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Corona Virus

Anche Papa Francesco ha scaricato il suo green pass

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Papa Francesco ha scaricato il suo green pass. O meglio, considerata la sua poca dimestichezza con la tecnologia, come lui stesso ha piu’ volte fatto presente, qualcuno dei suoi assistenti ha dotato il Pontefice della sua certificazione verde. Dopo il riconoscimento di qualche giorno fa da parte della Ue, anche il Vaticano, infatti, in questi giorni sta dotando tutti coloro che si sono vaccinati nel piccolo Stato del ‘green pass’. E il Papa per primo, secondo quanto si apprende, sarebbe entrato in possesso del suo certificato. Se il pass non e’ richiesto per messe e processioni, si lavora invece in queste ore per gli eventi non religiosi al chiuso, all’interno della Santa Sede. Il primo potrebbe essere l’udienza generale di mercoledi’ 11 agosto. Si sta verificando se (e come) chiedere ai fedeli il green pass, adeguandosi, come d’altronde sempre fatto in questi mesi segnati dalla pandemia, alla normativa italiana. La Gendarmeria sarebbe gia’ attrezzata per fare questo tipo di controllo. I Musei Vaticani si sono adeguati subito, a partire dal 6 agosto. Come anche il certificato di vaccinazione sara’ obbligatorio per tutti coloro che prenderanno parte agli eventi del prossimo viaggio internazionale di Papa Francesco (12-15 settembre, Budapest e Slovacchia); l’avviso e’ arrivato in questi giorni dalla chiesa locale che sta organizzando la visita. Per le parrocchie italiane al momento le regole non sono cambiate molto: resta l’obbligo di indossare la mascherina durante le funzioni e di mantenere il distanziamento. Come anche resta il consiglio di igienizzarsi le mani e di evitare scambi della pace a messa, come gia’ e’ da oltre un anno. Il green pass e’ richiesto per le attivita’ di ristorazione legate agli enti ecclesiali, come anche per i musei diocesani e gli eventi che si svolgono al chiuso. Il vero banco di prova sara’ pero’ a partire da settembre considerato che le attivita’ parrocchiali in molte diocesi sono sospese per le ferie e i centri estivi organizzati per bambini e ragazzi sono comunque esenti dalla certificazione. Diverso e’ il discorso per i pellegrinaggi. Sono arrivati a Lourdes i primi gruppi italiani dopo il lungo stop dovuto alla pandemia. Viaggi della fede sono in corso anche a Medjugorje, nei santuari italiani e con cautela ci sono stati anche i primi arrivi in Terra Santa. Il ‘green pass’ aiuta l’organizzazione di questi viaggi della fede anche se non e’ richiesto per partecipare ai momenti piu’ spirituali, come le messe e le processioni. Considerate le diverse disposizioni in vigore nei Paesi, di fatto attualmente stanno partendo soprattutto le persone gia’ vaccinate. Chi e’ arrivato in questi giorni a Lourdes, per esempio, puo’ entrare liberamente nel complesso del santuario, partecipare alle messe e alle processioni. Ma per tutte le altre attivita’, dalla ristorazione negli alloggi del santuario agli eventi non strettamente religiosi al chiuso, deve comunque esibire il certificato. E al santuario mariano sui Pirenei francesi hanno chiesto agli organizzatori dei gruppi di tenere sotto controllo la situazione e di dotare di un “braccialetto” di riconoscimento tutti coloro che sono dotati di green pass. In Terra Santa si puo’ partire a gruppi, e’ richiesto obbligatoriamente aver fatto il vaccino ma comunque la richiesta e’ anche di eseguire test Pcr prima dell’arrivo, all’arrivo e prima della partenza, nonche’ un test sierologico. Un percorso ad ostacoli che al momento sta frenando l’organizzazione del viaggio di fede piu’ sentito dai cristiani. L’Opera Romana Pellegrinaggi accompagnera’ un gruppo di circa 200 fedeli a Fatima, in Portogallo, dal 28 al 31 agosto. “Per partecipare e’ necessario essere in possesso del Green pass – fanno sapere dalla diocesi di Roma – e aver compilato il modulo di localizzazione digitale dei passeggeri dell’Unione europea: il Passenger locator form (Plf)”.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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