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Appalti sospetti, i pm dell’Antimafia chiedono l’arresto del presidente Pd della Calabria Mario Oliviero. Il Gip gli dà il divieto di dimora

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Fondi europei assegnati ad un’impresa senza le capacita’ tecniche e finanziarie per portare a compimento l’appalto vinto, “accollando” cosi’ alla Regione, per intero, i costi che invece doveva sostenere il privato, in cambio del rallentamento di altri lavori per fare uno sgarbo ad un avversario politico. E’ l’accusa che la Dda di Catanzaro contesta al presidente della Regione Calabria Mario Oliverio, del Pd, costretto da oggi a vivere nella sua citta’, San Giovanni in Fiore, per un’ordinanza di obbligo di dimora emessa dal gip nell’ambito dell’inchiesta “Lande desolate” condotta dai finanzieri del Nucleo di polizia economico e finanziaria di Cosenza sulle procedure sospette di alcuni appalti pubblici. Accusa alla quale Oliverio – per il quale la Dda aveva chiesto gli arresti domiciliari non concessi dal Gip – replica in maniera veemente.

 

“Di fronte ad accuse infamanti ho deciso di fare lo sciopero della fame” dice rivendicando “il massimo di trasparenza, di concreta lotta alla criminalità, di onestà e rispettosa gestione della cosa pubblica” della sua attività politica.

 

L’attacco del M5S. L’immagine fatta girare sui social dal Movimento 5 stelle

Ed intanto, oltre alla bufera giudiziaria, sulla Regione e sul suo presidente si e’ scatenata la forte polemica politica. “Altri problemini per un governatore del Pd… Amici Calabresi, tornero’ presto da voi, voglio lavorare per dare un futuro migliore alla vostra splendida terra!” scrive il ministro dell’Interno Matteo Salvini in un tweet. E il Movimento 5 Stelle, all’unisono, chiede le dimissioni del Governatore. “Il presidente della Regione Calabria Mario Oliverio è stato sottoposto a misura preventiva con obbligo di dimora. Si dimetta immediatamente per tutelare la dignità dell’istituzione regionale e si difenda nelle sedi opportune” scrive il capo politico del M5S, Luigi Di Maio e rilancia le dure accuse di Nicola Morra, presidente della Commissione Parlamentare Antimafia.

Abuso d’ufficio, indagato governatore Pd della Calabria

 

A difesa del quale intervengono il presidente dell’assemblea nazionale del Pd Matteo Orfini ed il segretario regionale Ernesto Magorno che definiscono speculazioni gli attacchi di Lega e 5 Stelle. A difesa di Oliverio si schiera anche Domenico Lucano, sindaco sospeso di Riace: “Non posso nemmeno immaginare che una persona con una forte sensibilita’ umana, vicina ai drammi e ai bisogni degli ultimi come lui possa minimamente avere a che fare con i poteri criminali che opprimono la nostra terra”. L’inchiesta, intanto, ha portato in carcere l’imprenditore Giorgio Barbieri, ritenuto vicino alla cosca di ‘ndrangheta dei Muto di Cetraro, ed ai domiciliari il dirigente del dipartimento Programmazione nazionale e comunitaria della Regione Luigi Zinno, mentre un’altra dirigente regionale, responsabile del Settore di coordinamento e sorveglianza PorR Fesr, Paola Rizzo e’ stata sospesa. Complessivamente sono 16 gli indagati di un’inchiesta. L’indagine ruota intorno a due appalti: uno per la realizzazione di un’aviosuperficie a Scalea e l’altro per la costruzione di una sciovia a Lorica, in Sila. Lavori eseguiti solo parzialmente dall’impresa di Barbieri, ma che i funzionari regionali incaricati dei controlli davano per fatti. Nel caso dell’aviosuperificie, ai finanzieri e’ stato sufficiente un sorvolo in elicottero per rendersi conto che della pista non c’era traccia, mentre le cabine della sciovia che risultavano gia’ in Calabria, in realta’ erano ancora in Svizzera. E proprio su quest’ultimo appalto si sono concentrate le attenzione di investigatori ed inquirenti. Di fatto, secondo l’accusa, Oliverio avrebbe autorizzato un ulteriore finanziamento di oltre 2 milioni di euro a fronte di opere incompiute e di un sostanziale stallo dei lavori. In cambio, all’imprenditore, Oliverio – sempre secondo l’accusa – avrebbe chiesto di stoppare i lavori di un appalto ricevuto dal Comune di Cosenza per la ristrutturazione di piazza Bilotti, nel centro della citta’. Un ritardo che avrebbe dovuto danneggiare il sindaco Mario Occhiuto, di Forza Italia e che sarebbe stato caldeggiato anche dalla deputata Pd Enza Bruno Bossio e dal marito Nicola Adamo, gia’ parlamentare e consigliere regionale dello stesso partito, che non sono indagati. Su piazza Bilotti si e’ poi creato un intreccio di interferenze incrociate, dal momento che dalle indagini e’ emerso che anche Occhiuto, dopo essere stato costretto alla dimissioni, era intenzionato a bloccare i lavori per poterli riprendere una volta rieletto. Richiesta, quella di Oliverio, che il gip, nella sua ordinanza, definisce rispondente “ad un fine di lotta politica (sebbene di quella piu’ deteriore che si possa immaginare provenire da parlamentari o ex parlamentari della Repubblica)” evidenziando anche come questa “si inserisca in un rapporto di scambio con il privato Barbieri che appare riduttivo definire clientelare, potendo ben sconfinare nel terreno della corruzione”.

