“Fuori i Benetton”. E’ quel che chiedono i Cinque stelle per dare il via libera a una soluzione sulla vicenda Aspi che non sia la revoca della concessione. Ed e’ nei confini di questa richiesta che il governo cerchera’, nelle prossime ore, una soluzione possibile al dossier che tiene banco da due anni. Il premier Giuseppe Conte portera’ in Consiglio dei ministri una proposta di mediazione solo se “irrinunciabile”. Ma ogni partito di governo da’ a questo aggettivo un significato diverso. Il Pd ritiene che la proposta dell’azienda soddisfi gran parte delle richieste poste dall’esecutivo e che ponga dunque buone basi. Il M5s si presenta al tavolo con una posizione assai rigida: “Revoca o fuori i Benetton”. Mentre Italia viva ritiene “surreale” il dibattito sull’ingresso dello Stato in Aspi. Divergenze che fanno dire a Gianni Mion, presidente di Edizione, la holding di Benetton, che la “proposta e’ seria” ma “non c’e’ ottimismo” su un’intesa. Ma una mediazione, assicurano piu’ fonti di governo, e’ ancora possibile: si lavora a un’intesa che abbia, a valle, un aumento di capitale che riduca il piu’ possibile (c’e’ chi dice addirittura dall’88% al 5%) la presenza di Atlantia in Aspi, in modo da poter dire che i Benetton sono, in sostanza, “fuori da Aspi”. Da Palazzo Chigi e dai ministeri dei Trasporti e dell’Economia, che stanno valutando la proposta giunta sabato dall’azienda, nulla trapela. Conte potrebbe convocare nella prossime ore un vertice di governo, prima di riunire il Consiglio dei ministri.
La riunione e’ ipotizzata per martedi’, anche se ancora non convocata. E, anche se c’e’ chi non esclude uno slittamento a mercoledi’ o giovedi’, la volonta’ di chiudere c’e’. Se si decidesse per la revoca della concessione, servirebbe una legge da portare in votazione in Parlamento. Ma ancora in queste ore nel governo si ragiona sull’ipotesi di un accordo in due fasi: il via libera alla proposta dell’azienda e poi l’aumento di capitale che, “senza dare soldi ai Benetton”, ridimensionerebbe la presenza di Aspi. Soggetti interessati a entrare, assicurano piu’ fonti, ce ne sarebbero diversi, da Cdp a Poste Vita fino a fondi come Macquarie. Ma il passaggio e’ assai delicato. Una fonte Dem di governo osserva che quanto alla proposta dell’azienda sono stati fatti passi avanti importanti sui risarcimenti portati a 3,4 miliardi, ma soprattutto sulle tariffe, con la riduzione dei pedaggi e l’adeguamento alle indicazioni dell’Autorita’ dei trasporti e il principio per cui le tariffe sono remunerate solo a fronte di investimenti fatti. In piu’, Aspi non chiede di modificare la norma del decreto Milleproroghe che ha ridotto da 23 a 7 miliardi i risarcimenti dello Stato all’azienda in caso di revoca della concessione (anche se sulla norma e’ pendente un ricorso alla Consulta).
A fronte di questo pacchetto di interventi, che il M5s ha ritenuto “non sufficiente”, c’e’ anche la disponibilita’ di Atlantia, societa’ quotata in borsa, a scendere nell’azionariato. Ed e’ su questo piano che Conte cerchera’ probabilmente una mediazione. Tutto gli occhi sono puntati sui Cinque stelle. Una fonte Pd spiega che la consapevolezza diffusa nel governo e’ che la revoca della concessione porterebbe con se’ il rischio di un maxi risarcimento ad Aspi e del caos nella gestione delle autostrade. Ma c’e’ il timore che dietro questo dossier si giochi una partita tutta politica tra un pezzo di M5s e premier. “Abbiamo letto prese di posizione molto nette, da Di Maio a Buffagni, non sara’ facile per Conte convincerli”, dice un sottosegretario Dem. Fonti di governo pentastellate spiegano che qualche insofferenza ci sarebbe tra i parlamentari M5s per come Conte ha gestito il dossier: “Non puoi trattare per cosi’ tanto tempo con i Benetton…”. Ma aggiungono che in Cdm si cerchera’ una soluzione e che il dialogo con i ministri Pd non si e’ mai interrotto. Quel che non si puo’ fare, sostengono sia Iv che l’opposizione, con l’azzurra Maria Stella Gelmini, e’ nazionalizzare. E’ “surreale e incomprensibile” il dibattito sull’ingresso dello Stato, dice Teresa Bellanova: “Non e’ interessante quel che il privato mette sul tavolo. Quello che e’ dirimente e’ la tutela dell’interesse pubblico” con “controlli, sicurezza, efficienza”. “Revoca della concessione o esca la famiglia Benetton dall’azionariato”, dice dal M5s Roberto Traversi. Questo puo’ voler dire, secondo l’ala piu’ governista del M5s, anche la discesa di Atlantia a una quota del tutto minoritaria (le cifre, nelle ipotesi che circolano in queste ore, dal 30% fino al 5%). Ma c’e’ chi come Alessandro Di Battista e Barbara Lezzi non sembra disposto ad accontentarsi: “Deve essere revoca: siano resi noti i voti dei ministri in Cdm”.
