Il Jobs Act – la contestata riforma del lavoro che ha allentato i vincoli ai licenziamenti con l’obiettivo di incrementare l’occupazione giovanile ridefinendo i diritti dei neoassunti – ha superato di nuovo lo scoglio del giudizio della Corte Costituzionale che, con la sentenza numero 7 del 2024, ha ritenuto non fondati i sospetti di incostituzionalità su alcuni punti salienti della normativa introdotta nel 2015 dal governo guidato da Matteo Renzi.
Come quello delle tutele crescenti in base all’anzianità di servizio, e la differenza tra lavoratori ‘vecchi’ con diritto ad essere reintegrati in caso di licenziamento ingiustificato e ‘giovani’ ai quali, a grandi linee, spetta solo un ‘indennizzo’ di alcune mensilità, da un minimo di 4 a un massimo di 25. “Il Jobs act a detta della Cgil e di certa sinistra doveva produrre danni al Paese ed essere illegittimo, invece – sottolinea il capogruppo di Italia Viva alla Camera Davide Faraone – ha dato una spinta eccezionale all’occupazione e oggi la Corte lo ha dichiarato legittimo. Gli oppositori del Jobs act, di industria 4.0 e di tutte le misure del governo riformista guidato da Renzi in materia di lavoro e imprese, non ne hanno azzeccata una. Alla fine hanno solo rallentato il Paese e ci hanno regalato la Meloni”.
“Qualcuno – aggiunge la coordinatrice del partito Raffaella Paita – dovrebbe scusarsi”. Sul Jobs Act, la Cgil nel 2016 aveva raccolto le firme per presentare un referendum abrogativo proponendo tre quesiti, in parte vennero bocciati dalla Consulta e in parte superati da modifiche legislative. Secondo i sindacati, la riforma ha cancellato l’articolo 18 per i neoassunti. Con la sentenza di oggi, la Consulta ha dichiarato non fondati i dubbi sulla norma che ha introdotto il contratto di lavoro a tempo indeterminato con diritti ‘differenziati’ a secondo della data di assunzione, con momento spartiacque dal 2015. La legge di delega aveva, infatti, escluso, per i licenziamenti legati a motivi di crisi economica di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti (quindi a partire dal 7 marzo 2015), la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro, e aveva previsto solo un indennizzo economico, limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
La Consulta, adesso, considerando anche i lavori parlamentari e la finalità complessiva perseguita dal Jobs Act, ha ritenuto che il riferimento contenuto nella legge di delega ai “licenziamenti economici” riguardasse sia quelli individuali per giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi. Ha quindi escluso che, sotto questo profilo, ci sia stata – come sosteneva invece la Corte d’appello di Napoli – la violazione dei criteri direttivi della legge di delega. Inoltre la Corte Costituzionale ha ritenuto non fondata anche l’ipotesi di violazione del principio di eguaglianza tra lavoratori “anziani” (quelli assunti fino al 7 marzo 2015), che conservano la più favorevole disciplina precedente e quindi la reintegrazione nel posto di lavoro, e i lavoratori “giovani” (quelli assunti dopo tale data), ai quali si applica la nuova disciplina del Jobs Act.
Questo perché, ad avviso della Consulta, il riferimento temporale alla data di assunzione consente di differenziare le situazioni: la nuova disciplina dei licenziamenti è orientata ad incentivare l’occupazione e a superare il precariato ed è pertanto prevista solo per i “giovani” lavoratori. Il legislatore non era tenuto, sul piano costituzionale, a rendere applicabile questa nuova disciplina anche a chi era già in servizio.
Inoltre la Consulta ha giudicato non inadeguata la tutela indennitaria adesso riconosciuta al lavoratore illegittimamente licenziato all’esito di una procedura di riduzione del personale, di importo pari al numero di mensilità determinato dal giudice, in misura comunque non superiore a trentasei mensilità. La Corte si è poi rivolta al legislatore, segnalando che, se in futuro intenderà mettere mano al Jobs Act, “la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie”.