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Navalny va in carcere e attacca Putin “l’avvelenatore”

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E alla fine, carcere. Alexey Navalny, il principe degli oppositori russi, ha sfidato Putin tornando in patria dopo essere stato avvelenato, a quanto pare dagli uomini dell’FSB, e ora ad attenderlo ci sono 2 anni e 8 mesi di colonia penale. Il giudice, infatti, ha accolto la richiesta del Servizio Penitenziario Federale, che lo ha accusato di aver violato i termini della liberta’ vigilata. “Questo processo e’ un teatrino e Putin passera’ alla storia come l’avvelenatore”, ha tuonato Navalny in aula in un breve discorso, a tratti drammatico. Il crociato anti-corruzione, calato in una felpa blu e pantaloni beige, ha deciso insomma di usare il palco del tribunale per lanciare un forte messaggio ai russi, piu’ che difendersi realmente dalle accuse. “Abbiamo dimostrato che e’ stato Putin a commettere l’attentato contro di me e questo lo fa impazzire. Sapete, un tempo c’era Alessandro il Liberatore o Yaroslav il Saggio. Noi avremo Vladimir l’Avvelenatore”, ha attaccato. Poi l’affondo. “Non e’ importante quello che accade a me. Imprigionarmi non e’ difficile. Cio’ che conta di piu’ e’ il motivo per cui questo sta accadendo. E sta accadendo per intimidire un gran numero di persone: vogliono imprigionare una persona per spaventarne milioni”. Il punto, dunque, e’ politico. Navalny non arretra e usa la sua condanna per inchiodare quello che considera un regime morente, fatto di miliardari che “si arricchiscono” e di gente normale “che vede crescere il prezzo del burro”. Fuori dall’aula, intanto, fioccano i fermi. Oltre 350, stando alla ong OVD-Info. A quanto pare anche di gente presa a casaccio. Una situazione surreale se paragonata all’aula di tribunale gremita di giornalisti e diplomatici stranieri. I numeri qui variano ma di certo si confermano i funzionari di Repubblica Ceca, Austria, Lituania, Norvegia, Svezia, Paesi Bassi, Stati Uniti, Canada, Germania, Svizzera, Gran Bretagna, Lettonia e Polonia nonche’ rappresentanti dell’UE. Una circostanza che ha fatto infuriare il ministero degli Esteri russo. “E’ un’ingerenza nei nostri fatti interni, sono li’ per mettere pressione alla corte?”, ha dichiarato furente la portavoce Maria Zakharova. A sostenere Navalny, oltre agli avvocati, c’era l’inseparabile Yulia. “Sei una ragazzaccia, ho visto che hai fatto in questi giorni… sono orgoglioso di te”, le ha detto dalla scatola di vetro in cui e’ stato rinchiuso per tutta la giornata. A tratti il Navalny-day ha poi assunto tratti comici. Come quando, a inizio udienza, il giudice ha chiesto chi stesse trasmettendo live dalla sala, e dato il silenzio di tomba dei giornalisti, Navalny ha urlato ‘io!’ dal gabbiotto, suscitando l’ilarita’ generale. Ancora. Nel momento in cui la corte ha annunciato due ore di stop tecnico – di fatto per il pranzo – sempre lui ha chiesto sornione: “Ordiniamo McDonald’s?”. E poi qualcuno dei suoi lo ha fatto davvero, salvo che il corriere non e’ stato fatto entrare nell’edificio. Ecco, questo e’ Navalny. Il Cremlino in giornata ha assicurato che Putin, dal canto suo, non avrebbe seguito il processo e ha lanciato un bel monito: che l’Unione europea “non commetta la sciocchezza” di collegare “le prospettive delle relazioni Russia-Ue a questo caso. E invece c’e’ un’alta probabilita’ che questo accada. L’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Josep Borrell, e’ atteso fra pochi giorni a Mosca e il suo staff ha chiarito che l’affare Navalny “sara’ un tema molto alto nell’agenda”. Non solo. Borrell ha gia’ detto che vuole incontrarlo ed e’ in contatto con il team dell’oppositore – ma il Cremlino gia’ ritiene “molto difficile” che l’incontro possa davvero avvenire. Ora la palla passa agli alleati di Navalny. Il Fondo Anti-Corruzione, dopo la sentenza, ha gia’ chiamato la gente a scendere in piazza a Mosca. “Il Paese e’ sprofondato nell’illegalita’, dobbiamo opporci”. Si annunciano giorni tesi.