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Sull’inchiesta l’ombra di una talpa. Superteste dai pm

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Come tutte le inchieste di un certo peso, anche su quella della Procura di Genova che ha portato agli arresti domiciliari il governatore della Liguria Giovanni Toti, il suo capo di Gabinetto Matteo Cozzani, l’imprenditore Aldo Spinelli, in carcere l’ex presidente del porto Paolo Emilio Signorini, si allunga l’ombra di una talpa. Per far luce su chi, eventualmente, ha avvisato gli indagati di fare attenzione esiste da tempo un fascicolo per rivelazione del segreto di ufficio. Fascicolo, che oggi è ritornato a galla, e che è stato aperto dai pm guidati dal procuratore Nicola Piacente sulla scorta di una intercettazione del settembre 2020 ora agli atti del filone dell’inchiesta sulla la presunta corruzione elettorale – voti per rieleggere lo schieramento Toti in cambio di posti di lavoro o una casa negli stabili di edilizia popolare – aggravata dall’agevolazione mafiosa. Reato, questo, contestato, oltre che a Cozzani, ad Arturo Angelo Testa e al fratello Italo Maurizio, entrambi destinatari della misura dell’obbligo di dimora, e all’ex sindacalista della Cgil Venanzio Maurici con l’obbligo di firma. Sono stati loro tre, stamani, a chiudere il giro degli interrogatori di garanzia.

L’unico a rispondere al gip Paola Faggioni è stato Arturo Testa, il quale, come ha ripetuto all’uscita del Palazzo di Giustizia, si è difeso: “è stata una campagna elettorale come abbiamo fatto sempre e poi sono 300 voti! – ha affermato -. Io non ho convinto nessuno dei riesini e non ho promesso o fatto favori: chi è di centro destra ha votato centro destra e chi è di centro sinistra ha votato centro sinistra”. E ancora: “Toti lo conosco da quando era coordinatore nazionale di Forza Italia. Noi non abbiamo mai chiesto posti di lavoro. Io fascista? – ha replicato a una domanda . Chi ci conosce dice eresie. Io mi definisco antifascista e il saluto romano era una goliardata”. Poiché ritiene di non aver fatto “nulla di male”, tramite il suo legale, ha chiesto la revoca della misura. Non così il fratello, che si è avvalso della facoltà di non rispondere ma ha depositato una lettera del 2007 scritta alla comunità originaria del comune siciliano dall’allora candidato sindaco del Pd Marta Vincenzi. E ciò come per dimostrare: “così fan tutti”. Anche Maurici non ha risposto ma ha reso dichiarazioni spontanee e la revoca dell’obbligo di presentazione alla pg: “non c’entro niente con nulla. – ha spiegato davati a taccuini e telecamere – L’inchiesta è surreale, nei miei confronti ovviamente.

