Secondo i dettami della logica i britannici alle elezioni Europee del 23 maggio avrebbero dovuto fare da spettatori, tre anni dopo il referendum che sulla carta ne aveva decretato il divorzio da Bruxelles. Ma la logica, in un Regno Unito rimasto nel frattempo a meta’ del guado fra Brexit si’ e Brexit no, ha lasciato il posto a un tocco di follia persino sbarazzino per gli usi d’Oltremanica. Fra minacce e ‘vaffa’. E cosi’ la partecipazione un po’ da intrusi al voto per il rinnovo dell’assemblea di Strasburgo diventa il palcoscenico degli eccentrici, delle trincee opposte: da un lato chi come Nigel Farage si propone col suo Brexit Party soltanto di provare a gettare scompiglio in terra nemica (senza rinunciare alle poltrone); dall’altro chi come il Partito liberaldemocratico conta di cogliere l’occasione non solo per rimettere in causa l’uscita dall’Ue, ma anche per scrollarsi di dosso l’etichetta da terza forza e fare bottino pieno in una partita che per il Regno mette in palio in totale ben 73 scranni da eurodeputati. I protagonisti di giornata, in qualche modo, sono proprio i vecchi LibDem che, forti delle loro radici di storica formazione europeista, non esitano a ricorrere al linguaggio popolare da osteria (o da pub) per tentare di fare incetta di consensi pro Remain in vista del 23 maggio. Lo slogan della loro campagna viene cosi’ ripreso pari pari dalle grida di piazza: “Bollocks to Brexit”, qualcosa come “fuori dalle balle la Brexit”. In ballo per loro ci sono i seggi da contendere all’agguerrito ma frastagliato fronte filo-Ue duro e puro: quello che chiede un secondo referendum senza e senza ma, polemizzando con i distinguo del Labour di Jeremy Corbyn, e che va dai Verdi al neonato gruppo trasversale centrista di Change Uk. “E’ da 50 anni che il vero partito europeista siamo noi” in Gran Bretagna, lancia la sfida il veterano Vince Cable, leader liberaldemocratico, dalle colonne del Guardian. Una sfida che peraltro, turpiloquio o non turpiloquio, rischia di essere fratricida. Mentre dall’altro lato della barricata Farage – tuonando di voler scatenare “il caos” nel prossimo Europarlamento – sale nei sondaggi fino al 30% con il nuovo Brexit Party: pronto in questo contesto a fagocitare i voti dell’Ukip, suo ex partito, e gran parte di quelli della lacerata parrocchia Tory di Theresa May, incapace finora di portare a casa un qualunque voto di ratifica parlamentare su quella Brexit che aveva promesso di attuare e al momento talmente diviso da presentarsi all’appuntamento del 23 maggio quasi in clandestinita’. In mezzo, i laburisti la cui piattaforma elettorale – lanciata oggi stesso da Corbyn nel Kent – appare un esercizio di equilibrismo. Lo sforzo del compagno Jeremy, il cui bacino di riferimento e’ grosso modo anti Brexit per due terzi e pro Brexit per un terzo, e’ quello di andare oltre il muro contro muro fra Leave e Remain e di richiamare “la vera linea di divisione” sul fronte delle “diseguaglianze sociali”, fra “i pochi privilegiati e i molti” che non lo sono. Il motto scelto e’ non a caso “ricostruire la Gran Bretagna” e il messaggio corbyniano indica il Labour come “l’unico partito in grado di unire il Paese”, di “sanarne le ferite per difficile che sia”. Di qui l’impegno a sostenere un referendum bis solo quale terza istanza, nonostante l’inserimento nelle liste di Remainer radicali come lord Andrew Adonis, se non sara’ possibile una Brexit soft o un voto politico anticipato. Una linea mediana che del resto rischia di scontentare tutti, avverte la deputata Mary Creagh: perche’ “stare al centro della strada sulla Brexit significa poter essere investiti da entrambe le direzioni”.