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Cronache

Messina Denaro, in carcere la rete di fiancheggiatori

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 Il primo è stato Giovanni Luppino, sulla carta imprenditore agricolo, di fatto fedelissimo autista del boss Matteo Messina Denaro. Era lui ad accompagnarlo alle sedute di chemioterapia. Per 50 volte in meno di due anni avrebbe fatto la spola tra Campobello di Mazara e La Maddalena, la clinica in cui il padrino allora ricercato si sottoponeva alle cure per il cancro. “Me lo avevano presentato con un altro nome e questa mattina all’alba ha bussato a casa mia per chiedermi un passaggio”, disse ai carabinieri del Ros che, il 16 gennaio scorso, l’arrestarono insieme al capomafia.

Ma le indagini riveleranno che Luppino era molto più dell’autista dell’ex primula rossa di Cosa nostra e che andava a chiedere denaro in giro per finanziarne la latitanza. L’imprenditore è ancora in carcere e ha chiesto di essere giudicato in abbreviato. La Procura gli ha contestato il reato di associazione mafiosa. Gli accertamenti sulla rete dei fiancheggiatori che hanno protetto il boss hanno poi portato al geometra Andrea Bonafede, l’uomo che ha prestato per anni l’identità al latitante e gli ha consentito di avere il falso documento di riconoscimento usato per acquistare l’ultimo appartamento in cui si è nascosto e per curarsi. Nipote del capomafia Leonardo Bonafede, storico alleato dei Messina Denaro, si trova davanti al gup con l’accusa di associazione mafiosa. Per i pm è uno dei personaggi chiave della latitanza del boss.

Se Andrea era l’alias al ricercato, il cugino omonimo più piccolo, operaio comunale, per mesi ha fatto avere a Messina Denaro prescrizioni e ricette mediche necessarie per le terapie. Bonafede si è sempre difeso sostenendo di aver consegnato i documenti al cugino ritenendo che fosse lui il paziente. Dalle indagini, però, è emerso che almeno in due occasioni, nel novembre del 2020, il “postino” avrebbe attivato delle sim per il cellulare in realtà utilizzate dal latitante. E’ stato condannato dal gup per favoreggiamento aggravato a 6 anni e 8 mesi. Ancora in corso, invece, a Marsala il processo per concorso esterno in associazione mafiosa al medico Alfonso Tumbarello. Era lui a compilare le ricette per il capomafia. “Ero certo che il paziente fosse Andrea Bonafede”, ha detto ai pm sostenendo di aver avuto in cura per anni un malato mai visitato.

Vecchio massone vicino alla famiglia Messina Denaro, è solo il primo dei medici finito sotto la lente degli investigatori che, nel mondo della sanità che ha coperto il boss, hanno appena cominciato a indagare. Mese dopo mese il puzzle è andato componendosi. Ed a marzo è toccato a Rosalia, la sorella del capomafia. Una sorta di alter ego del capomafia per conto del quale gestiva affari e comunicazioni, scrivono i giudici dopo il suo arresto per associazione mafiosa. Era l’unica a sapere della malattia del fratello. Fu lei a nascondere nella gamba di una sedia il pizzino, poi trovato dal Ros, con i dati clinici de padrino, indizio fondamentale per arrivare alla sua cattura. Il 16 gennaio, a un anno dall’arresto del fratello, comparirà in udienza preliminare. La caccia ai fiancheggiatori del boss ha poi portato ai coniugi Bonafede-Lanceri.

Lui ennesimo cugino del geometra Andrea, lei amante del padrino e incaricata di smistarne i messaggi. Venerdì è stata condannata a 13 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, il marito ha avuto 6 anni e 8 mesi per favoreggiamento. Le ultime due a finire nella rete degli inquirenti sono infine Laura Bonafede e Martina Gentile. Bonafede, maestra elementare figlia del boss Leonardo, compagna di Messina Denaro di una vita – i due hanno convissuto anche quando lui era latitante – attende la fissazione dell’udienza preliminare ed è accusata di associazione mafiosa, la figlia, pezzo fondamentale della rete che gestiva la posta del capomafia, è ai domiciliari per favoreggiamento. E’ la figlia che il padrino avrebbe voluto avere. E’ cresciuta sulle sue ginocchia. “Non mi ero resa conto della sua vera natura”, si è difesa davanti al gup.

