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Vaiolo scimmie: 29 i casi in Italia. Virus in sperma

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Salgono i casi di vaiolo delle scimmie segnalati in Italia. All’8 giugno, secondo l’ultimo documento di aggiornamento dell’Organizzazione mondiale della sanita’ (Oms), quelli confermati sono 29, ma nelle ultime ore sono giunte le segnalazioni di un nuovo contagio nel Lazio e di uno a Taranto. Intanto, mentre l’Oms ha classificato come ‘moderato’ il rischio legato alla diffusione di questo virus, la prova della sua possibile trasmissione per via sessuale arriva da uno studio dell’Istituto nazionale per le malattie infettive Spallanzani, che lo ha individuato nel liquido seminale di sei pazienti su sette monitorati. I numeri piu’ alti nell’area europea Oms si evidenziano in Gran Bretagna con 321 casi, Spagna con 259 e Portogallo con 191. Sempre all’8 giugno, 1285 casi confermati in laboratorio e un caso probabile sono stati segnalati da 28 Paesi nelle quattro regioni classificate dall’Oms in cui il vaiolo delle scimmie non e’ comune o non era stato precedentemente segnalato, e non sono stati segnalati decessi. Cio’ rappresenta un aumento di 505 casi confermati rispetto al precedente aggiornamento del 4 giugno, quando i casi erano 780. Inoltre, dall’inizio dell’anno sono stati segnalati 1.536 casi sospetti da otto paesi della regione africana dell’Oms, di cui 59 confermati, e 72 decessi in questa area. In Italia, un’ultima segnalazione riguarda un uomo ricoverato a Latina. Si tratta di un 40enne di Sabaudia, insegnante di danza, che lavora anche con i bambini ed e’ stato impegnato con loro in un saggio. Nel Lazio e’ il primo caso riscontrato fuori Roma. E l’Asl di Taranto ha identificato il primo caso sul territorio provinciale. Intanto, uno studio dello Spallanzani ha individuato, “primo al mondo, che il virus responsabile del vaiolo delle scimmie puo’ essere presente nel liquido seminale di una persona affetta da questa malattia in una forma capace di replicarsi”, ha reso noto il direttore generale dell’Istituto Francesco Vaia, lanciando anche un messaggio: “Abbiamo sempre detto, anche in tempi difficili, per esempio ai giovani, che ci possiamo e dobbiamo permettere tutto, vivere la vita ma in condizioni di sicurezza”. I ricercatori hanno isolato il virus dal liquido seminale prelevato da un paziente 6 giorni dopo la comparsa della febbre e, in coltura cellulare, si e’ dimostrato capace di infettare e di replicarsi in laboratorio. Finora, la presenza del materiale genetico del virus e’ stata rilevata nel liquido seminale di 6 dei 7 pazienti studiati allo Spallanzani, ma in questo caso il virus e’ stato anche isolato in coltura. L’Istituto sta ora conducendo ulteriori studi sulla durata e persistenza del virus nello sperma e in altri materiali biologici, per comprendere a fondo i meccanismi della trasmissione da uomo a uomo. La scoperta potrebbe in particolare fare luce sul ruolo della trasmissione sessuale. La situazione, osserva l’Oms, si sta comunque evolvendo e si prevede che ci saranno “piu’ casi identificati man mano che la sorveglianza si espande in tutte le regioni e paesi”. Il rischio a livello globale e’ attualmente valutato dall’Organizzazione mondiale della sanita’ come “moderato”, considerando che questa e’ “la prima volta che molti casi e cluster vengono segnalati contemporaneamente in molti paesi in aree geografiche ampiamente disparate”. “L’apparizione improvvisa e inaspettata del vaiolo delle scimmie in diverse regioni senza collegamenti diretti di viaggi con le aree che hanno sperimentato da tempo questo virus – afferma ancora l’Oms – suggerisce che potrebbe esserci stata una trasmissione non rilevata per diverse settimane o piu'”. Pubblicata anche una guida per la gestione clinica dei casi con riferimento all’utilizzo delle terapie, al supporto nutrizionale e psicologico, ai follow up post-infezione. Nei pazienti con vaiolo delle scimmie nei casi piu’ complessi, e’ l’indicazione dell’Oms, “e’ preferibile utilizzare antivirali nell’ambito di studi clinici” e, quando cio’ non e’ possibile, “gli antivirali possono essere utilizzati con protocolli di accesso estesi, come i protocolli per l’uso di emergenza”.

