“Dio mio, ti prego, fa’ che finisca le munizioni”: esposto e impotente, disteso, cercando di restare piu’ immobile possibile per minuti interminabili, Ramzan Ali puo’ solo aspettare. Aspettare e sperare. In quegli infernali minuti Ali, testimone dell’eccidio della moschea Al Noor di Hagley Park, la prima attaccata da Brenton Tarrant, e’ inchiodato sotto una panca, per meta’, con le gambe che escono, in uno degli angoli della sala grande della moschea dove si ammucchiano i fedeli terrorizzati e sui quali il terrorista gioca al tiro al piccione. Da sotto quella panca, alzando appena lo sguardo, Ali vede suo cugino venire ferito a una gamba e un altro ucciso. Il sangue gli schizza addosso, i colpi gli sibilano vicini. Quando il terrorista suprematista entra in azione, e’ cominciata la preghiera del Venerdi’: e’ da poco calato il silenzio, tutto e’ “pacifico, calmo e silenzioso”, racconta un altro testimone, Ramzan. “Quando iniziano i sermoni, puoi sentire se uno spillo cade a terra”. Poi, improvvisamente, un’esplosione di violenza. “Abbiamo sentito gli spari e le urla e la gente presa dal panico”, e’ il ricordo di Nour Tavis. “Ho pensato: ‘E ora, come faccio a uscire di qui?’. A quel punto Tavis vede qualcuno che sfonda una finestra e esce. “Era l’unica via di scampo. L’ho seguito e sono riuscito anch’io a mettermi al sicuro”.
Tavis corre, scavalca una staccionata di un metro e mezzo e bussa alla porta di una casa vicina. Gli aprono, lo fanno entrare. Tavis, il cui volto triste e’ ripreso in primo piano dai media neozelandesi, e’ salvo. Poi ritorna, e vede la gente distesa in terra morta, ferita. “C’era gente che sanguinava a morte. Era terribile”, racconta di quando ancora non sapeva che nell’eccidio ha perso la moglie. Anche Mahmood Nazeer riesce a scappare dalla trappola della moschea. Quando sente sparare capisce di avere una finestra di pochi istanti, della quale Mahmood approfitta: esca da una porta secondaria e si nasconde sotto a una delle auto nel parcheggio. Quando gli spari sembrano finiti, Nazeer si piazza dietro a una staccionata: “Ho visto un uomo che cambiava l’arma e ne prendeva un’altra da dove aveva parcheggiato, sul viale accanto alla moschea”. Come lui, diversi altri capiscono subito cosa sta succedendo e riescono a mettersi in salvo nel parcheggio. Ma le cose vanno molto diversamente per Ranzan Ali, 62 anni, di origini figiane, l’uomo rimasto intrappolato all’interno.
“E’ entrato e ha iniziato a sparare. Non l’ho visto direttamente”, perche’, non avendo ne’ tempo ne’ spazio per fuggire, Ali ha solo la possibilita’ di restare sdraiato dove si trova, sotto la fatidica panca. “Ero li’ e pensavo: ‘Se mi alzo mi uccide’. Ma il sangue mi schizzava addosso. E io pensavo: ‘O mio Dio, cosa mi succede adesso? Per fortuna sono ancora vivo, Ma per quanto?'”. “Ho visto gente correre verso la porta piu’ vicina”, continua Ali. “Far uscire 300 persone non e’ stata cosa facile, perche’ lui era entrato dalla porta principale e di porte ce ne sono solo altre due, ai lati” della moschea. Intanto Tarrant spara miriadi di colpi, riempie il vasto pavimento di bossoli, ricarica, spara, poi esce dalla sala, spara ancora, ricarica e rientra. “Prima o poi deve finire i colpi, pensavo e fra me pregavo: ‘O mio Dio, ti prego, fa’ che finisca i colpi'”. Nel frattempo, “un tipo che era seduto li’ mi dice di non muovermi”. Ma l’assassino lo vede muoversi: “Subito dopo, il killer lo uccide, sparandogli dritto nel petto”. “Mio cugino, che era seduto vicino a me, si e’ preso un proiettile nella gamba”. Il killer – il folle filmato mandato in streaming da Tarrant lo dimostra – ha piu’ volte sparato sulle pile di corpi, perche’ nessuno scampasse. Ma alla fine, Ali sopravvive, fisicamente illeso: “Sono stato l’ultimo uomo a uscirne vivo. Posso dire di essere stato miracolato. Sono stato fortunato, Dio mi ha assistito”
In Vaticano, archiviata la vicenda Becciu, un nuovo caso scuote le giornate che precedono il prossimo conclave. Al centro dell’attenzione c’è Juan Luis Cipriani Thorne, arcivescovo emerito di Lima, accusato di abusi sessuali e già sanzionato da Papa Francesco, ma che nonostante tutto continua a partecipare alle riunioni ufficiali dei cardinali.
