Una rete di truffatori che, utilizzando prevalentemente prestanome, tra cui senza fissa dimora, percettori di reddito di cittadinanza, persone decedute o con precedenti penali, aveva creato un numero imprecisato di imprese inesistenti per riscuotere crediti di imposta fittizi per “Ecobonus” e “Bonus Facciate” per 1,7 miliardi di euro. A fare luce sulla truffa è stata la Guardia di Finanza di Avellino e di Napoli, nell’ambito di un’indagine coordinata dalla Procura di Avellino. Si tratta del sequestro di crediti d’imposta più alto di sempre e che ha portato a perquisizioni nelle province di Napoli, Avellino, Salerno, Milano, Lodi, Torino, Pisa, Modena e Ferrara nei confronti di 21 indagati per il reato di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata ai danni dello Stato. “Non si può parlare di imprenditori, dato che le società esistevano soltanto sulla carta e in qualche caso erano da tempo non operative”, sottolinea il comandante provinciale della Guardia di Finanza di Avellino, Salvatore Minale, che insieme alle Fiamme Gialle di Napoli, ha disarticolato l’organizzazione che nel corso degli ultimi mesi e su base quotidiana ha inviato alla Agenzia delle Entrate un elevatissimo numero di comunicazioni di cessione del credito di imposta. Nei confronti degli indagati si ipotizzano i reati di associazione a delinquere, truffa, riciclaggio, emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Gli investigatori escludono il loro collegamento con organizzazioni criminali, ma evidenziano la rodata ‘specializzazione’ raggiunta dagli indagati: in molti casi, le particelle catastali corrispondevano ad immobili inesistenti e a turno, gli stessi soggetti si scambiavano i ruoli di cedenti e cessionario dei crediti. Ad innescare l’indagine è stata un’analisi di rischio del Settore Contrasto Illeciti dell’Agenzia delle Entrate. Sono state inoltrate istanze anche per immobili inesistenti, senza fatture oppure riportanti importi “incoerenti”. In duemila casi, è stato accertato, i lavori si sarebbero dovuti realizzare addirittura in comuni inesistenti. I lavori dichiarati per i quali sono stati inoltrate richieste di bonus avrebbero avuto un costo di circa 2,8 miliardi di euro. I sequestri eseguiti oggi – uno preventivo emesso dal gip e un altro d’urgenza della Procura di Avellino – hanno di fatto impedito che i crediti possano essere utilizzati in compensazione o monetizzati presso gli intermediari finanziari. In corso anche indagini per verificare la posizione di una persona, residente in Irpinia ma non indagata, finita nell’operazione portata a termine stamattina dalla Guardia di Finanza di Asti che in diverse regioni, per gli stessi reati, ha portato al sequestro di 1,5 miliardi e all’emissione di un’ordinanze di custodia cautelare per dieci persone.
Gli sviluppi delle indagini hanno permesso di accertare un ammontare di crediti fittizi per circa 1,7 miliardi di euro, parte dei quali usati in compensazione.
Gli interventi edilizi dai quali sarebbero sorti i crediti (per un importo complessivo di lavori dichiarati di circa 2,8 miliardi di euro) erano riferibili a immobili inesistenti, con indicazione nelle comunicazioni di cessione, in oltre 2.000 casi, di comuni anch’essi inesistenti.
Contestualmente al sequestro sono in corso perquisizioni nelle province di Napoli, Avellino, Salerno, Milano, Lodi, Torino, Pisa, Modena e Ferrara nei confronti di 21 soggetti indagati per il reato di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata ai danni dello Stato.
“Non luogo a procedere”: si è praticamente concluso con un nulla di fatto il processo sul voto di scambio a Sant’Antimo, in provincia di Napoli, iniziato e conclusosi presso il Tribunale di Napoli Nord dopo le eccezioni sollevate dagli avvocati. I reati contestati agli imputati, complessivamente 23, erano l’associazione a delinquere e la corruzione elettorale. I fatti risalgono alle elezioni comunali dell’11 giugno 2017 e il procedimento giudiziario sarebbe dovuto iniziare al massimo entro due anni. Ma così non è stato e quindi, a iniziare dall’avvocato Pietro Rossi, i legali dei difensori hanno puntato le loro discussioni evidenziando il ritardo con il quale ha preso il via il giudizio. Alcune posizioni, comunque, sono state stralciate, per difetti di notifica, e adesso sarà necessaria un’altra udienza, dopo il nuovo invio delle convocazioni, che purtroppo non potrà avere esito diverso da quello cui si è giunti oggi. Il “non luogo a procedere” è stato riconosciuto sussistente, dal giudice, per il reato di corruzione elettorale mentre per l’associazione a delinquere sono stati ritenuti insussistenti i criteri sui quali si sono basati gli inquirenti. Per gli investigatori i presunti componenti dell’associazione a delinquere si sarebbero resi responsabili di avere contattato gli elettori (attraverso il passaparola e appostamenti nei pressi di esercizi commerciali particolarmente frequentati) proponendo denaro e altre utilità (anche posti di lavoro, in taluni casi) in cambio del voto per specifici candidati. Ma l’inizio del processo oltre i limiti prestabiliti ha vanificato gli sforzi della Procura.