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Covid, l’identikit genetico influenza la risposta al vaccino

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La risposta alla vaccinazione contro Covid-19 è influenzata da caratteristiche genetiche individuali, in particolare da alcuni geni associati al complesso maggiore di istocompatibilità, il sistema attraverso cui l’organismo distingue le componenti proprie da quelle estranee. È quanto è emerso dallo studio coordinato dall’Istituto di tecnologie biomediche del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Segrate (Cnr-Itb) pubblicato sulla rivista Communications Medicine.

“Come per la maggior parte dei farmaci, così anche per i vaccini ogni individuo può rispondere in maniera più o meno efficace e questo è dovuto, almeno in parte, alla costituzione genetica individuale”, osserva Francesca Colombo, ricercatrice del Cnr-Itb che ha guidato lo studio, condotto su 1.351 operatori sanitari vaccinati nei primi mesi del 2021 Dalla ricerca è emerso che le caratteristiche di una porzione del cromosoma 6 erano legati ai livelli di anticorpi anti-Covid. “In questa specifica regione genomica sono presenti dei geni che codificano per delle molecole presenti sulla superficie cellulare, coinvolte nei meccanismi di risposta immunitaria”, aggiunge la prima firmataria dello studio Martina Esposito.

“Questi geni – gli stessi che vengono valutati quando si cerca la compatibilità fra donatori di midollo osseo – sono molto variabili ed esistono differenti combinazioni. Il nostro studio ha evidenziato che alcune combinazioni erano associate a livelli di anticorpi più alti, mentre altre a livelli più bassi”. Per i ricercatori, la scoperta potrebbe consentire di “differenziare e personalizzare la campagna vaccinale, fornendo a ciascun individuo il vaccino più adatto, cioè quello che gli permetterà di produrre più anticorpi possibili”, conclude Massimo Carella, vice-direttore scientifico della Fondazione Irccs Casa Sollievo della Sofferenza, che ha collaborato allo studio.

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Economia

Bilanci di previsione, virtuoso 86% dei Comuni ma non al Sud

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Comuni diventati virtuosi nella presentazione dei bilanci di previsione. Quest’anno sette su dieci già a metà febbraio avevano approvato e trasmesso il documento e alla data del 15 marzo la percentuale di comuni in linea era salita all’84%. Il dato risulta da un’elaborazione dei dati del Mef fatta dal Centro studi enti locali. Il dato, si spiega, è di netta rottura rispetto al passato e testimonia l’efficacia delle misure adottate lo scorso anno dal Ministero dell’Economia per interrompere il circolo vizioso dei posticipi infiniti che aveva caratterizzato gli ultimi decenni.

Ciò che emerge è però, ancora una volta, è “l’esistenza di divari siderali tra varie aree del Paese che vede contrapposti casi come quello siciliano, dove solo 30 comuni su 100 risultano aver approvato e trasmesso il bilancio, e la Valle d’Aosta e l’Emilia Romagna, dove questa percentuale sale al 96%”. Dopo anni di slittamenti nel 2023 un decreto ministeriale, ha riscritto il calendario delle scadenze contabili e anche se è comunque stata necessaria una proroga al 15 marzo quest’anno ben 4.695 comuni, il 59% del totale, hanno iniziato l’anno corrente con un bilancio di previsione già approvato e non si sono avvalsi del tempo aggiuntivo concesso dal Viminale.

Stando a quanto emerso da un’elaborazione di Centro Studi Enti Locali, basata sui dati della Banca dati delle Amministrazioni Pubbliche (Bdap-Mef), sono stati approvati entro il 15 marzo scorso i bilanci dell’84% dei comuni italiani. All’appello mancano quelli di 1.268 comuni. Questi enti hanno un profilo abbastanza preciso: la stragrande maggioranza è di piccole dimensioni. Nove di questi comuni su dieci hanno infatti meno di 10mila abitanti e il 64% è localizzato al sud e nelle isole. Nel nord Italia, nel suo complesso, risulta essere stato già trasmesso al Mef il 92% dei preventivi. In particolare, spiccano per efficienza: Emilia Romagna e Valle d’Aosta (entrambe a quota 96%) e Trentino Alto Adige e Veneto (95%). Ottimi anche i risultati registrati in: Lombardia (93%), Friuli Venezia Giulia (90%) e Piemonte (89%). Chiude il cerchio la Liguria, con l’85% di comuni adempienti.

