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Cultura

Vincenzo Mollica ricorda Andrea Camilleri: «Era un moderno Omero»

L’ex volto del Tg1 racconta al Corriere della Sera la sua amicizia con Andrea Camilleri: dall’incontro sul terrazzino romano ai dialoghi su Montalbano, fino alla cecità condivisa e all’ultimo abbraccio.

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Un incontro che segna una vita. Vincenzo Mollica (foto Imagoeconomica) ricorda il suo primo colloquio con Andrea Camilleri, a metà anni Novanta, quando il direttore del Tg1 Marcello Sorgi lo inviò a intervistare l’autore in occasione dell’uscita del primo romanzo della saga di Montalbano, La forma dell’acqua.

L’incontro sul terrazzino romano

Nella sua casa di Roma, Camilleri lo accolse in un terrazzino trasformato in un angolo di Sicilia, un salottino dove sembrava di conversare a due passi dal mare. «Mi fece un’impressione incredibile, come se avessi conosciuto Walt Disney in persona», racconta Mollica. «Andrea prima di essere un grande narratore era un inventore di storie. Ripeteva sempre che la vita è teatro».

Montalbano come un moderno Ulisse

Da quella concezione di vita come rappresentazione, nacque un dialogo suggestivo. Mollica chiese a Camilleri se i libri di Montalbano potessero essere i capitoli di un’Odissea moderna. «Può essere», rispose l’autore. «E Montalbano può essere un moderno Ulisse?». «Può essere», ribadì. «Allora Camilleri è il moderno Omero?». «Non è escluso», concluse sorridendo.

La cecità condivisa

Il legame tra i due divenne ancora più profondo quando entrambi iniziarono a convivere con gravi problemi alla vista. «Affrontammo questa discesa agli inferi oculistica insieme, anche se lui diventò cieco prima di me», ricorda Mollica. Ogni incontro era scandito dalla domanda di Camilleri: «Vincenzino, com’è oggi? Penombra o luce piena?».
Quando la vista scomparve quasi del tutto, Camilleri lasciò a Mollica una lezione che lo accompagna ancora: «Sentirai i sapori e i profumi come non li hai mai sentiti. E soprattutto i sogni e i ricordi avranno un colore che con la vista non lo puoi vedere».

L’ultimo abbraccio

L’ultima volta che si incontrarono fu nella biblioteca dove Camilleri preparava Conversazioni su Tiresia. Entrambi ormai ciechi, si abbracciarono guidati dall’assistente dello scrittore. «Se non risultasse troppo sarcastico, potrei dire che fu l’ultima volta che lo vidi», commenta Mollica con la sua ironia.

Una vita di passioni

Mollica, che insieme a Bruno Luverà firma il libro Amo le triglie di scoglio. Andrea Camilleri si racconta (Rai Libri), ripercorre nel volume non solo l’amicizia con lo scrittore siciliano, ma anche il suo percorso personale: dall’infanzia in Canada alla giovinezza in Calabria, fino agli anni di formazione a Milano, dove conobbe la moglie Rosemarie e scoprì le sue passioni per musica, cinema e fumetti.

Il giornalismo tra passione e rispetto

Entrato in Rai nel 1980 insieme a Enrico Mentana, Mollica ricorda il Tg1 come «un luna park», un luogo dove lavorare accanto a figure leggendarie come Vespa, Stagno e Valenti. Non sempre i rapporti con i direttori furono facili: «Quando non ho avuto indietro lo stesso rispetto che ho dimostrato, col massimo dell’educazione ho chiuso la porta e li ho mandati a quel paese».
Alle critiche di non fare mai stroncature risponde così: «Io so lavorare in un solo modo, con passione, curiosità e fatica. Se non c’è passione, non racconto».

Le interviste del cuore

Tra i tanti incontri memorabili, Mollica cita Fellini, Mastroianni, Benigni, Celentano, Biagi, Fiorello e Paolo Conte. «Rosario Fiorello è un genio assoluto, un talento che non hanno neppure negli Stati Uniti. Non a caso Camilleri gli voleva bene».