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Caso dei turisti israeliani cacciati da un ristorante: indaga la Procura, bufera su Napoli

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Finisce in Procura il caso dei due turisti israeliani che sarebbero stati allontanati per motivi razziali dal ristorante “Taverna Santa Chiara”, nel cuore del centro storico. Un video, registrato con uno smartphone e diventato virale sui social, mostra l’alterco tra la titolare del locale, Nives Monda, e la coppia di clienti, Geula e Raul Moses, cacciati perché “sionisti”, come dichiarato dalla stessa ristoratrice. Ora sul caso indaga la Digos della Questura e il comando provinciale dei Carabinieri, con due informative in arrivo sulla scrivania del procuratore Nicola Gratteri.

Il video e la denuncia

Il filmato, che dura meno di due minuti, documenta la parte finale di uno scontro acceso. Una verità parziale? In questo pezzo di video la sognora Monda invita i due clienti ad uscire dal ristorante, dichiarando di non voler servire cittadini israeliani e definendo Israele uno “Stato genocida e di apartheid”. Che cosa si siano detti prima non è dato sapere. La coppia di israeliani ha denunciato l’episodio ai Carabinieri della caserma Pastrengo, ipotizzando il reato di incitamento all’odio razziale. Si tratta di una ipotesi loro che dev’essere però suffragata da prove. «Ci ha cacciati – dicono – solo perché venivamo da Israele – ha raccontato Geula – e ha urlato che avevamo ucciso 55mila bambini. Abbiamo registrato solo la parte finale per paura che degenerasse».

La replica della titolare

Nives Monda respinge le accuse e sostiene di essere stata vittima di un “episodio intimidatorio”, aggiungendo di aver ricevuto una valanga di minacce e insulti sui social. «È in corso contro di me una campagna d’odio», ha dichiarato.

L’intervento delle istituzioni

Il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, ha espresso «solidarietà ai due turisti a nome dell’intera amministrazione comunale», ribadendo che episodi del genere sono inaccettabili in una città da sempre accogliente e aperta. Sulla stessa linea il prefetto Michele di Bari e l’assessore al Turismo, Teresa Armato, che ha incontrato personalmente la coppia: «La guerra non deve generare odio tra i popoli. Napoli deve restare città di pace, dialogo e ospitalità». Ovviamente si tratta di attestazioni di solidarietà che prescindono dal fatto che c’è una inchiesta e che potrebbe n0n essere del tutto vero quel che i turisti sostengono.

Le reazioni politiche

Durissima la posizione di Severino Nappi, capogruppo della Lega in Consiglio regionale: «Chiediamo al sindaco Manfredi di intervenire e chiudere quel locale. È un esercizio di razzismo che getta discredito sulla città e offende i valori della democrazia. Non si può confondere la politica di un governo con la vita privata di due turisti».

Un caso che divide

L’episodio ha generato un’ondata di reazioni, dividendo l’opinione pubblica e infiammando il dibattito tra chi denuncia l’antisemitismo e chi parla di libertà di espressione. Intanto, la giustizia farà il suo corso, mentre Napoli è chiamata a ribadire i valori che ne fanno una capitale dell’accoglienza.

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Torre Annunziata, il sindaco Cuccurullo replica alle inchieste: «Chiariremo tutto, ma nessuna pressione o complicità»

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Corrado Cuccurullo, sindaco di Torre Annunziata e docente universitario alla Federico II, ha scelto i social per rispondere alle notizie emerse sull’inchiesta che coinvolge la sua amministrazione, evitando al momento il confronto diretto con i giornalisti. Le indagini delle forze dell’ordine – Guardia di Finanza, Carabinieri e Polizia Municipale – coordinate dalla Procura di Torre Annunziata, hanno sollevato il dubbio sull’opportunità di inviare una nuova commissione d’accesso per valutare possibili legami tra amministrazione e ambienti criminali.

Nel suo lungo post, Cuccurullo respinge ogni accusa e parla di «chiacchiericcio» rilanciato dalla stampa. «È mio impegno affrontare ogni problematica con trasparenza e determinazione», scrive il primo cittadino, ricordando le difficoltà storiche della città e l’impegno a voltare pagina.

