Gli italiani chiudono il 2023 con il livello più basso di sempre della propria capacità di risparmiare, peggio anche del 2012 della crisi del debito. E con un potere d’acquisto in calo per il secondo anno consecutivo, frutto di un’inflazione che è corsa molto più dei redditi e di un fisco che ha continuato a colpire duro le famiglie. La fotografia dell’Istat nei conti nazionali dello scorso anno tratteggia un’Italia a due velocità nell’uscita dalla doppia crisi pandemia-guerra in Ucraina. Con le famiglie davanti alla stretta alle misure di sostegno contro il caro-energia e al reddito di cittadinanza.
E le imprese che, complessivamente, pur con utili in miglioramento, secondo le tabelle dell’Istat hanno continuato a registrare aiuti consistenti sia dalla pubblica amministrazione che dall’Europa: 55,2 miliardi i contributi pubblici nel 2023 (23,8 miliardi per la produzione, che includono i crediti d’imposta per le spese energetiche, 31,4 miliardi per gli investimenti), in calo dai quasi 58 miliardi del 2022 ma su livelli sconosciuti negli anni pre-pandemia, quando si viaggiava sotto i 20 miliardi l’anno. Sullo sfondo di quelli che il Codacons definisce “numeri preoccupanti” c’è un’inflazione cumulata che, nel giro di un biennio, fra il +5,7% di aumento dei prezzi nel 2023 e l’8,1% del 2022, ha tolto alle famiglie molto più di quanto gli aumenti salariali siano riusciti a restituire: alcuni economisti stimano un aumento cumulato dei prezzi del 18%.
Il risultato, nei conti dell’istituto statistico, è che nel 2023 il reddito disponibile delle famiglie è aumentato del 4,7%, ma al netto dell’inflazione il potere d’acquisto si è ridotto dello 0,5%. La spesa per consumi finali è cresciuta del 6,5% (in valore, gonfiata quindi dai prezzi) ma per tenere dietro alle spese le famiglie hanno dovuto mettere da parte di meno: la propensione al risparmio delle famiglie cala al 6,3% dal 7,8% del 2022, toccando il minimo dal 1995, inizio del periodo di riferimento dei conti, e facendo peggio persino del 6,7% del 2012, l’anno dei provvedimenti duri, anche sul fronte fiscale, per far scendere lo spread. Segnali positivi si vedono nell’ultimo trimestre 2023, quando la propensione al risparmio è risalita al 7%. Certo c’è l’effetto post-pandemico, con tanti che sono tornati a spendere, magari per viaggi o spese a lungo rinviate, dopo aver accumulato forzosamente durante gli anni delle restrizioni anti-Covid. Ma c’è anche la scure del fisco dietro un 2023 che i consumatori dell’Adoc ricordano come “annus horribilis per consumatori e risparmiatori”.
Le imposte correnti pagate dalle famiglie italiane sono aumentate di 24,6 miliardi di euro (+10,7% rispetto al 2022), con un +10,2% per l’Irpef e un +23% per le ritenute sui redditi da capitale e sul risparmio gestito. “Il saldo degli interventi redistributivi nel 2023 – spiega l’Istat – ha sottratto alle famiglie 118,8 miliardi di euro”, 16,5 in più rispetto al 2022. Per le imprese, le imposte sulla produzione segnano un aumento di 2,2 miliardi di euro (+7,5%). Secondo Confesercenti “pesa l’onda lunga dell’inflazione, il cui rientro sta impiegando più tempo di quanto auspicato, ma si inizia a sentire anche l’effetto del fiscal drag” ossia di un aumento delle tasse dovuto ai redditi nominali gonfiati dall’inflazione. Negli ultimi tre mesi dell’anno il gettito dell’Irpef è infatti aumentato il doppio rispetto all’aumento dei redditi da lavoro dipendente (+4,5%) e dei redditi da lavoro autonomo (+5,4%).
“Il fiscal drag inizia dunque a mordere, e a spingere in direzione opposta al taglio delle aliquote appena entrato in vigore”. Un aiuto arriva dal taglio del cuneo fiscale, che sta riducendo i contributi pagati dai lavoratori dipendenti (-2,2%) ma non degli gli autonomi, i cui contributi sono anzi aumentati del 7,3%, due punti in più rispetto all’aumento dei relativi redditi”. Ma servirebbe – dice Confesercenti – un’ulteriore rimodulazione delle aliquote Irpef, e la conferma del taglio del cuneo estendendo gli sgravi anche alle fasce più deboli del lavoro autonomo.