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Gabrielli: accuse infamanti, non c’è Grande Fratello

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Un report poco rilevante sulla disinformazione russa, basato su fonti aperte, ha gettato “discredito” e “sospetti infamanti” sull’intelligence italiana, accusata di organizzare dossieraggi e schedature di giornalisti e parlamentari pro-Mosca sulla base di direttive impartite dal Governo. L’Autorita’ delegata per la sicurezza della Repubblica, Franco Gabrielli, non ci sta e – pur colpito dal Covid – convoca una conferenza stampa da remoto per respingere con forza gli addebiti. Nell’occasione declassifica il famigerato ‘Hybrid bulletin’ prodotto dal Dis, che viene consegnato ai giornalisti. Il tutto d’intesa con il premier Mario Draghi, con il quale il sottosegretario si e’ sentito in giornata. “Non esiste un Grande Fratello, una Spectre in Italia: nessuno, tanto meno il Governo, vuole investigare sulle opinioni delle persone”, sostiene il responsabile dei servizi. Il caso parte da un articolo pubblicato domenica scorsa dal Corriere della sera sui ‘Putiniani d’Italia’, che, citando materiale raccolto dall’intelligence, segnala l’attivita’ di una rete di soggetti filo-russi (tra i quali il senatore Vito Petrocelli ed il noto sociologo Andrea Orsini) che avrebbe l’obiettivo di condizionare le scelte del Paese. Ad ‘ispirare’ il pezzo sarebbe stato un bollettino edito dal Dis venerdi’ scorso e consegnato al Copasir lunedi’. Un documento ‘riservato’ – la piu’ bassa delle classifiche di segretezza, che prevede altri tre livelli crescenti, ‘riservatissimo’, ‘segreto’ e ‘segretissimo’ – che ha scatenato le polemiche contro i servizi che schederebbero le persone per le loro opinioni. Ma il bollettino (il quarto prodotto quest’anno), spiega Gabrielli, “e’ una ricognizione di fonti aperte che compendia l’attivita’ di un tavolo coordinato dal Dis al quale partecipano anche vari ministeri ed il Dipartimento per l’editoria. Nulla a che vedere con attivita’ di penetrazione informativa dell’intelligence. Nulla che possa essere identificato con schedatura, dossieraggio. Anzi – sottolinea – l’unico antidoto alla disinformazione ed alla propaganda e’ la libera informazione. Tutto quello che attiene ad un diverso pensare credo sia una ricchezza piu’ che una cosa da combattere”. La declassificazione del bollettino mira quindi proprio a ridimensionare la portata dei suoi contenuti. Sono sei gli italiani citati: il pubblicista Alberto Fazolo, il freelance Giorgio Bianchi, l’eurodeputata Francesca Donato, Rosangela Mattei, nipote di Enrico, la blogger Francesca Totolo, Rolando Dubini, attivo su Facebook. Solo i primi due appaiono anche sull’articolo del Corriere, che evidentemente ha attinto da altre fonti. “Ma – rileva il sottosegretario – non c’e’ nessun tipo di investigazione sui nomi apparsi sul giornale o sul bollettino, ne’ su giornalisti o politici: un conto e’ riportare dichiarazioni, un altro e’ svolgere approfondimenti investigativi”. Il fatto pero’ che parte di un documento riservato sia finita sulla stampa fa infuriare Gabrielli. “E’ – lamenta – una cosa gravissima, ma nulla rimarra’ impunito, chi mi conosce lo sa. Daremo adeguate risposte. Lo dobbiamo al Paese e alla credibilita’ di un comparto dove ci sono persone di cui volentieri faremmo a meno ma tantissime che fanno il loro dovere”. E proprio la credibilita’ dell’intelligence il cruccio del responsabile degli 007, che non vuole essere associato alle stagioni dei servizi deviati e degli archivi di Pio Pompa al Sismi. “Ognuno di noi – rimarca – ha una storia, una credibilita’ ed alcune insinuazioni sono lesive della storia, della credibilita’ di chi cerca di servire questo Paese con onesta’”. Il quarto bollettino del 2022 prodotto dal tavolo interministeriale sulla disinformazione potrebbe anche essere l’ultimo, visto cosa ha provocato. “Se un risultato ipoteticamente positivo ha un prezzo cosi’ alto – osserva Gabrielli – si impone una riflessione sulla sua utilita’, dal momento che non si raccontano cose particolarmente significative sulla sicurezza nazionale”. Il bollettino e’ stato, insomma, vittima della disinformazione. Ma la “minaccia ibrida”, avverte il sottosegretario, continua a esistere e “una cosa sono le opinioni, altro le fake news”. In un contesto, ricorda, “dove e’ in atto una guerra di aggressione in cui l’Italia ha assunto una posizione netta ed e’ stata inserita nell’elenco dei Paesi ostili, esiste la possibilita’ che vengano posti in essere comportamenti che attengono a questo tipo di minaccia. Ma siccome il confine e’ molto labile – conclude – io credo che la possibilita’ di esprimere un’opinione sia un bene sempre da salvaguardare”. Intanto, il senatore Petrocelli ha scritto una lettera alla presidente del Senato, Elisabetta Casellati per denunciare il suo “silenzio assordante” dopo la pubblicazione della lista dei ‘putiniani’ del Corriere, in cui figurava. Casellati, da parte sua, l’ha inviata al presidente del Copasir, Adolfo Urso.