C’è una grande confusione, smentisco di avere aiutato Toti, cosa che per me è infamante”. Nel pomeriggio, invece, è stato sentito per oltre tre ore dai pm e dalla Gdf quello che potrebbe essere un supertestimone: si tratta di Rino Canavese, componente del comitato di gestione del porto e l’unico non “allineato”. E’ stato il solo a votare contro il rinnovo trentennale della concessione agli Spinelli del Terminal Rinfuse: in un primo momento l’operazione fu infatti “osteggiata” sa Andrea La Mattina, che nel board rappresenta la Regione Liguria, da Giorgio Carozzi, che rappresenta il comune di Genova, e appunto da Canavese. Solo lui però alla fine votò contro (gli altri due, per gli inquirenti, cambiarono opinione per le pressioni ricevute), ritenendo che l’operazione, come si evince dalle intercettazioni, facesse parte di un “meccanismo perverso”, punto su cui avrebbe fornito delucidazioni. Al termine dell’interrogatorio, Canavese ha affermato di sentirsi “molto arrabbiato perché la credibilità che avevamo come sistema portuale non l’abbiamo più”.

La sua deposizione potrebbe essere fondamentale per confermare le accuse sulle quali Toti ha intenzione di rispondere e chiarire davanti ai pubblici ministeri. Stamane il suo legale si è recato dagli inquirenti per parlare dell’interrogatorio: probabilmente si terrà la settimana prossima in quanto i temi da affrontare sono molti. In merito al fascicolo, secondario, per rivelazione del segreto di ufficio il dialogo intercettato risale agli albori dell’inchiesta per corruzione e voto di scambio. I fratelli Testa, iscritti a Forza Italia in Lombardia e da ieri sospesi dal partito, quattro anni fa, mentre erano a Genova per un incontro con alcune persone della comunità riesina, vengono avvicinati da un uomo con la felpa e il cappellino. Si trattava, raccontano le carte, di Umberto Lo Grasso (consigliere comunale totiano) Il quale rivolgendosi a Italo Testa lo avvertiva: “Vedi che stanno indagando, non fate nomi e non parlate al telefono …. Stanno indagando”. E l’altro: “si lo so, non ti preoccupare …. L’ho stutato (“spento” in dialetto siciliano, ndr)”. Ora si lavora per individuare chi ha avvertito Lo Grasso. Una ipotesi è una talpa visto che Stefano Anzalone, in quota a Toti e anche lui indagato, è un ex poliziotto con agganci, si ritiene, tra le forze dell’ordine. L’altra ipotesi è che si possa trattare di una sorta di millanteria dello stesso Anzalone che, dopo le elezioni, voleva togliersi di torno i fratelli Testa e non onorare le promesse che avrebbe fatto in cambio dei voti.

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Baby prostitute a Bari, i clienti pagavano fino 1000 euro

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Uomini, per lo più professionisti facoltosi, disposti a pagare mille euro per rapporti sessuali con ragazzine. C’è anche chi ha donato una carta di credito oro “da cui potevamo prelevare più di 20mila euro a settimana ma il pin che ci aveva dato non permetteva il prelievo”, ha raccontato agli inquirenti una delle 16enni coinvolte nel presunto giro di prostituzione scoperto dalla squadra mobile di Bari. “La mia amica che sa tutto di me – ha detto un’altra minorenne coinvolta – un paio di mesi fa mi ha raccontato di rapporti avuti con un uomo di Molfetta che l’ha contattata via Instagram e in seguito le ha dato mille euro”. Denaro che le ragazzine incassavano anche se costrette ad assistere ai rapporti di amiche con adulti.

