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Netanyahu a Mar-a-Lago, Trump attacca Harris su Israele

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Tappeto rosso per Benyamin Netanyahu a Mar-a-Lago per il faccia a faccia con Donald Trump sulla guerra a Gaza, dopo il controverso discorso del premier israeliano al Congresso Usa e gli incontri alla Casa Bianca con Joe Biden e poi con Kamala Harris, che pare averlo irritato per aver alzato i toni sulla Striscia. Il tycoon ha colto l’occasione al volo per attaccare la sua rivale presidenziale: “Le sue parole sono irrispettose di Israele… in realtà non so come una persona ebrea possa votarla, ma questo dipende da loro”, ha detto dopo aver accolto l’ospite. “Abbiamo persone incompetenti a gestire il nostro Paese”, ha proseguito, descrivendo Harris come peggiore di Biden.

“Se vinciamo, sarà molto semplice. Tutto si sistemerà, e molto in fretta. Se non lo facciamo, potrebbero accadere grandi guerre in Medio Oriente e forse una Terza guerra mondiale”, ha aggiunto. E’ il primo contatto dal 2020: da allora The Donald aveva fatto scendere il gelo sull’amico Bibi, reo di “slealtà” per essersi affrettato a congratularsi con Joe Biden riconoscendo la sua vittoria in elezioni da lui contestate. Ma adesso hanno entrambi bisogno uno dell’altro: Trump per rafforzarsi come interlocutore nei principali nodi internazionali, dall’Ucraina al Medio Oriente, e per mostrare il suo sostegno a Israele nel tentativo di conquistare voti tra gli ebrei americani, tradizionalmente filo dem; il premier israeliano per riallacciare i rapporti, sia in chiave interna (i partiti di destra al governo sostengono il tycoon) sia nel caso venga rieletto. Un esercizio di equilibrismo, essendo sbarcato in Usa dopo il ritiro dalla corsa di Biden, il subentro di Harris e la riapertura della partita elettorale.

“Sono onorato, entrate”, ha detto sorridendo Trump accogliendo (senza Melania) Netanyahu e la moglie Sara all’ingresso della sua residenza, con tanto di foto e video postati poi da entrambi i leader sui social. Il colloquio è durato circa un paio d’ore, dopo quelli avuti nei mesi scorsi con il premier ungherese Viktor Orban e il presidente polacco Andrzej Duda (alla Trump Tower).

Alla vigilia l’ex presidente, in un’intervista a Fox, aveva sollecitato Bibi “a finire la guerra e in fretta”, non tanto per questioni umanitarie ma per la cattiva pubblicità che Israele si sta facendo nel mondo per aver diffuso le immagini delle sue operazioni a Gaza, dove sono morti quasi 40 mila civili. Insomma, una questione di “pubbliche relazioni”, le ha definite. Come per l’invasione russa dell’Ucraina, Trump si è limitato a dire che con lui presidente Hamas non avrebbe attaccato Israele, ma in entrambi i casi non ha fornito soluzioni precise. Probabile comunque che se tornasse alla Casa Bianca darebbe più carta bianca all’alleato, anche sul futuro di Gaza e della Palestina.

Del resto durante il primo mandato ha condotto una politica a senso unico, facendo tabula rasa della soluzione dei due Stati: accordi di Abramo, spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme riconosciuta come capitale, ok all’annessione delle Alture del Golan e agli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, azzeramento degli aiuti ai palestinesi. Prima di Mar-a-Lago, un dirigente israeliano aveva fatto filtrare l’irritazione di Netanyahu per le dichiarazioni pubbliche della Harris dopo il loro incontro, avvisando che rischiano di danneggiare i negoziati per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi, ormai in “fase finale”, secondo la Casa Bianca.

Negoziati che continuano domenica a Roma in un incontro tra il capo del Mossad David Barnea, il direttore della Cia William Burns, il premier del Qatar Mohammed bin Abdel Rahman al-Thani e il capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamal. Dopo 40 minuti di colloquio con il premier israeliano, Harris ha detto in tv di averlo sollecitato a concludere rapidamente l’accordo ma ha alzato i toni sui civili uccisi e sulla situazione umanitaria, sottolineando che “Israele ha il diritto di difendersi, tuttavia come lo fa è importante”. Una presa di posizione che le consente di rimanere vicino a Israele ma anche alle proteste filo palestinesi che attraversano il mondo dem e le strade d’America.

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Processo Maradona, la testimonianza shock di Villarejo: “Sedato senza esami. Ricovero in terapia intensiva trasformato in caos”

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Nel quattordicesimo giorno del processo per la morte di Diego Armando Maradona, ha deposto il dottor Fernando Villarejo, responsabile della terapia intensiva della Clinica Olivos, dove il campione fu operato per un ematoma subdurale il 2 novembre 2020, appena 23 giorni prima della sua morte.