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Liliana Segre: «Israele e Palestina, intrappolati nell’odio. Ma la pace resta l’unica via possibile»

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Parole profonde, lucide, amare. Quelle della senatrice a vita Liliana Segre, che in una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera si è espressa con fermezza sul conflitto in Medio Oriente, sull’antisemitismo, sulla crisi della democrazia in Europa e nel mondo. «Provo uno sconforto che rasenta la disperazione», ha detto commentando il riaccendersi della guerra tra Israele e Hamas. E ha lanciato un appello accorato: «Due popoli, due Stati resta l’unica via. Nonostante tutto».

«Due popoli in trappola»

Segre descrive il popolo israeliano e quello palestinese come due nazioni «intrappolate, incapaci di liberarsi da una condanna a odiarsi». Una spirale di violenza aggravata, secondo la senatrice, da una classe dirigente dominata dalle «componenti peggiori». Parole durissime su Hamas, definito un «movimento teocratico e sanguinario», e sul governo Netanyahu, che guida Israele con «una destra estremista, iper-nazionalista, con componenti fascistoidi e razziste».

«Il trauma del 7 ottobre – aggiunge – ha certamente imposto una reazione, ma la guerra a Gaza ha assunto connotati inaccettabili. Israele ha oltrepassato i limiti del diritto di difesa, provocando stragi e distruzioni immani».

Nessuna giustificazione per Hamas

Segre è chiara anche su un altro punto: Hamas non è il popolo palestinese. «Non si batte per la libertà del popolo palestinese, ma per distruggere Israele. E lo stesso vale per il regime iraniano, che li usa solo per combattere l’“entità sionista”». Anche Israele ha commesso gravi errori, ma la senatrice ricorda che il ritiro da Gaza nel 2005 apriva una strada verso la pace che è stata vanificata dalla presa del potere violenta di Hamas nel 2006.

«Il genocidio? No, ma crimini di guerra sì»

Nel corso dell’intervista, Segre torna su quanto già affermato in passato: a Gaza si sono visti crimini di guerra e contro l’umanità, da entrambe le parti. Tuttavia, non si può parlare di genocidio: «È un concetto preciso, giuridicamente e storicamente. Le atrocità commesse non bastano a definirlo tale».

La pace come unica via

Nonostante tutto, Segre continua a credere nella soluzione dei due Stati: «Ogni fiammata di violenza rende tutto più difficile, ma non ci sono alternative. Solo la volontà politica può aprire spiragli». E invita a guardare la storia, dove svolte improvvise e impensabili hanno spesso cambiato il corso degli eventi.

«Antisemitismo mai morto, ora è sdoganato»

Un passaggio forte è dedicato al ritorno dell’antisemitismo: «Non era morto, ma nascosto. Ora non ci si vergogna più. Si prende a pretesto la condotta del governo israeliano per giustificare l’odio contro tutto il popolo ebraico, anche contro la diaspora».

L’allarme globale: autoritarismi e il pericolo Trump

Liliana Segre allarga lo sguardo al mondo: «La rielezione di Trump destabilizzerebbe l’ordine globale». Poi punta il dito contro l’ascesa dell’estrema destra in Europa, le interferenze russe, l’influenza di magnati americani nei processi democratici. E una condanna durissima va alla scena dell’incontro alla Casa Bianca tra Trump e Zelensky: «Un’umiliazione pubblica che mi ha disgustata. Gli Stati Uniti erano i liberatori dell’Europa dal nazifascismo. Vederli rinnegare quel ruolo è un dolore profondo».

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Politica

Comunali a Bolzano: Corrarati avanti con il 36,5%, Andriollo al 27,6% dopo 75 sezioni scrutinate

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Con lo scrutinio ormai quasi completato, Claudio Corrarati, candidato sindaco del centrodestra, si conferma in netto vantaggio alle elezioni comunali di Bolzano. Dopo lo spoglio di 75 sezioni su 80, l’ex presidente della Cna ha raggiunto il 36,5%, mentre il suo principale sfidante, l’assessore uscente Juri Andriollo del centrosinistra, è fermo al 27,6%.

Nel capoluogo altoatesino, dove il voto è storicamente influenzato dalla composizione linguistica e territoriale eterogenea, il dato resta comunque soggetto a variazioni nelle ultime sezioni. Tuttavia, il vantaggio consolidato di Corrarati fa già pensare con concretezza a un ballottaggio tra due settimane, per il quale sarà decisivo il posizionamento della Svp. La Südtiroler Volkspartei, che governa già con il centrodestra in Provincia, potrebbe sostenere proprio Corrarati, rendendo per lui più agevole la sfida finale.