Sono alcuni dei dettagli contenuti nell’ordinanza, firmata dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bari, Giuseppe Ronzino, che ieri ha portato alla esecuzione di 10 misure cautelari a carico di altrettante persone accusate a vario titolo di aver indotto, favorito, sfruttato, gestito e organizzato la prostituzione delle ragazzine. Gli incontri si organizzavano anche via Telegram, attraverso un gruppo realizzato da uno dei clienti. “Questo gruppo era impostato – ha spiegato una delle ragazzine – in modo tale che ogni giorno si cancellavano tutte le chat”.

Tra gli indagati ci sono anche alcuni dei presunti clienti: si tratta di Fabio Carlino e Roberto Urbino, che sono agli arresti domiciliari, mentre per un altro, Stefano Chiriatti, avvocato di 55 anni di Lecce, è stato disposto l’obbligo di dimora nel comune di residenza, come per il 45enne barese Michele Annoscia che gestiva una struttura ricettiva in cui “tollerava l’esercizio della prostituzione”, si legge negli atti dell’inchiesta. In carcere sono finite quattro donne, Marilena Lopez di 35 anni, Federica Devito di 25 anni, Elisabetta Manzari di 24 anni e la 21enne Antonella Albanese.

Per quest’ultima il gip al termine dell’interrogatorio di garanzia che si è svolto nel pomeriggio di oggi, ha disposto i domiciliari perché ha “ammesso gli addebiti contestati in merito alla introduzione nella attività di prostituzione” di una delle 16enni coinvolte. In cella sono finiti anche il 29enne Ruggero Doronzo, originario di Trani; e Nicola Basile di 25 anni. Il 25enne ha respinto l’accusa di aver organizzato, gestito e sfruttato il giro di prostituzione minorile ammettendo di aver avuto rapporti sessuali, a suo dire, “consenzienti e non a pagamento” con due sedicenni, una delle quali conosciuta da tempo. L’uomo avrebbe anche confermato di aver passato il numero di telefono della sua amica a un uomo di 55 anni con cui lui giocava a poker e di averlo fatto per favorire un incontro che pare abbia fruttato alla 16enne o a chi gestiva il giro di prostituzione tra i 400 e i 500 euro. Nei prossimi giorni saranno ascoltati anche gli altri indagati.

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Geenna, annullata gran parte della confisca dei beni di Raso

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La Corte d’appello di Torino ha annullato gran parte del decreto di confisca dei beni del ristoratore Antonio Raso, coinvolto nel processo Geenna sulla ‘ndrangheta in Valle d’Aosta. Tra i beni che non sono più confiscati anche le quote del ristorante ‘La Rotonda’ e un appartamento. Non è rientrato nelle disponibilità del ristoratore solo un conto corrente, per il quale si discuterà molto probabilmente in Cassazione. La decisione arriva all’esito dell’appello-bis relativo alla misura di prevenzione: la perizia del commercialista nominato dai giudici ha infatti appurato una ‘sproporzione ingiustificata’ tra i beni e i redditi di Raso di circa 140 mila euro. Una cifra molto inferiore a quella che invece aveva accertato la Direzione investigativa antimafia, che nel dicembre 2019 aveva sequestrato beni per un valore stimato di circa un milione.

La confisca, che era stata disposta il 12 aprile 2021 dalla sezione misure di prevenzione del tribunale ordinario di Torino, riguardava – oltre alle quote appartenenti a Raso della società che gestisce il ristorante La Rotonda di Aosta e un appartamento – anche un’autorimessa, due autovetture, tre conti corrente (dei quali uno al 50%) e il saldo attivo di due carte prepagate. “Siamo soddisfatti perché è stata restituita buona parte dei beni. E’ dall’inizio che noi sosteniamo questa tesi”, commenta l’avvocato Ascanio Donadio, che in questo procedimento assiste Raso con il collega e professore Enrico Grosso. Raso, scarcerato il 31 marzo 2023 dopo oltre quattro anni di custodia cautelare, è in attesa della sentenza – prevista dopo l’estate – del processo d’appello-bis di Geenna che si celebra con rito ordinario a Torino.

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