Donald Trump intende attenuare l’impatto dei dazi sulle auto prodotte all’estero, impedendo che si accumulino ad altre tariffe dazi da lui imposte e alleggerendo alcuni dazi sui componenti esteri utilizzati per la produzione di veicoli negli Usa. Lo scrive il Wall Street Journal citano una persona a conoscenza del dossier. In base a questa mossa, le case automobilistiche che pagano i dazi di settore non saranno soggette anche ad altri dazi, come quelli su acciaio e alluminio. La decisione sarebbe retroattiva, hanno affermato le fonti, il che significa che le case auto potrebbero essere rimborsate per tali tariffe già pagate.
Il dazio del 25% sulle auto finite prodotte all’estero è entrato in vigore all’inizio di questo mese. L’amministrazione Usa, sempre secondo il Wsj, modificherà anche i dazi sui ricambi delle auto estere – previsti al 25% e in vigore dal 3 maggio -, consentendo alle case automobilistiche di ottenere un rimborso per tali dazi fino a un importo pari al 3,75% del valore di un’auto prodotta negli Stati Uniti per un anno. Il rimborso scenderebbe al 2,75% del valore dell’auto nel secondo anno, per poi essere gradualmente eliminato del tutto. Si prevede che Trump adotti queste misure in vista di un viaggio in Michigan per un comizio alla periferia di Detroit martedì sera, in occasione dei suoi primi 100 giorni alla Casa Bianca. Le misure mirano a dare alle case automobilistiche il tempo di riportare le catene di approvvigionamento dei componenti negli Usa e rappresenterebbero probabilmente un significativo impulso per le case automobilistiche nel breve termine, ha affermato una fonte a conoscenza della decisione. Le case auto dovranno presentare domanda di rimborso al governo, ma non è immediatamente chiaro da dove arriveranno questi fondi.
Mediobanca gioca la sua mano nella partita del risiko bancario proponendo di scambiare la quota del 13% nelle Generali con la totalità delle azioni di Banca Generali. Un’operazione che da un lato trasformerebbe in un asset industriale una partecipazione finanziaria con cui i manager di Piazzetta Cuccia hanno sempre inciso sulle scelte strategiche del Leone e dall’altro aprirebbe nuovi scenari sugli assetti di controllo del grande ‘forziere’ del risparmio italiano. La mossa, di cui l’ad di Mediobanca Alberto Nagel (foto Imagoeconomica in evidenza) ha sottolineato la valenza industriale e la coerenza con il piano di Piazzetta Cuccia, ha però anche l’effetto non secondario di cercare di sottrarre la banca all’abbraccio sgraditissimo di Mps, la cui scalata potrebbe diventare più costosa se il mercato crederà alle promesse di Nagel e più complessa in uno scenario di integrazione a tre.
“L’operazione – scrivono gli analisti di Bofa – aggiunge incertezza e uno strato di complessità al progetto di un terzo polo Mps-Mediobanca”. Non la vedono così a Siena dove tira tutt’altro che aria di resa. Non solo l’offerta su Banca Generali viene giudicata non “ostativa” della scalata a Mediobanca ma viene anzi ritenuta in grado di “rafforzare il valore industriale” dell’operazione di Mps, che punta a aumentare la sua presenza nel wealth management e valuta “non strategica” e cedibile la quota nel Leone. Lovaglio può contare sul sostegno dei suoi grandi sponsor. Anzitutto del governo, dove fra i meloniani Banca Generali viene considerata la “risposta scaltra” di Nagel al Monte e si auspica che l’ops di Mps “vada in porto”.
Ma anche di Caltagirone e Delfin, che insieme hanno il 27,2% di Mediobanca e il 20% di Mps, e non appaiono intenzionati a deporre le armi, come dimostra l’astensione dei rappresentanti di Delfin nel cda di Mediobanca e la battaglia che potrebbero dare in Generali, anche sollevando il tema del conflitto di interesse di Mediobanca, i consiglieri del Leone eletti nella lista Caltagirone. Si tratterà di vedere se, alla prova del mercato, Nagel sarà in grado di convincere i suoi azionisti che è meglio una Mediobanca indipendente e con una solida presenza nel wealth management ad un matrimonio con Mps, che con Piazzetta Cuccia punta invece a diversificare il suo business e a creare il terzo polo bancario. Ma anche se saprà spingere i soci di Banca Generali, a partire dal Leone, a consegnare le azioni. A caldo la Borsa – dove viene riconosciuto il senso industriale e finanziario dell’ops per Mediobanca ma meno per Generali e Banca Generali – ha risposto con una certa freddezza, facendo scendere Piazzetta Cuccia (-0,8%) e Generali (-1,1%) e spingendo Mps (+2,1%).
