Niente maggioranza trasversale in Parlamento sulle alternative al pluri-bocciato accordo sulla Brexit di Theresa May e spettro di un divorzio no deal sempre più vicino per il Regno Unito. Il Parlamento di Westminster ha fallito stasera per la seconda volta in pochi giorni la sfida al governo alla ricerca del compromesso perduto, sullo sfondo di una partita a tempo ormai quasi scaduto, avvolta dalle nebbie d’un caos politico e istituzionale che non si dirada e segnata dall’impazienza sempre più irritata dell’Ue e del business. L’ultimo appello del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, non ammetteva equivoci.
Jeremy Corbyn. Il leader laburista parla anche di nuovo referendum su uscita dall’Ue
“Una sfinge è un libro aperto a paragone del Parlamento britannico”, era sbottato l’ex primo ministro lussemburghese da Saarbruecken, notando come mancassero appena una decina di giorni alla scadenza anche del rinvio concesso dai 27 a Londra fino al 12 aprile. E invocando uno straccio di si’ a una proposta purchessia. Un si’ che i deputati di Westminster non sono stati tuttavia in grado di esprimere sulle loro 4 opzioni superstiti di piano B, dopo il nulla di fatto della settimana passata, in un intrico di ostruzionismi e veti incrociati. Le mozioni in pole position favorevoli a una Brexit piu’ soft – sostenute dall’intera opposizione laburista e da una fetta significativa di Tory moderati – sono rimaste sotto le aspettative: la prima, che mirava a lasciare Londra nell’unione doganale a costo di rinunciare a futuribili accordi di libero scambio autonomi con Paesi terzi come quello che l’amministrazione Usa di Donald Trump continua almeno a parole a offrire, si è fermata a soli 3 voti della maggioranza (273 contro 276), ma comunque sotto. La seconda, che raccomandava l’uscita dall’Ue, ma non dal mercato unico, ha fatto peggio (meno 21) tanto da indurre il suo promotore, il deputato conservatore dissidente Nick Boles, ad annunciare l’addio al partito della May. Niente da fare nemmeno per le altre due proposte, che puntavano a un vero e proprio rovesciamento del risultato referendario del 2016: la prima (appoggiata pure dal leader del Labour, Jeremy Corbyn, ma non da alcune decine di deputati laburisti eletti in collegi pro Brexit), in favore di un secondo referendum, ha avuto un buon numero di si’ (280), ma anche di no (292), con uno scarto negativo di 12 seggi; mentre l’ultima, che reclamava al Parlamento addirittura la potesta’ di revocare con un singolo voto di maggioranza l’artico 50 e di congelare la Brexit sine die come alternativa al no deal, e’ stata battuta nettamente con 101 voti di gap.
La prima donna inglese. Theresa May tiene informata la Regina della questione Brexit
Ora e’ proprio il no deal – epilogo di default nel caso in cui una qualunque intesa non ricevesse l’approvazione formale, come ha ricordato all’aula dopo il flop il ministro per la Brexit, Stephen Barclay – il traguardo piu’ probabile. Un traguardo auspicato a gran voce dai brexiteer, divenuti di fatto maggioranza nel gruppo Tory come testimoniato dalla lettera firmata da oltre 170 deputati in cui si chiede a Theresa May che la Gran Bretagna esca a questo punto dall’Ue il 12 aprile “con o senza accordo”. E che la premier non sembra escludere piu’ del tutto, ma spera ancora di aggirare aggrappandosi alla speranza di strappare mercoledi’ prossimo un quarto voto sul proprio accordo, come rilanciato da Barclay stasera. Magari in ballottaggio con il piano B sull’unione doganale, stando alla controproposta di Corbyn. E in ogni caso con in mano la spada della minaccia delle temute elezioni anticipate. Il governo, del resto, appare troppo diviso anche per ordire una congiura immediata contro la premier. Come dimostra la guerra aperta fra alcuni ministri e notabili, dal titolare della Giustizia, David Gauke, al chief whip Julian Smith, orientati oramai pubblicamente ad accettare una Brexit morbida se non altro per ragioni di “aritmetica parlamentare”; e altri colleghi (a partire dal vecchio euroscettico Liam Fox) pronti a gridare al “tradimento” e a ipotizzare dimissioni di massa. Mentre alla City e nel mondo economico l’allarme si tinge di panico, ma anche di collera. Con la compagnia aerea EasyJet che crolla in borsa per le incertezze dei prossimi mesi; le scorte degli importatori che si moltiplicano; e Juergen Maier, ceo di Siemens Uk, che sollecita un soprassalto di realismo a un Paese – sferza – divenuto “lo zimbello” d’Europa.
