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Corona Virus

Paura dei contagi, ma non slitta il rientro a scuola

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Nessuno slittamento, gli studenti italiani torneranno a scuola il 10 gennaio, come previsto. La quarta ondata della pandemia non accenna a placarsi ma il governo mantiene la linea rigorosa e conferma il calendario scolastico, seppure probabilmente con alcune modifiche almeno per quanto riguarda quarantene e distinzioni tra vaccinati e non nelle classi. Le Regioni, che proprio di questo parleranno domani durante la Conferenza, spingono per eliminare il distinguo e, nel contempo, aumentare la soglia di positivi superata la quale le classi finiscono in Dad. Oggi, intanto, nuove riunioni tecniche a palazzo Chigi in vista di quella che appare sempre piu’ una certezza, ovvero l’estensione del super Green pass al lavoro. Un tema piuttosto complesso, soprattutto per quanto riguarda il mondo del privato, ma che andra’ inevitabilmente sciolto a breve. Per questo cresce l’attesa per il consiglio dei ministri di mercoledi’, quando le ipotesi potrebbero diventare realta’, forse gia’ da febbraio. A preoccupare, al momento, sono i dati che riguardano i casi di positivita’ tra i piu’ piccoli, quella fascia di eta’, cioe’, che per ultima ha cominciato il ciclo vaccinale. Circa un contagio su quattro, rivela infatti la Societa’ Italiana di Pediatria, riguarda nell’ultima settimana gli under 20. In un mese i ricoverati tra gli under 19 sono aumentati di quasi 800, 791 per la precisione, passando da 8.632 a 9.423. Dati che fanno il paio con l’andamento della campagna vaccinale, che stenta in particolare nella fascia 5-11 anni, dove si raggiunge appena il 10% di immunizzati, contro il 70% tra i 12enni e i 19enni. Proprio per questo in giornata governatori e sindaci hanno espresso preoccupazione in vista della riapertura delle scuole, dove stanno comunque gia’ arrivando le prime forniture di mascherine ffp2. Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, ha addirittura proposto di rimandare di 20-30 la ripresa delle lezioni in presenza per “raffreddare il contagio”. Un’idea che ha trovato d’accordo anche il presidente della Toscana, Eugenio Giani, seppur con qualche riserva. A chiudere definitivamente le porte alla proposta e’ pero’ palazzo Chigi, la cui linea – ribadita piu’ volte nei giorni scorsi dal ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi – e’ quella di tenere aperte le scuole e relegare la didattica a distanza solo alle strette necessita’. Proprio per questo, a sette giorni dal rientro in classe, le Regioni provano a mitigare preoccupazioni e necessita’ lanciando la proposta di eliminare la distinzione – definita “discriminatoria” da piu’ parti, pre’sidi compresi – tra vaccinati e non. In vista della Commissione Salute che si riunira’ domani, l’idea e’ quella di rivedere la definizione di un numero minimo di contagi in classe, che permetta indistintamente a tutti gli alunni di andare in Dad. Al momento, su quest’ultimo aspetto l’ipotesi e’ di valutare tre o quattro contagi e, sotto questa cifra, prevedere l’autosorveglianza per tutti. Critica la posizione dell’Associazione Nazionale Presidi che, per bocca del presidente di Roma Mario Rusconi, denuncia “una serie di mancanze” in vista del rientro. “Era stato annunciato che sarebbero stati organizzati hub per fare tamponi agli studenti – afferma – ma a pochi giorni dalla riapertura non ne abbiamo contezza”. Il tema del rientro sara’ comunque anche al centro del confronto di domani tra i governatori nella Conferenza delle Regioni e nell’incontro in programma tra il ministro Bianchi e i sindacati. Ma non e’ solo la scuola il tema sul quale si interroga palazzo Chigi, alle prese anche con l’estensione del super Green pass sul lavoro. Sono in corso infatti approfondimenti tecnici per capire la portata di una decisione simile su tutto il mondo del lavoro, in particolare sul privato dove potrebbero esserci maggiori criticita’ e resistenze. I tempi stringono e una decisione, soprattutto in vista di una probabile impennata di casi dopo le ferie natalizie, dovra’ essere presa nei prossimi giorni per poi partire gia’ dal prossimo mese, dando il tempo a chi non lo e’ di vaccinarsi o completare il ciclo con seconda dose o booster.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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