Ma il piano di Mediobanca prevede anche l’addio a Trieste, con metà della quota che verrebbe rilevata dal Leone e metà che si dissolverebbe nel mercato. Per Generali – dove Delfin ha quasi il 10%, Caltagirone il 6,8% e Benetton il 4,8% – si aprirebbe l’esigenza di puntellare la compagine tricolore che ne difenda l’italianità, in una fase in cui il governo ha acceso un faro sull’accordo nell’asset management con Natixis. Una partita su cui potrebbero avere qualcosa da dire Intesa, che domani investirà il suo ceo Carlo Messina con un nuovo mandato triennale, e soprattutto Unicredit, che ha già rastrellato il 6,7% del capitale e ha votato con Caltagirone e Delfin in assemblea, auspicando un cambio di passo a Trieste. Una partita che potrebbe incrociarsi con l’ops su Banco Bpm, partita oggi con la consegna di sole 798 azioni. L’operazione è fortemente a rischio dopo i paletti imposti dal governo con il golden power, in relazione ai quali Unicredit, che per ora non ha impugnato il provvedimento, ha chiesto chiarimenti. Nel frattempo il cda di Gae Aulenti ha rinviato al 12 maggio la presentazione dei suoi risultati, inizialmente in programma il 7, stesso giorno di quelli di Banco Bpm.
Dopo 10 anni di convivenza Pirelli prova a prendere le distanze dal socio cinese che, dopo aver investito 7,1 miliardi di euro, non intende però farsi mettere alla porta. “E’ venuto meno il controllo di Sinochem” si leggerà nella relazione finanziaria che il 12 giugno i soci voteranno in assemblea ma Marco Polo International Italy, il veicolo che detiene la quota del 37%, si oppone fin d’ora. In cda il presidente di Pirelli (e di Sinochem) Jiao Jian e i consiglieri Chen Aihua, Zhang Haitao, Chen Qian, Fan Xiaohua hanno votato contro e il bilancio è stato approvato a maggioranza, con il voto favorevole di 9 su 15 consiglieri. Il fronte cinese non è compatto: Tang Grace si è astenuta e gli indipendenti Marisa Pappalardo e Alberto Bradanini hanno votato a favore. In serata arriva la presa di posizione di Marco Polo International Italy che esprime un “profondo disappunto e ferma opposizione”.
La relazione finanziaria di Pirelli, su proposta dell’ad Andrea Casaluci, contiene l’informativa secondo cui, “a seguito del Golden Power è venuto meno il controllo di Marco Polo Italy (e, per l’effetto, di Sinochem) su Pirelli ai sensi dell’Ifrs 10”. Il decreto “non include alcuna disposizione che privi Mpi del controllo su Pirelli, anzi lo presuppone” ribatte il socio cinese e sembra una dichiarazione di voto; e poi arriva la precisazione che “tra l’altro Mpi continua a detenere una percentuale rilevante per l’esercizio di un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria”. Lo scontro diretto però non sembra nello stile del socio cinese, che ricorda “in qualità di azionista responsabile di Pirelli, abbiamo sempre rispettato rigorosamente le leggi italiane ed estere, e continueremo a farlo con spirito di collaborazione con tutte le autorità competenti assicurando la naturale tutela degli interessi di Mpi e preservando sempre lo sviluppo e la crescita di Pirelli”. Il dialogo dunque continua. Il venir meno del controllo, sottolineano i manager, è “un primo passo, ma non risolutivo, nel percorso di necessario adeguamento della governance societaria ai vincoli normativi negli Usa”, un mercato chiave per l’High Value (un settore che pesa per il 76% dei ricavi totali) e la tecnologia Cyber Tyre. Gli analisti, Banca Akros, Equita e Mediobanca dicono cose simili, Pirelli “avrebbe bisogno di una nuova governance”.
“Tra le diverse soluzioni – elencano ricordando le indiscrezioni di stampa – vi è una riduzione della quota di Sinochem a meno del 25%, forse attraverso l’ingresso di un nuovo azionista di riferimento o una nuova governance che limiti il numero di membri cinesi nel CdA”. Casaluci ha un mese e mezzo per ricomporre lo strappo e poi porterà in assemblea il bilancio, il dividendo e il piano di incentivazione. Il 2024 si è chiuso con un utile netto consolidato di 501,1 milioni (+1%) e ricavi in aumento dell’1,9% a 6.773,3 milioni; per la capogruppo l’utile netto è stato di 302 milioni (+24,3%) e il cda proporrà la distribuzione di una cedola da 0,25 euro per azione per un totale complessivo di 250 milioni di euro. E per il 2025 non abbassa l’asticella anche se resta prudente, alla luce delle elevate incertezze sui dazi Usa. Per mitigarne l’impatto è già pronto un piano con l’obiettivo di garantire i target di Ebit Adjusted (al 16%) e di generazione di cassa (0,55 miliardi) nella parte bassa della guidance e raggiungere comunque l’obiettivo di deleverage. Il piano di mitigazione “prevede maggiori importazioni dal Brasile e un aumento della capacità negli Usa” aveva spiegato l’ad in occasione della presentazione dei conti. Inoltre “la politica commerciale verrà riesaminata sulla base del tasso di inflazione”.