L’epitaffio di Paperica

Oggi, con la sua proverbiale ironia, Mollica immagina persino il proprio epitaffio. «Andrea Pazienza e Giorgio Cavazzano inventarono per Topolino Vincenzo Paperica: potrei scrivere “Qui giace Vincenzo Paperica, che tra gli umani fu Mollica”. Oppure: “Omero non fui per poesia. Ma per mancanza di diottria”. Ma forse basterebbe anche solo: “Mollica, fu uomo di fatica”».

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Ambiente

Rapa Nui, i moai minacciati dall’innalzamento del mare entro il 2080

Uno studio dell’Università delle Hawaii avverte: le mareggiate raggiungeranno Ahu Tongariki e altri siti archeologici di Rapa Nui. Rischio fino a 5 metri di innalzamento entro il 2150.

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I celebri moai di Rapa Nui rischiano di essere danneggiati dall’innalzamento del livello degli oceani. Una ricerca dell’Università delle Hawaii, pubblicata sul Journal of Cultural Heritage, lancia l’allarme: entro il 2080 le mareggiate stagionali potrebbero raggiungere l’area di Ahu Tongariki, uno dei luoghi più iconici dell’isola.

Lo studio scientifico

Gli studiosi hanno elaborato modelli computazionali che mostrano come i cambiamenti climatici stiano mettendo a rischio non solo i 15 moai di Ahu Tongariki, ma anche altri 51 siti archeologici del Parco Nazionale di Rapa Nui.

Le proiezioni sul livello del mare

Secondo le stime del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), entro la fine del secolo il livello del mare nell’area potrebbe aumentare tra 0,32 e 0,70 metri nello scenario intermedio e tra 0,48 e 0,94 metri in quello ad alte emissioni. Le incertezze legate ai processi delle calotte glaciali fanno temere scenari più gravi: fino a 2 metri nel 2100 e addirittura 5 metri entro il 2150.

Un patrimonio in pericolo

I moai, simbolo universale dell’isola e patrimonio dell’umanità, sono esposti a un rischio crescente che unisce il cambiamento climatico alla fragilità del patrimonio culturale. Senza interventi di protezione e mitigazione, l’innalzamento del mare potrebbe compromettere in modo irreversibile questi testimoni unici della civiltà polinesiana.

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Cultura

Riemerge la Pompei post-eruzione: tra rovine, focolari improvvisati e vite precarie

Gli scavi nell’Insula Meridionalis rivelano la Pompei post-eruzione: sopravvissuti e senzatetto vissero tra le rovine fino al V secolo.

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Pompei non fu abbandonata per sempre dopo l’eruzione del 79 d.C. Le ultime indagini archeologiche nell’Insula Meridionalis mostrano che sopravvissuti e senzatetto, privi di alternative, tornarono tra le rovine della città distrutta. Alcuni cercavano rifugio, altri oggetti di valore sepolti sotto la cenere, altri ancora solo un posto dove sopravvivere.

Le evidenze, ora documentate sull’E-journal degli scavi di Pompei, confermano che, dopo la catastrofe, la vita riaffiorò tra i piani superiori degli edifici ancora visibili, mentre quelli che un tempo erano ambienti al piano terra venivano utilizzati come scantinati o caverne, con focolari, forni e mulini ricavati tra i resti.

Una città-fantasma abitata fino al V secolo

Si stima che nel 79 d.C. Pompei ospitasse circa 20.000 abitanti. Le vittime ufficialmente ritrovate sono 1.300, ma molte altre potrebbero aver perso la vita cercando la fuga fuori dal centro urbano. Di certo, non tutti morirono. Alcuni tornarono. Altri arrivarono dopo. Gente senza dimora, poveri, sradicati.

L’imperatore Tito cercò persino di rilanciare Pompei ed Ercolano, affidando a due ex consoli il compito di gestire i beni dei defunti senza eredi per favorire la ripresa. Ma la rifondazione fallì. La città non tornò mai ai fasti di prima. Le testimonianze raccontano piuttosto un luogo privo di servizi, senza infrastrutture, abitato in modo disordinato e precario fino al V secolo d.C., forse abbandonato in via definitiva dopo la cosiddetta eruzione di Pollena.

