, lo Stato (con tutte le sue articolazioni) si sta muovendo e verrà a capo di questa infezione.

Ma la diffusione del coronavirus in Italia che cosa ha determinato? Allora la sanità pubblica sta cercando persone infette e dunque sta facendo migliaia di tamponi faringei. Abbiamo scoperto 250 e più persone infette. Le abbiamo messe in quarantena. Tutto normale. Anzi, tutto serio. In altri paesi non se ne fanno di tamponi faringei. Dunque è normale che in Italia ci sono infetti, noi li cerchiamo per curarli e guarirli.

Dunque il livello di allerta stabilito dall’Italia è figlio della serietà di scelte delle istituzioni per salvaguardare la salute dei propri cittadini. Non è accettabile che in altri Paesi cittadini italiani vengano cacciati, messi in quarantena, costretti a chiudersi in albergo o a lasciare piscine e altri luoghi pubblici solo perchè italiani. Anzi, il Governo, col suo ministro degli Esteri, si muova e protesti ufficialmente per episodi di razzismo e discriminazione contro gli italiani. Sono inaccettabili.

Per provare a capire di che cosa stiamo parlando, i  termini di lutti, in termini di perdite di vite umane, per le quali dobbiamo avere il massimo rispetto, vi diamo i numeri di questa infezione in Italia.

  • Adriano Trevisan, 78 anni di Vo’ Euganeo (Padova) è morto il 21 febbraio. Era ricoverato da una decina di giorni all’ospedale di Schiavonia (Padova) con una diagnosi di polmonite. Poiché non era mai stato in Cina, solo pochi giorni prima del decesso gli era stato effettuato il test sul coronavirus, risultato positivo. Trevisan frequentava un bar del suo paese assieme a un amico a sua volta trovato positivo.
  • Una donna di 75 anni residente a Casalpusterlengo, uno dei comuni della «zona rossa» del Lodigiano, muore il 22 febbraio. Fatale per la donna sarebbe stata una visita al pronto soccorso di Codogno nelle stesse ora in cui si trovava lì il cosiddetto «paziente 1», il trentottenne di Codogno da cui si ritiene sia partito l’intero contagio. Alla donna di Casalpusterlengo il tampone sul virus è stato eseguito post mortem.
  • Angela Denti, 68 anni, di Trescore Cremasco (Cremona) muore domenica all’ospedale di Crema. Aveva un quadro clinico molto compromesso: era ricoverata nel reparto di oncologia con una diagnosi di tumore e poco prima del decesso aveva avuto un attacco cardiaco. In seguito a una crisi respiratoria, era stata trovata positiva anche al coronavirus.
  • Un uomo di 84 anni di Villa di Serio è morto a Bergamo, all’ospedale Papa Giovanni: era stato trasferito lì dall’ospedale di Alzano Lombardo con un quadro clinico già compromesso e positivo al coronavirus.
  • Un uomo di 88 anni, nato a Caselle Landi e residente a Codogno è la quinta vittima del coronavirus in Italia. Il paese del Lodigiano ed è uno dei dieci centri inseriti nel «focolaio» dal decreto del ministero della salute e della Regione Lombardia.
  • Un uomo di 80 anni, residente a Castiglione d’Adda (uno dei paesi della «zona rossa» lombarda) è morto all’ospedale Sacco di Milano. Giovedì era stato ricoverato per un infarto all’ospedale di Lodi. Inizialmente era stato ricoverato in rianimazione ma una vola risultato positivo al test, era stato trasferito a Milano.
  • Un uomo di 62 anni residente a Castiglione d’Adda, è morto nel pomeriggio all’ospedale di Como. È la settima vittima legata al coronavirus in Italia. Anche Castiglione è uno dei comuni compresi nel focolaio del Lodigiano. Anche in questo caso si tratta di un paziente che soffriva già di altre di patologie cardiache e doveva sottoporsi a dialisi.

Giornalista. Ho lavorato in Rai (Rai 1 e Rai 2) a "Cronache in Diretta", “Frontiere", "Uno Mattina" e "Più o Meno". Ho scritto per Panorama ed Economy, magazines del gruppo Mondadori. Sono stato caporedattore e tra i fondatori assieme al direttore Emilio Carelli e altri di Sky tg24. Ho scritto libri: "Monnezza di Stato", "Monnezzopoli", "i sogni dei bimbi di Scampia" e "La mafia è buona". Ho vinto il premio Siani, il premio cronista dell'anno e il premio Caponnetto.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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