Non potrà entrare nella Cappella Sistina in caso di conclave — ha superato gli 80 anni — ma la sua presenza e il ruolo attivo nelle congregazioni generali, dove si delinea il profilo del futuro Papa, sta provocando sconcerto, in particolare tra i cardinali latinoamericani. Le sanzioni papali, che prevedevano anche il divieto di indossare le insegne cardinalizie o rilasciare dichiarazioni pubbliche, sembrano di fatto ignorate da Cipriani, che continua ad aggirarsi tra i confratelli in abiti cardinalizi.
Primo Maggio senza congregazioni, ma con intensi conciliaboli
In questo clima di tensione, oggi, Primo Maggio, è saltato l’incontro ufficiale in Aula del Sinodo. Tuttavia, la mattinata libera ha favorito colloqui informali tra cardinali: un’opportunità preziosa per discutere lontano dai riflettori delle congregazioni. Uno dei temi più discussi, secondo fonti vaticane, è proprio la controversa presenza di Cipriani.
Le finanze vaticane e le eredità delle riforme di Francesco
Parallelamente, un altro tema preme nelle conversazioni riservate: la situazione economica della Santa Sede. Il rosso operativo del 2021 era stato di 77,7 milioni di euro e secondo alcuni prelati, la situazione non sarebbe migliorata negli anni successivi.
Tra gli interventi di ieri:
Il cardinale Reinhard Marx ha parlato delle sfide di sostenibilità economica;
Il cardinale Kevin Farrell del comitato per gli investimenti;
Il cardinale Christoph Schönborn ha relazionato sulla “banca vaticana”;
Fernando Vergez Alzaga ha fornito aggiornamenti sui lavori di ristrutturazione;
Konrad Krajewski, elemosiniere del Papa, ha esposto le attività caritative.
Secondo fonti interne, la Curia romana punta a proseguire le riforme di Francesco, mantenendo le bonifiche avviate, in particolare dentro lo Ior e nella gestione patrimoniale. Il cardinale Pietro Parolin, già Segretario di Stato, viene indicato come possibile guida di questa missione risanatrice.
Curiosità e anomalie: il “ringiovanimento” del cardinale Njue
Infine, tra le note curiose, si segnala l’assenza del cardinale John Njue, di Nairobi, che un anno fa risultava ringiovanito nell’Annuario Pontificio: il suo anno di nascita era stato aggiornato dal 1944 al 1946, permettendogli in teoria di partecipare al conclave. Ma problemi di salute lo hanno comunque escluso.
Chiara Ferragni diventa azionista di maggioranza, ma il brand è in crisi: “Un tentativo disperato”
Chiara Ferragni rileva le quote del suo marchio, ma secondo Selvaggia Lucarelli si tratta di una manovra per salvare un’azienda in crisi. La vera minaccia? La bancarotta.
Chiara Ferragni ha annunciato con entusiasmo sul suo profilo Instagram di essere diventata azionista di maggioranza della Chiara Ferragni Brand, definendolo “un nuovo inizio”, “un gesto di responsabilità” e “la scelta di rimettere le mani sulla mia storia”. Ma dietro la patina da storytelling motivazionale si nasconde, secondo quanto ricostruisce Il Fatto Quotidiano in un articolo a firma di Selvaggia Lucarelli, una verità ben più amara: una crisi finanziaria profonda, seguita al crollo reputazionale legato al cosiddetto Pandorogate.
Il passaggio di quote, che ha visto Ferragni rilevare le partecipazioni di Paolo Barletta e quasi interamente anche quelle di Pasquale Morgese (rimasto con uno simbolico 0,2%), è stato reso possibile da un aumento di capitale da 6,4 milioni, sborsati direttamente dall’influencer. Una mossa orchestrata non da Ferragni in prima persona, ma dall’amministratore unico di Fenice, Claudio Calabi, esperto in ristrutturazioni aziendali, con il supporto dell’avvocato Giuseppe Iannaccone.
Un’operazione di salvataggio, non un rilancio
Secondo Lucarelli, questa non è una storia di emancipazione, ma di autosalvataggio: Ferragni è oggi l’unica disposta a investire nel suo marchio, perché nessun altro lo ritiene appetibile. “È come dire che un ristoratore è diventato il cliente numero uno del proprio locale perché gli altri non ci vogliono più venire”, scrive la giornalista.
