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Scandalo abusi, si dimette l’arcivescovo di Canterbury

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La figura religiosa più importante del Regno Unito è stata travolta da uno scandalo di abusi sessuali riemerso dal passato. L’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, primate della chiesa d’Inghilterra, ha annunciato le sue dimissioni dopo la grave accusa contenuta in un rapporto indipendente di aver coperto le molestie e le violenze sistematiche nei confronti di minorenni imputate a un potente avvocato, John Smyth, scomparso a 75 anni nel 2018. Un terremoto nell’istituzione di cui è nominalmente capo re Carlo III, guidata dal 2013 da un leader anglicano che ha pronunciato sermoni e officiato nei momenti liturgici più importanti del Paese: dai battesimi dei principini Windsor al matrimonio di Harry e Meghan, fino al funerale della regina Elisabetta II nel 2022 e all’incoronazione dell’attuale sovrano l’anno scorso.

“Spero che questa decisione renda chiaro quanto la chiesa d’Inghilterra comprenda la necessità di cambiamento e il nostro profondo impegno per creare una chiesa più sicura”, si legge nella lettera di dimissioni di Welby che non ha resistito alle ripetute pressioni e agli appelli per farsi da parte arrivati dal clero anglicano, inclusi alcuni vescovi, da una petizione con oltre 14 mila firme e anche da alcuni “superstiti” degli abusi. Da ultimo pure il premier laburista Keir Starmer aveva fatto mancare il suo sostegno al leader religioso. L’arcivescovo di Canterbury ha affermato di “doversi assumere la responsabilità personale e istituzionale” per quanto successo sottolineando di provare dolore “nei confronti di tutte le vittime e i sopravvissuti”.

Dal rapporto era emersa un’azione di insabbiamento condotta dai vertici della chiesa inglese rispetto agli “orribili” abusi compiuti dal legale al centro dello scandalo, amico dello stesso Welby. Smyth in veste di predicatore laico aveva preso di mira almeno 130 tra bambini e ragazzi nel corso di campi estivi cristiani per giovani tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 nel Regno Unito e successivamente in Zimbabwe e Sudafrica, dove si era trasferito. Il dossier sul suo conto era finito sulla scrivania del leader anglicano sin dal 2013, che però non si era rivolto alla polizia. “Gli ultimi giorni hanno rinnovato il mio profondo senso di vergogna per gli storici fallimenti della chiesa d’Inghilterra nella salvaguardia” delle vittime di molestie, ha ammesso Welby. Eppure nella sua attività, inclusa quella come membro della Camera dei Lord, non solo si era impegnato a contrastare gli abusi commessi negli ambienti religiosi ma aveva anche mostrato un certo atteggiamento liberal sul matrimonio omosessuale e progressista sui temi sociali, a partire dall’immigrazione, entrando più volte in contrasto coi precedenti governi a guida conservatrice.

Il 68enne Welby verrà di sicuro ricordato anche per la biografia piuttosto curiosa: la madre, Jane, era segretaria di Winston Churchill e il vero padre, come il futuro arcivescovo scoprì solo in tarda età, si rivelò essere il braccio destro dello statista britannico, sir Anthony Montagu Browne. Non venne toccato da quella rivelazione l’uomo che era passato anche attraverso la convivenza con genitori alcolizzati e problemi personali di depressione per poi trovare un equilibrio interiore solo dopo aver abbandonato la carriera di manager petrolifero per intraprendere il ministero ecclesiastico.

E’ così destinato ad aprirsi, in un momento di forte difficoltà per l’istituzione religiosa dopo uno scandalo di tale portata, il processo di successione per scegliere il nuovo primate della chiesa d’Inghilterra e anche leader spirituale per 85 milioni di persone in tutto il mondo in quella che è conosciuta come Comunione anglicana. Processo di nomina che prevede l’indicazione di due candidati da parte di una apposita commissione al governo – trattandosi di fatto di una chiesa di Stato – e la successiva scelta da parte del primo ministro sottoposta infine al placet automatico del re.

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I 5 secondi che hanno messo in ginocchio la Spagna

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Cinque secondi, il tempo di un sospiro, ma lunghissimi in termini di velocità della luce. Sono stati sufficienti per mettere in ginocchio la Spagna. E’ il lasso di tempo in cui si sono verificate “due perdite di generazione di corrente successive, che il sistema non è stato in grado di assorbire”, provocando alle 12,33 di lunedì il crollo al ‘punto zero’, il collasso totale del sistema elettrico.

La causa di quei cali di tensione, con un intervallo di appena un secondo e mezzo fra loro, seguito dopo 3,5 secondi dal collasso, è il principale nodo che si cerca di sciogliere per risalire alle origini del grande buio in cui è sprofondata ieri la penisola iberica, come ha spiegato il capo delle operazioni della Rete Elettrica Spagnola (Ree), Eduardo Prieto. “Bisognerà analizzare il perché si sono prodotte le due disconnessioni, in particolare la seconda che ha portato al collasso del sistema”, ha segnalato Prieto. Si dovranno “verificare le cause, analizzare la potenza, l’ubicazione, le condizioni in cui si è prodotta la disconnessione”.