Gli archeologi riscoprono la Pompei dimenticata

Secondo il direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, questa “Pompei post-79” è stata a lungo ignorata. Gli archeologi del passato, attratti dai tesori artistici intatti del momento dell’eruzione, avrebbero rimosso senza documentare le tracce flebili di vita successive, cancellando decenni – se non secoli – di sopravvivenza tra le macerie.

«È come se facessimo gli psicologi della memoria sepolta nella terra – spiega Zuchtriegel –. Tirando fuori le parti rimosse dalla storia, riscopriamo un accampamento tra le rovine, una sorta di favela dell’antichità, fatta di persone dimenticate e vite di resistenza». Una storia che spinge alla riflessione, anche oggi, su ciò che resta ai margini, oscurato dalla narrazione dominante.

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Cultura

Teatro San Carlo, Giuli nomina Macciardi sovrintendente: Manfredi fa ricorso

Il ministro Giuli nomina Fulvio Macciardi al Teatro San Carlo tra le proteste. Manfredi contesta la legittimità e annuncia ricorso al Tar.

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Il ministro della Cultura Alessandro Giuli (foto Imagoeconomica in evidenza) ha nominato ufficialmente Fulvio Adamo Macciardi nuovo sovrintendente della Fondazione Teatro di San Carlo di Napoli, accogliendo la proposta del Consiglio di Indirizzo della Fondazione. Una decisione che arriva in un clima teso e divisivo, e che rischia di aprire un nuovo caso politico-giuridico attorno alla gestione del più antico teatro d’opera in Europa.

Il Consiglio diviso e la posizione del sindaco Manfredi

La nomina di Macciardi, ex sovrintendente del Teatro Comunale di Bologna, è stata votata da tre membri su cinque del Consiglio di Indirizzo: Gianfranco Nicoletti e Marilù Faraone Mennella (entrambi indicati dal Mic) e Riccardo Realfonzo (designato dalla Regione Campania). Tuttavia, il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, che è anche presidente della Fondazione, ha disconosciuto la validità della riunione, sostenendo che non fosse stata formalmente convocata, poiché egli stesso aveva annullato la seduta a causa di impegni istituzionali a Palazzo Chigi.

Manfredi ha annunciato che impugnerà il decreto di nomina davanti al Tar, definendo l’intera procedura irregolare e illegittima. A sostegno della sua posizione sono intervenuti anche i revisori dei conti del teatro, che in una lettera indirizzata al ministro hanno contestato il valore giuridico della designazione.

La spaccatura politica e le reazioni

La decisione del ministro Giuli di procedere comunque alla nomina di Macciardi, nonostante le contestazioni, è stata aspramente criticata da Pd e M5s, che hanno parlato di “disprezzo delle regole” e accusato il governo di forzature politiche su una delle istituzioni culturali più prestigiose del Paese.

Sul fronte opposto, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, da mesi in rotta con il sindaco Manfredi, ha commentato con tono polemico: “Sono quattro mesi che il Teatro San Carlo è allo sbando. Che altro bisognava aspettare?”. La nomina di Macciardi è avvenuta proprio grazie a un’inedita convergenza tra i rappresentanti del Ministero e quello della Regione, una scelta che ha fatto rumore considerando i rapporti tesi tra il centrodestra e il governatore campano.

Un teatro ancora nel vortice dello scontro

Questa nuova frattura istituzionale arriva a due anni dalla precedente battaglia legale che vide protagonista Stephane Lissner, dimissionato e poi reinsediato dai giudici dopo un braccio di ferro con Carlo Fuortes. La storia rischia ora di ripetersi con Fulvio Macciardi, 66 anni, milanese, nominato per un mandato quinquennale, ma la cui legittimità è già sottoposta al vaglio della giustizia amministrativa.

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