Arrivano i primi indagati per la morte della studentessa 19enne trovata morta nel fiume Lao, sul Pollino, dopo una gita scolastica con professori e compagni di istituto. La Procura di Castrovillari ha iscritto nel registro dieci persone, tra cui il sindaco di Laino Borgo, Mariangelina Russo, i responsabili della “Pollino rafting” e sette guide della stessa società. Contestualmente i magistrati hanno disposto anche il sequestro della società che si è occupata dell’escursione fatale per la giovane. Si tratta del primo passo ufficiale dell’inchiesta avviata dalla procura subito dopo la scomparsa della giovane, di cui si erano perse le tracce già martedì in seguito proprio alla caduta nelle acque del fiume.
“Le indagini in corso – ha spiegato il procuratore di Castrovillari, Alessandro D’Alessio – riguardano sia l’accertamento preciso delle cause della morte della diciannovenne, sia l’esatta ricostruzione della dinamica dell’incidente e della programmazione ed esecuzione dell’attività nel corso della quale si è verificato il decesso”. Stando a quanto raccontato da professori e compagni, il gruppo del liceo statale “Rechichi” di Polistena era in gita da alcuni giorni in provincia di Cosenza. Tra le attività previste dal viaggio d’istruzione c’era anche il rafting sul fiume Lao, nel comune di Laino Borgo. Proprio durante l’escursione, stando ai racconti delle compagne della 19enne, il gommone sul quale viaggiava Denise Galatà avrebbe urtato quello che lo precedeva facendo sbalzare la ragazza in acqua. Una volta finita sott’acqua, in un punto in cui il torrente é profondo alcuni metri, la giovane non avrebbe avuto la forza di risalire in superficie e sarebbe morta annegata.
“All’inizio – ha raccontato una delle ragazze che si trovavano insieme a Denise sul gommone – le acque erano calme, ma subito dopo la forza della corrente è aumentata. I gommoni sfioravano pericolosamente enormi massi nell’alveo del fiume. Ad un certo punto siamo stati sbattuti contro uno di questi massi ed in tre siamo caduti in acqua. Io ed un’altra mia compagna siamo stati soccorsi e portati sulla terraferma, mentre di Denise si é persa ogni traccia”. La procura, che a disposto per domani l’autopsia sul corpo della giovane, assicura che procederà nel minor tempo possibile “a tutti gli accertamenti, anche tecnici, necessari per acquisire gli elementi informativi”. Contemporaneamente proseguono anche le attività del ministero dell’Istruzione che ha attende dall’Ufficio scolastico regionale i risultati delle verifiche disposte per accertare che siano state effettivamente adottate tutte le misure di sicurezza previste in questi casi.
Una vicina di casa di Alessandro Impagnatiello, il 30enne in carcere per aver ucciso Giulia Tramontano incinta di 7 mesi, ha raccontato agli inquirenti di aver visto nel pomeriggio di domenica 28 maggio “una quantità ingente di cenere provenire dalla porta d’ingresso dell’appartamento” dell’uomo, “continuare sulle scale del condominio sino al box” della coppia. E’ un altro degli elementi agli atti dell’inchiesta. Sempre nel pomeriggio di domenica Impagnatiello, che aveva già ucciso Giulia la sera prima, le mandava messaggi sul suo telefono con scritto “baby dove sei? Ci stiamo preoccupando tutti”. E il giorno dopo: “Dicci solo che sei fuggita in qualche paese lontano”. Nel verbale della sua confessione si leggono frasi gelide come “non sono riuscito nell’intenzione di ridurre il corpo in cenere”.
E ancora: “Quando io faccio la denuncia di scomparsa il cadavere di Giulia era nel box”. E al pm che gli chiede “non ha temuto che i carabinieri aprissero il box?”, lui ha risposto: “Forse speravo lo facessero”. Lunedì avrebbe spostato, a suo dire, “il corpo dal box alla cantina”. Martedì, ha detto ancora, “porto la macchina nel box e carico il corpo nel bagagliaio” dove, stando al suo racconto, sarebbe rimasto fino alla notte successiva, prima di essere gettato in un buco vicino a dei box. Prima, ha messo a verbale l’uomo, “ho comunque usato la macchina andandoci in giro con il cadavere nel bagagliaio”. Ha detto di aver gettato il “telefono di Giulia in un tombino”, così come il bancomat, mentre il passaporto di lei lo avrebbe bruciato. Ha sostenuto di non aver chiesto aiuto ad alcuno: “Forse mia mamma ha dubitato, ma per 30 anni non ho dato mai motivo che potessi mai fare una cosa simile”. Tra le esigenze cautelari contestate il pericolo di inquinamento probatorio (riuscì a “falsificare” anche un test di paternità), quello di fuga, anche perché nei giorni dopo l’omicidio faceva ricerche per acquistare uno “zaino da trekking” per una “fuga veloce”. E infine il pericolo di reiterazione per la sua “pericolosità sociale” e per la “crudeltà” di aver ucciso con “premeditazione” anche il “figlio che ella portava in grembo”. Anche l’amante, scrivono i pm, aveva “timore” di lui: non voleva “subire la medesima sorte” di Giulia.