Ma ha anche riconosciuto come “molto probabile” che la fonte di generazione interessata dal calo sia quella solare, senza dare però ulteriori spiegazioni. Lunedì, in quei cinque secondi precedenti al collasso, che ha fatto “scomparire 15 gigawatt di elettricità dalla rete”, l’equivalente al 60% della domanda di energia spagnola – come aveva segnalato il premier – si era registrato un picco di produzione di energia solare nella zona del sudovest della Spagna, in Estremadura. E le rinnovabili stavano fornendo il 78% della domanda di elettricità del Paese. Il surplus di energia disponibile avrebbe provocato uno sbilanciamento della rete elettrica iberica, rendendo impossibile assicurare la stabilità del sistema, secondo quanto ha ipotizzato l’ex presidente di Rete Elettrica, Jorge Fabra, a Tve. Un primo squilibrio sarebbe stato assorbito dalla rete, mentre il secondo con un effetto domino, avrebbe superato la capacità di risposa del sistema, facendo crollare prima la rete spagnola e poi quella portoghese. E causando il distacco della interconnessione con la Francia.

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Parigi, al via il processo ai “nonnetti rapinatori” che derubarono Kim Kardashian

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È iniziato ieri, davanti al tribunale di Parigi, il processo contro i dieci imputati – nove uomini e una donna – accusati della clamorosa rapina ai danni di Kim Kardashian, avvenuta nell’autunno del 2016. Il principale indiziato, Aomar, 68 anni, si è presentato in aula con passo incerto e bastone alla mano, fedele al suo profilo di “papy braqueur”, come i media francesi hanno soprannominato la banda: i nonnetti rapinatori.

I protagonisti della rapina

Aomar, nato nel 1956 in Algeria, è un veterano del crimine, autore dei primi furti già a 14 anni. A presentargli i complici era stata la compagna Christiane Glotin, detta Cathy, oggi 78enne, che gli fece incontrare “Pierrot il grosso”, 80 anni, altra vecchia conoscenza del mondo criminale francese.

Tra gli altri protagonisti c’è Yunice Abbas, 71 anni, che tentò una fuga rocambolesca in bicicletta portando con sé una borsa che credeva piena di armi, ma che invece conteneva gioielli e perfino il cellulare di Kim Kardashian, da cui avrebbe ricevuto una chiamata della cantante Tracy Chapman.

Spicca anche Didier “occhi blu” Dubreucq, 69 anni, con 23 anni di prigione alle spalle, che avrebbe partecipato direttamente all’irruzione nella suite della star americana.

La notte del colpo milionario

La rapina avvenne la notte del 3 ottobre 2016, in una suite di lusso nascosta in rue Tronchet, vicino alla Madeleine. Kim Kardashian, sola nella stanza, fu sorpresa da due uomini travestiti da poliziotti. Le strapparono il cellulare e, sotto minaccia, la costrinsero a consegnare l’anello di fidanzamento, un diamante da quasi 19 carati, regalo del marito Kanye West, valutato circa quattro milioni di dollari. La star fu legata, imbavagliata e rinchiusa nel bagno, mentre i rapinatori fuggivano con il bottino, comprendente anche contanti, gioielli e orologi di lusso.

La banda fu individuata grazie alle tracce di Dna lasciate nella suite.

Una rapina da fumetto

Sull’incredibile vicenda sono già stati pubblicati fumetti e libri, alcuni scritti dagli stessi imputati, che hanno contribuito ad alimentare il mito dell’«impresa dei nonnetti». Kim Kardashian è attesa in aula per testimoniare il prossimo 13 maggio.

 

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Elezioni in Canada, liberali di Carney vincono legislative e preparano la guerra a Trump

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Secondo le proiezioni dei media locali, è il Partito liberale di Mark Carney a vincere le elezioni legislative canadesi. I risultati preliminari del voto non permettono però di stabilire se il premier guiderà un governo di maggioranza o di minoranza.

Il primo ministro si avvierebbe quindi a portare i Liberali verso un nuovo mandato, dopo aver convinto gli elettori che la sua esperienza nella gestione delle crisi economiche lo rende pronto ad affrontare le mire del presidente americano Donald Trump. L’emittente pubblica Cbc e Ctv News hanno entrambe previsto che il Partito liberale formerà il prossimo governo canadese. Solo pochi mesi fa la strada per il ritorno al potere dei conservatori guidati da Pierre Poilievre sembrava spianata, dopo dieci anni sotto la guida di Justin Trudeau. Ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua offensiva senza precedenti contro il Canada, con dazi e minacce di annessione, hanno cambiato la situazione.

Elezioni in Canada, ecco chi è il primo ministro Mark Carney: l’uomo delle crisi

A Ottawa, dove i liberali si sono radunati per la notte delle elezioni, l’annuncio di questi primi risultati ha provocato un applauso e grida di entusiasmo. “Sono felicissimo, è ancora presto ma sono fiducioso che riusciremo ad avere la maggioranza”, David Lametti, ex ministro della Giustizia. La guerra commerciale di Trump e le minacce di annettere il Canada, rinnovate in un post sui social media il giorno delle elezioni, hanno indignato i canadesi e hanno reso i rapporti con gli Stati Uniti un tema chiave della campagna elettorale.

Carney, che non aveva mai ricoperto una carica elettiva e aveva sostituito Trudeau come premier solo il mese scorso, ha basato la sua campagna su un messaggio anti-Trump. In precedenza ha ricoperto la carica di governatore della banca centrale sia nel Regno Unito che in Canada e ha convinto gli elettori che la sua esperienza finanziaria globale lo rende pronto a guidare il Paese attraverso una guerra commerciale. Ha promesso di espandere le relazioni commerciali con l’estero per ridurre la dipendenza del Canada dagli Stati Uniti.

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