Le perdite del 2024 superano i 10 milioni di euro, e Ferragni sta attingendo al proprio patrimonio personale per tenere in piedi l’azienda. Ma, tra la casa acquistata a City Life per 14 milioni, le spese legali, lo stile di vita sfarzoso e la gestione di una vita privata pubblica, i fondi potrebbero non bastare a lungo. Voci non confermate parlano di una possibile messa in vendita della casa, ipotesi smentita dal suo staff.
Il nodo delle licenze e la reputazione in frantumi
Il punto più critico riguarda però le licenze del brand: aziende come Safilo e Pigna chiedono conto delle perdite legate al marchio e ora i negoziati sono affidati a Calabi. In questo quadro, la comunicazione pubblica dell’influencer — ancora improntata a viaggi, look, sondaggi su Instagram — appare fuori fase e dannosa.
“Chi la aiuta le suggerisce il basso profilo, ma lei continua a vivere come se niente fosse accaduto”, osserva Lucarelli. E avverte: la vera minaccia è la bancarotta.
Un cambio di passo è ancora possibile?
Il grande punto interrogativo è sul futuro. Non basta l’apparizione in seconda fila alle sfilate o una copertina su Elle Romania. Servirebbe, scrive Lucarelli, una vera rivoluzione strategica e personale: niente più immagine da eterna adolescente digitale, ma un’autentica trasformazione in imprenditrice.
“Per risollevarsi”, conclude, “Chiara Ferragni avrebbe bisogno di iniziare a pensarsi oberata, e non più semplicemente ‘libera’ come da slogan sanremese”.
Marc Innaro (foto Imagoeconomica in evidenza), storico corrispondente Rai da Mosca e oggi inviato dal Cairo, torna a parlare in un’intervista rilasciata a Il Fatto Quotidiano, affrontando con lucidità e tono critico le tensioni tra l’Occidente e la Russia, il suo allontanamento da Mosca e la crescente russofobia nelle istituzioni europee.
Dal 1994 al 2000 e poi dal 2014 al 2022, Innaro ha raccontato la Russia da dentro, cercando – come lui stesso dice – di “corrispondere” la realtà e il punto di vista di Mosca. Una scelta giornalistica che gli è costata accuse di filoputinismo e, di fatto, l’interruzione della sua esperienza russa da parte della Rai, ufficialmente per motivi di sicurezza legati alla nuova legge russa contro le “fake news”.
Ma Innaro contesta apertamente questa versione: “Quella legge valeva per i giornalisti russi, non per gli stranieri accreditati. Commissionai persino uno studio legale russo-italiano che lo dimostrò. Nessuno mi ascoltò”. A detta sua, la vera censura arrivava “non dai russi, ma dagli italiani”.
Nato, Ucraina e verità scomode
Un episodio televisivo emblematico segnò la sua posizione pubblica: una cartina sull’allargamento della Nato a Estmostrata in diretta al Tg2 Post, che gli offrì l’occasione per dire: “Ditemi voi chi si è allargato”. Una verità storica, sottolinea, che rappresenta “la versione di Mosca” e che fu raccontata anche da Papa Francesco, quando parlò del “latrato della Nato alle porte della Russia”.
Da lì in poi, dice Innaro, cominciò l’isolamento. Non gli fu consentito di intervistare Lavrov né di andare embedded con i russi nel Donbass, mentre altri inviati Rai furono autorizzati a farlo con le truppe ucraine, anche in territorio russo.
“La Russia non vuole invadere l’Europa”
Secondo Innaro, la narrazione di Mosca come minaccia globale è costruita ad arte: “La Russia è un Paese immenso con 145 milioni di abitanti. Come può voler invadere un’Europa da 500 milioni?”. L’obiettivo russo, dice, è sempre stato chiaro: la neutralità dell’Ucraina e il rispetto per le minoranze russofone.
Nel commentare le dichiarazioni dei vertici Ue e Nato, come quelle di Kaja Kallas o Mark Rutte, Innaro osserva che “alimentare la russofobia non aiuta a risolvere nulla” e ricorda che è grazie al sacrificio sovietico se l’Europa è stata liberata dal nazifascismo.
“L’Europa doveva includere la Russia”
La guerra, secondo Innaro, “diventa sempre più difficile da fermare”, anche per il consenso interno a Putin. Ma l’errore strategico dell’Occidente, dice, è stato non costruire una nuova architettura di sicurezza con la Russia dopo la Guerra Fredda: “Abbiamo più in comune con i russi che con altri popoli. Ma ora i 7/8 del mondo si riorganizzano e l’Europa resta ai margini”.
Un’analisi lucida e controcorrente, che rimette in discussione molte certezze del racconto dominante.