Scendendo verso sud la percentuale decresce gradualmente, restando comunque buona al centro, dove mediamente sono stati già approvati e trasmessi 89 bilanci su 100. A trainare verso l’alto questo gruppo sono soprattutto Toscana (95%), Marche e Umbria (93%). Più indietro i comuni laziali, fermi a quota 81%. Meno rosea, ma comunque in netto miglioramento rispetto al passato, la situazione del Mezzogiorno dove i comuni più tempestivi sono stati 6 su 10. In particolare, le 3 regioni in assoluto più distanti dalla media nazionale sono – nell’ordine – la Sicilia, la Calabria e la Campania.

Nella banca dati gestita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, alla data del 24 aprile, risultano essere stati acquisiti soltanto 117 bilanci di previsione di comuni siciliani su 391, meno di uno su tre. Al di là dello Stretto ne sono stati trasmessi 236 su 404 (58% del totale), in Campania il 67% dei preventivi sono stati approvati nei tempi. Prima della classe, per quanto riguarda il meridione, è la Basilicata (92% di bilanci approvati), seguita a breve distanza dalla Sardegna (885) e dalla Puglia (86%). Chiudono il cerchio l’Abruzzo e il Molise, rispettivamente con l’80% e il 77% di comuni che hanno già inviato al Ministero il proprio preventivo.

Secondo il Centro Studi Enti Locali questi dati, nel loro insieme, testimoniano un effetto tangibile prodotto dalla nuova programmazione ma preoccupa la distanza abissale che continua a caratterizzare i risultati ottenuti da enti di territori diversi. Il processo di riforma della contabilità e dell’ordinamento degli enti locali, i cui cantieri sono aperti, dovrà necessariamente tenere conto anche delle criticità finanziarie e organizzative, ormai strutturali ed endemiche, di alcuni territori e individuare delle soluzioni efficaci per far sì che queste distanze siano colmate.

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Record per raccolta del plasma, ma autosufficienza scende al 62%

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La raccolta di plasma ha raggiunto livelli record nel 2023 in Italia, ma paradossalmente l’autosufficienza di questa componente del sangue è più lontana, a causa dell’aumento della domanda di immunoglobuline. E’ quanto è emerso dalla seconda edizione di “The Supply of Plasma-derived Medicinal Products in the Future of Europe”, il convegno internazionale dedicato al plasma, patrocinato dal ministero della Salute e organizzato dal Centro Nazionale Sangue (Cns), che ha visto a confronto esperti e policy maker, associazioni di donatori e di pazienti ed istituzioni italiane, europee ed internazionali. Secondo i dati ancora preliminari diffusi nel corso del convegno, per quanto riguarda le immunoglobuline, prodotto driver del mercato dei medicinali plasmaderivati, l’Italia nel 2023 ha raggiunto un livello di autosufficienza pari al 62%, inferiore di due punti percentuali all’anno precedente.

L’aspetto paradossale è rappresentato dai dati della raccolta del 2023 che, con i suoi 880mila chili di plasma, frutto delle generose donazioni di circa 1,5 milioni di donatori, ha raggiunto i livelli più alti di sempre per l’Italia. Ad allontanare il nostro Parse dal traguardo strategico dell’autonomia in materia di plasmaderivati è stato un aumento deciso della domanda di immunoglobuline, dai circa 104 grammi ogni mille abitanti del 2022 ai 108 del 2023 (+3,8%). Il dato preliminare è in parte mitigato dall’aumento del livello di autosufficienza in materia di albumina, altro driver del mercato, che è passato dal 72% nel 2022 al 78% nel 2023, grazie anche a un calo della domanda.

L’Italia, che è autosufficiente per quel che riguarda la raccolta di globuli rossi, deve quindi ricorrere al mercato internazionale per sopperire alla domanda di plasmaderivati ed integrare i medicinali, usati anche in terapia salvavita, prodotti a partire dal plasma raccolto a partire da donazioni volontarie, anonime e non remunerate. “La mancata autosufficienza di medicinali plasmaderivati resta un problema strategico per il sistema sanitario nazionale – ha commentato il direttore del Cns, Vincenzo de Angelis -. I dati, per quanto ancora preliminari, confermano la necessità di aumentare la raccolta attraverso azioni di sensibilizzazione rivolte ai possibili nuovi donatori, ma questo non basta. Bisognerà anche razionalizzare la domanda, specie di un prodotto come le immunoglobuline che sta trovando sempre più applicazioni a livello terapeutico. È un obiettivo su cui stiamo già lavorando con tanti partner italiani ed europei, perché il Covid ha dimostrato che, in situazioni particolari e spesso imprevedibili, non sempre il mercato internazionale può rispondere alla domanda dei nostri pazienti”.

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