Donald Trump è pronto a dare battaglia al sistema giudiziario americano che lo ha incriminato, e interpretando il ruolo della vittima di una persecuzione politica, prova ad accreditarsi, almeno presso la base dei repubblicani, come il candidato più forte per le presidenziali del 2024. Dopo aver ricoperto di insulti, accusandolo di corruzione e manipolazione, il procuratore di Manhattan Alvin Bragg, nell’ultimo post sul suo social media Truth l’ex presidente ha iniziato a prendere di mira il giudice che con tutta probabilità presiederà l’eventuale processo a suo carico. “Mi odia”, ha tuonato il tycoon parlando di Juan Manuel Merchan. Il giudice ha già presieduto il processo contro due società della Trump Organization e il loro ex chief financial officer, Allen Weisselberg, uno dei consiglieri più fidati di Trump. E sta anche supervisionando il procedimento per frode e riciclaggio contro Steve Bannon, l’ex capo stratega del tycoon.
“E’ un tribunale fantoccio”, ha attaccato l’ex presidente ribadendo che si tratta di “interferenza nel voto”. La sua campagna ha annunciato che la raccolta fondi lanciata dal tycoon subito dopo la notizia della sua incriminazione ha raccolto oltre 4 milioni di dollari in un solo giorno. Dati che non possono essere verificati ma la diffusione di questo tipo di propaganda rivela come Trump abbia scelto la linea del contrattacco.
“Il presidente ha raccolto oltre 4 milioni di dollari nelle 24 ore successive alla persecuzione politica senza precedenti del procuratore di Manhattan Alvin Bragg”, si legge in una mail della campagna nella quale si sottolinea che il tycoon “è il principale candidato presidenziale repubblicano” e che “oltre il 25% dei fondi proviene da nuovi donatori”. Un elemento confermato dagli ultimi sondaggi che effettivamente indicano come la base repubblicana sia dalla sua parte e lo consideri una vittima dell’establishment corrotto. Intanto le forze dell’ordine di New York si preparano alla giornata epica di martedì 4 aprile, quando per la prima volta nella storia americana un ex presidente varcherà la soglia di un tribunale. Nelle ultime ore si sono susseguiti una serie di briefing tra la polizia della metropoli, Nypd, il Secret Service, gli US Marshals e gli agenti addetti ai tribunali per fare il punto sulla sicurezza e ridurre al minimo i rischi.
In un’intervista al britannico Times, l’attrice hard Stormy Daniels ha espresso il timore che l’incriminazione di Trump provochi nuovo caos, come accadde il 6 gennaio del 2021 con l’attacco a Capitol Hill. “E’ un fatto monumentale, epico. Sono fiera di me, è stata una vendetta. La cosa più divertente è che ho ricevuto la notizia mentre mi trovavo su un cavallo chiamato ‘Redemption’, redenzione”, ha raccontato la pornostar. “L’altro lato della medaglia è che questo evento dividerà ulteriormente gli americani. Se l’è già cavata una volta dopo aver aizzato alla rivolta e creato il caos. Quale che sia l’esito dell’incriminazione ci saranno violenza, feriti e morte”. Quanto ai timori di ritorsioni da parte dell’ex presidente, la 44enne ha ironizzato: “L’ho visto nudo, non c’è niente di peggio”.
