“Che fai, mi arresti?”. Il mandato di cattura spiccato dalla Corte Penale Internazionale (Cpi) ai danni di Vladimir Putin rischia di trasformarsi in un incubo diplomatico. Certo, tra i non aderenti allo Statuto di Roma – che regola il funzionamento e la giurisdizione della Corte – ci sono molti grandi del mondo. La Russia, ovviamente. Ma anche l’India, la Cina e gli Stati Uniti. Se si confronta però la lista dei firmatari ai vari format di dialogo multipolare nati da quando ha debuttato la Corte, ecco spuntare delle belle sorprese. Il primo a finire sulla graticola sarà il Sudafrica. Fa parte dei Brics – il club delle economie emergenti di fatto creato da un paper del 2001 di Goldman Sachs – e il prossimo agosto dovrà ospitare il summit annuale, a livello dei capi di Stato. In tempi di Covid la scappatoia sarebbe stata facile: Zoom e via. Ma ora che la pandemia è finita i vertici sono tornati in presenza. Il Sudafrica ha ratificato lo Statuto di Roma e, dunque, sarebbe chiamato ad eseguire l’arresto se lo zar dovesse mai decidere di sedersi al tavolo. Improbabile, ma chi lo sa. Oppure i colleghi gli faranno la cortesia di comparire in video (come del resto fa Volodymyr Zelensky, per motivi diametralmente opposti, dall’inizio della guerra). Un rompicapo, appunto. All’Aja spiegano che i mandati di arresto della Cpi sono “validi dal momento in cui vengono emessi”.
“Gli Stati firmatari dello Statuto di Roma hanno l’obbligo di cooperare con la Corte. In caso contrario la Corte può informare l’Assemblea degli Stati partner, che deciderà poi l’approccio migliore”, nota un portavoce. Nessuna sanzione automatica insomma. E non può che essere così. La strada poi di un appello al Consiglio di Sicurezza dell’Onu non è praticabile, dato che Mosca ha il veto. Come si diceva prima, però, neppure gli Usa hanno aderito alla Corte. Putin potrebbe quindi recarsi tranquillamente all’Assemblea Generale della Nazioni Unite, quando ci sarà la prossima plenaria, per una delle sue tirate contro “la fine del mondo unipolare”. Ma andiamo avanti. L’altro format di vero peso ormai è il G20. A Nuova Delhi, a settembre, lo zar potrà andare tranquillamente, se proprio vuole togliersi lo sfizio di vedere dal vivo la faccia degli altri 19 leader (a Bali, e non era ancora un latitante, sebbene imperiale, ci mandò comunque Lavrov). Già nel 2024 però si mette male: toccherà al Brasile e il Brasile sostiene l’Aja. Che farà Lula se Putin busserà al suo palazzo? Eppure la situazione più impossibile è quella del Tagikistan. L’ex repubblica sovietica è l’unico Paese dell’Asia Centrale, cortile di Mosca, ad aver ratificato lo Statuto di Roma. E fa parte di ogni singola associazione a trazione russa (o russo-cinese). S’inizia con il Trattato per la Sicurezza Collettiva e si passa dalla Comunità degli Stati Indipendenti: nel primo caso il summit del 2023 è previsto in Bielorussia, nel secondo in Kirghizistan. Non si sa cosa accadrà nel 2024 (una sola certezza: non toccherà al Tagikistan). Resta la Shanghai Cooperation Organization. Putin ha preso parte all’ultimo vertice, a Samarcanda, quando la presidenza toccava all’Uzbekistan. La regola vuole che si ruoti su base alfabetica (in cirillico) e per Dushanbe vale un vero e proprio colpo di fortuna: gli è toccata nel 2021, è a posto per altri otto anni.