Il candidato della Svp Stephan Konder è attualmente in terza posizione con il 18,46%, seguito dall’assessore regionale Angelo Gennaccaro (La Civica) con il 12,30%.

A Merano, dopo lo scrutinio parziale (3 sezioni su 28), è avanti il sindaco uscente Dario Dal Medico, sostenuto da liste civiche di centrodestra, con il 38,9%. Lo tallona la sua attuale vice della Svp, Katharina Zeller, al 23,6%, possibile sfidante al ballottaggio.

Situazione ancora in evoluzione a Trento, dove lo scrutinio procede a rilento. Nella notte, nessuna delle 98 sezioni risultava ancora scrutinata. Il sindaco uscente del centrosinistra Franco Ianeselli è considerato favorito, ma una riconferma al primo turno appare difficile.

Il vero dato politico di questa tornata elettorale è però il crollo dell’affluenza. A Bolzano ha votato solo il 52,16% degli aventi diritto, contro il 60,65% del 2020, quando si votò su due giorni. A Trento, l’affluenza è scesa dal 60,98% al 49,93%. A livello provinciale ha votato in Alto Adige il 60% (contro il 65,4% del 2019) e in Trentino il 54,53% (contro il 64,08%).

 

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Lega va avanti su Autonomia, legge delega al prossimo Cdm

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Con passo da maratoneta, la Lega non molla e va avanti sull’attuazione dell’Autonomia differenziata, sua battaglia storica. Il padrino della riforma, il ministro Roberto Calderoli, è pronto con la legge delega per la determinazione dei Lep, i Livelli essenziali di prestazione. La presenterà al Consiglio dei ministri la prossima settimana, al massimo quella successiva. Il responsabile degli Affari regionali e dell’Autonomia l’ha detto nel suo mini tour tra Trento e Bolzano, dove oggi si vota per le Comunali. In effetti, dopo i ritocchi fatti alla legge originaria e imposti dalla Corte Costituzionale che, nella sentenza di dicembre, ha dichiarato l’illegittimità di alcune parti, la delega è pronta per il passaggio a Palazzo Chigi e subito dopo in Parlamento.

Nel testo vengono individuati – distinti per funzioni e non più per materie, come indicato dalla Consulta – gli standard minimi di servizio pubblico che sono indispensabili a garantire, da Nord a Sud, i diritti civili e sociali che la Costituzione tutela. Si va dal lavoro al diritto all’istruzione, dall’ urbanistica alle reti di trasporto fino ad ambiente ed energia. Per Calderoli, l’obiettivo è chiudere la partita entro fine anno. Parallelamente procede l’altro fronte: quello delle negoziazioni sulle materie non Lep avviate con 4 regioni (Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria) che hanno chiesto forme differenziate di autonomia. Superate le riserve di alcuni ministeri (non guidati dalla Lega) su alcune funzioni come la Protezione civile, si prosegue e chissà che anche gli alleati più dubbiosi possano cedere. Specialmente Forza Italia, spinta dagli amministratori del Sud che temono disparità rispetto al più ricco Nord.

Apparentemente, si avvera l’auspicio di Matteo Salvini che, anche al congresso della Lega di aprile, ha associato l’Autonomia alla riforma del Premierato: “Vanno insieme, mano nella mano”. Un binomio che, secondo le opposizioni, tradisce uno scambio tra FdI e Lega. Di certo, il Presidenzialismo sta a cuore alla premier Giorgia Meloni che l’ha ribadito di recente all’AdnKronos (“Ci riusciremo”). E anche oggi i vertici del suo partito insistono sul fatto che la priorità sia la “madre di tutte le riforme” (nel copyright di Meloni), più della legge elettorale. A tirare in ballo, implicitamente, il sistema di voto sono state le parole della premier tentata da un secondo mandato.

Tuttavia, è innegabile che una riforma che potenzi i poteri del capo del governo debba definire anche il resto dell’architettura istituzionale del Paese, a partire proprio dalla legge elettorale. Il centrodestra ci sta ragionando, anche considerando che il premierato da 10 mesi è di fatto in standby alla Camera (al secondo dei 4 passaggi richiesti) e che è difficilissimo che l’iter si chiuda entro fine legislatura e si voti il referendum confermativo.

La bozza a cui si sta lavorando prevede di cancellare i collegi uninominali (anche nell’ottica di evitare il rischio di alleanze che tenterebbero il centrosinistra specie al Sud), puntare a una legge proporzionale con un premio di maggioranza del 15% per la coalizione che superi la soglia del 40%, indicare sulla scheda il candidato Premier della coalizione e fissare una soglia di sbarramento per i partiti più piccoli attorno al 3% e non oltre il 5%. Ma più fonti del centrodestra assicurano che non ci sono novità all’orizzonte, né confronti a breve.

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