Quasi 2 miliardi di dollari di nuove armi, tra le quali per la prima volta missili Patriot e ‘bombe intelligenti’, ma ancora nessun Atacms, i razzi tattici a lungo raggio in grado di colpire obiettivi fino a 300 chilometri, quindi potenzialmente capaci di arrivare in territorio russo. Nella sua prima visita all’estero dall’inizio della guerra Volodymyr Zelensky non ottiene il bottino più agognato: gli Army Tactical Missile System, i razzi più a lungo raggio in dotazione alle forze armate americane, utilizzati dagli Stati Uniti anche nel 1991 durante l’operazione ‘Desert Storm’ per colpire i lanciamissili balistici a medio raggio e i siti missilistici terra-aria dell’Iraq. Il leader ucraino non può che essere grato a Joe Biden per l’aiuto senza precedenti alle sue forze armate, 18 miliardi di dollari di armi dall’inizio dell’invasione, e tuttavia è arrivato alla Casa Bianca anche per ribadire la necessità di sistemi Atacms e droni ‘Gray Eagle’ e ‘Reape’ che consentirebbero ai suoi uomini di rispondere alla controffensiva di Mosca e superare l’inverno. L’amministrazione americana su questo punto resta irremovibile.
I super razzi di lunga gittata, in grado di colpire nel territorio della Russia, rischiano di provocare un’escalation nel conflitto e l’uso da parte di Vladimir Putin di armi ancora piu’ letali, inclusa quella nucleare, nonchè un più diretto coinvolgimento degli Stati Uniti e lo spettro di “una terza Guerra Mondiale” che Biden evoca da mesi. Washington ha assicurato che continuerà a sostenere la resistenza di Kiev e in questo nuovo pacchetto da 1,85 miliardi di dollari ha incluso per la prima volta i missili Patriot, una decisione che ha stupito persino i vertici militari ucraini.
A lungo chiesti da Kiev, i sistemi, considerati il “fiore all’occhiello della difesa Usa”, sono in grado di intercettare missili balistici e saranno un’arma in più nelle mani di Kiev contro i continui attacchi della Russia sulle infrastrutture strategiche del Paese che stanno rendendo l’inverno ancora più insopportabile per milioni di ucraini. L’esercito americano si farà anche carico dell’addestramento, in un paese terzo, delle truppe di Kiev all’utilizzo dei Patriot. Dagli Stati Uniti partiranno anche 850 milioni di dollari di artiglieria e i ‘Joint Direct Attack Munition kits’. Questi kit rappresentano un passaggio in più rispetto agli Himars o agli Howitzers forniti nei mesi scorsi da tutto l’Occidente perchè sono in grado di convertire munizioni aeree non guidate in ‘bombe intelligenti’ per i jet ucraini con un tasso di precisione molto più alto. La convinzione di Washington è che i Patriot e le ‘bombe di precisione’, da soli, potranno davvero cambiare il corso della guerra.
L’ambasciatore russo all’Onu Vassily Nebenzia in una intervista alla Tass ha definito l’idea di privare Mosca del diritto di presiedere il Consiglio di Sicurezza (come chiesto da Kiev) “semplicemente assurda”. Il diplomatico ha sottolineato tra l’altro che un’esclusione sarebbe impossibile senza modifiche alla Carta dell’Onu.
“Coloro che usano questa demagogia a buon mercato per privare la Russia del suo legittimo status giuridico sono ben consapevoli del lato legale della questione – ha aggiunto – La Russia è la continuatrice dell’URSS, soggetto di diritto internazionale che ha ereditato non solo i diritti e gli obblighi del suo predecessore, ma anche il suo stesso carattere giuridico. Lo status della Federazione Russa è ufficialmente riconosciuto dalla comunità internazionale. L’esclusione dal Consiglio di Sicurezza è impossibile senza modifiche alla Carta delle Nazioni Unite, così come è impossibile privare la Russia del diritto di presiedere il Consiglio”.