Il caso della processione e la scelta sul percorso

Uno dei punti più discussi riguarda il corteo della Madonna della Neve, in particolare la decisione sull’itinerario del 22 ottobre 2024. Secondo gli inquirenti, la processione avrebbe potuto attraversare aree “sconsigliate” per la presenza di soggetti legati alla criminalità organizzata. Cuccurullo chiarisce: «L’idea era quella di un segnale di unità cittadina e rinnovamento. Dopo un confronto con le forze dell’ordine si è scelto di mantenere il percorso tradizionale. Nessun attrito con altri organi dello Stato».

Gli sgomberi e le pressioni denunciate

L’inchiesta parla di presunte pressioni per rallentare gli sgomberi di immobili occupati da persone vicine ai clan. Il sindaco nega: «Nessuna pressione è mai stata esercitata. Anzi, gli sgomberi sono stati effettuati, dopo decenni di stallo, e ne sono stati sollecitati altri».

Il nodo dello staff e il presunto danno erariale

Altro tema cruciale: l’impiego non regolarizzato di alcuni staffisti tra luglio e fine 2024. Cuccurullo assicura che sarà effettuata una verifica con le autorità competenti, sottolineando che il ritardo nella formalizzazione dei ruoli è stato determinato da inefficienze burocratiche. «Chi ricopre un incarico amministrativo ha diritto di scegliere il proprio staff. Ma nessuna violazione intenzionale delle norme», aggiunge.

La parentela scomoda di uno staffista

Nel dossier si segnala la parentela di un componente dello staff con la figlia di un esponente del clan Gallo-Cavalieri. Anche su questo, il sindaco è netto: «La storia personale dello staffista è del tutto estranea alle ipotesi circolate. Nessun legame o influenza riconducibile a contesti criminali».

Cuccurullo conclude con un appello alla cautela e al rispetto: «Ogni aspetto sarà chiarito nel rispetto della città e delle persone coinvolte. Chi amministra deve essere messo nelle condizioni di farlo con rigore e serenità».

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Un farmacista di Napoli sfida i ladri: “Non mi arrendo, vi aspetto”

A Napoli il dottor Giovanni Russo, dopo tre furti nella sua farmacia, risponde ai ladri con un cartello: “Non mi arrendo, ho installato l’impianto di nebbia”.

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Furti ripetuti nella sua farmacia di via Simone Martini. Il dottor Giovanni Russo reagisce con un cartello indirizzato direttamente ai rapinatori.

Non si arrende, non scappa, non si piega. Il dottor Giovanni Russo, titolare di una farmacia in via Simone Martini, nel cuore del Vomero, ha deciso di rispondere ai ladri con la fermezza di chi ama il proprio lavoro e la propria città. Dopo aver subito almeno tre furti documentati – il 14 agosto, il 4 gennaio e il 4 maggio – ha affisso un cartello all’interno dell’attività per mandare un messaggio chiaro, diretto e ironico: “Vi avevo avvisato, le casse sono vuote e stavolta siete dovuti scappare come conigli”.

Il cartello, scritto tutto in stampatello blu acceso su sfondo chiaro, è diventato virale. Non solo perché si rivolge esplicitamente ai ladri, ma perché racconta molto di più: una resistenza civile fatta di amore per il proprio mestiere, rispetto per i cittadini onesti e rifiuto della rassegnazione.

Il farmacista racconta di aver installato un impianto di “nebbia artificiale”, un sistema che confonde e disorienta i malintenzionati durante le effrazioni. Una scelta costosa ma necessaria, dice Russo, che aggiunge con amarezza e orgoglio: “Mantengo sempre le promesse”, e poi ancora: “Non sarete voi con questi atti vili e meschini a farmi cambiare idea o peggio ancora ad indurmi a lasciare la professione che amo”.

Il cartello è anche un atto d’amore verso Napoli, che chiude con uno slogan che è quasi una firma di resistenza e passione: “Forza Napoli, sempre!”

Un messaggio che in molti hanno condiviso sui social, facendo del dottor Giovanni Russo un simbolo di chi a Napoli decide di non cedere al degrado ma di rimanere, combattere e difendere il proprio lavoro e la propria dignità.

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