Villarejo, 67 anni, con oltre 40 anni di esperienza, ha dichiarato davanti ai giudici del Tribunale Penale Orale n. 3 di San Isidro che Maradona fu operato senza alcun esame preoperatorio, esclusivamente per volontà del suo medico di fiducia, il neurochirurgo Leopoldo Luque, nonostante non vi fosse, secondo i medici della clinica, alcuna urgenza immediata.

Trattamento per astinenza e decisione di sedazione

Tre giorni dopo l’intervento, Villarejo partecipò a un incontro con la famiglia e i medici curanti. Fu allora che Luque e la psichiatra Agustina Cosachov confermarono che l’obiettivo era trattare i sintomi di astinenza da sostanze e alcol.

«Maradona era ingestibile, difficile da trattare dal punto di vista comportamentale», ha riferito Villarejo, aggiungendo che Luque e Cosachov ordinarono di sedare il paziente, consapevoli dei rischi: depressione respiratoria, complicazioni infettive, cutanee e nutrizionali. La sedazione iniziò il 5 novembre e durò poco più di 24 ore, finché lo stesso Villarejo decise di ridurla, vista l’assenza di un piano preciso.

Il caos in terapia intensiva: “Potevano entrare con hamburger o medicine”

Il medico ha denunciato un clima caotico nel reparto: «Troppe persone in terapia intensiva, potevano portare hamburger o qualsiasi altra cosa. È stato vergognoso, scandaloso». Ha poi ammesso: «Mi dichiaro colpevole, ero una pedina su una scacchiera con un re e una regina», riferendosi al peso dell’ambiente vicino a Maradona.

Ricovero domiciliare e responsabilità

Villarejo ha raccontato che il ricovero presso la clinica non era più sostenibile. Fu deciso il trasferimento a casa, dove secondo l’ultima pagina della cartella clinica, fu la famiglia a chiedere l’assistenza domiciliare, sostenuta da Luque e Cosachov.

In aula ha testimoniato anche Nelsa Pérez, dipendente della società Medidom incaricata dell’assistenza a casa Maradona. Pérez ha ammesso che, secondo lei, in Argentina non esistono ricoveri domiciliari, ma che il termine viene usato per semplificazione. La testimone ha nominato Mariano Perroni come coordinatore dell’équipe, composta dagli infermieri Dahiana Madrid e Ricardo Almirón.

Tensione in aula: accuse di falsa testimonianza

Le affermazioni di Pérez hanno generato momenti di alta tensione in aula. Gli avvocati Fernando Burlando e Julio Rivas hanno chiesto la detenzione della testimone per falsa testimonianza, ma i giudici hanno rigettato la richiesta.

Nel corso del controinterrogatorio, Pérez ha confermato che non fu ordinato alcun monitoraggio dei parametri vitali, ma che veniva comunque effettuato dall’infermiera per scrupolo, a causa di precedenti episodi di tachicardia.

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Esercito libanese: smantellato il 90% delle strutture di Hezbollah nel sud Libano

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L’esercito libanese ha smantellato “oltre il 90 per cento” dell’infrastruttura militare del gruppo filo-iraniano Hezbollah nel Libano meridionale, vicino al confine con Israele, ha dichiarato un funzionario all’Afp. “Abbiamo completato lo smantellamento di oltre il 90 percento delle infrastrutture di Hezbollah a sud del fiume Litani”, ha dichiarato un funzionario della sicurezza, a condizione di mantenere l’anonimato. L’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah libanese prevede lo smantellamento delle infrastrutture di Hezbollah.

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Guterres ‘inorridito’ dagli attacchi in Darfur

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  Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, “è inorridito dalla situazione sempre più catastrofica nel Darfur settentrionale, mentre continuano gli attacchi mortali alla sua capitale, Al-Fashir”. Lo ha detto il portavoce del Palazzo di Vetro, Farhan Haq. La città nel Sudan occidentale è sotto assedio da parte delle Forze di Supporto Rapido paramilitari, guidate dal generale Mohamed Hamdan Daglo, che da due anni combattono contro l’esercito del generale Abdel Fattah al-Burhan. Il portavoce ha riferito che Guterres ha anche espresso preoccupazione per le segnalazioni di “molestie, intimidazioni e detenzione arbitraria di sfollati ai posti di blocco”. In questa situazione, l’entità dei bisogni è enorme, ha sottolineato Haq, citando le segnalazioni di “massacri” avvenuti negli ultimi giorni a Omdurman, nello stato di Khartoum.

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