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Esteri

Donald Trump si immagina Papa: provocazione, meme e lotte di potere nella Chiesa americana

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Un’immagine generata dall’intelligenza artificiale ritrae Donald Trump in abiti papali: tiara dorata, croce pettorale e sguardo trionfale. Il fotomontaggio non è rimasto confinato nei social più irriverenti, ma è stato rilanciato dallo stesso presidente degli Stati Uniti sul sito ufficiale della Casa Bianca. Un gesto che ha suscitato sconcerto e ironia, alimentando ancora una volta il culto dell’immagine di un leader che gioca con l’iconografia del potere assoluto, tra politica e religione.

In questo contesto, il senatore Lindsey Graham, da sempre fedele a Trump, si è spinto a dichiarare che non sarebbe da escludere l’ipotesi di un “Pontefice Donald I”, ipotizzando che concentrare in una sola figura la guida degli Stati Uniti e quella della Chiesa cattolica sarebbe «vantaggioso per il mondo». Uno scherzo di cattivo gusto? Probabile. Ma il messaggio è chiaro: Trump vuole restare al centro della scena, anche a costo di ridicolizzare simboli millenari.

Le ambizioni americane nel prossimo Conclave

Sebbene il gesto resti simbolico e provocatorio, rilancia l’attenzione sul peso crescente della Chiesa americana nel futuro del Vaticano. Gli Stati Uniti rappresentano il secondo blocco cardinalizio più numeroso dopo l’Italia, e i loro vescovi sono divisi tra una maggioranza conservatrice — guidata da figure come i cardinali Raymond Burke e Timothy Dolan — e una minoranza progressista rappresentata da Blase Cupich e Joseph Tobin.

Le tensioni si estendono anche ai nomi potenzialmente papabili: Kevin Farrell e Robert Prevost, pur considerati “mediatori”, portano con sé il fardello degli scandali e delle mancate vigilanze, specialmente nei casi di abusi. Dolan stesso, uomo vicino a Trump, appare ormai più come kingmaker che come candidato al soglio pontificio.

La Chiesa americana e lo spettro dello scisma conservatore

Il peso crescente dei conservatori americani nella Chiesa cattolica è legato anche a un progetto culturale e ideologico preciso: frenare o ribaltare le riforme di Papa Francesco, considerate troppo aperte al relativismo. Dalla liturgia in latino al rigido dogmatismo su sesso, matrimonio e sacerdozio, il cattolicesimo tradizionalista americano si fa sentire, sostenuto anche economicamente da think tank e fondazioni conservatrici.

Il momento simbolico di questa frattura fu il 26 agosto 2018, quando Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Usa, accusò Francesco di aver coperto abusi sessuali del cardinale McCarrick. Da lì, un tentativo di “golpe ecclesiastico” sostenuto anche da figure chiave del trumpismo come Steve Bannon, che continua a definire il Papa un “marxista illegittimo”.

Il peso politico di Vance e la reazione dei vescovi

A completare il quadro di tensione c’è JD Vance, vicepresidente Usa, cattolico convertito e oppositore dichiarato di Bergoglio. Francesco lo aveva inizialmente escluso da un incontro per ragioni di salute, poi ricevuto comunque — un gesto che ha preceduto di poche ore la morte del Pontefice. Vance si è dichiarato parte della “Chiesa della Resistenza”, la corrente ideologica interna alla Chiesa che si ispira alle posizioni di Viganò.

Le sue dichiarazioni, soprattutto quelle secondo cui i vescovi si opporrebbero alle deportazioni di massa solo per interesse economico, sono state definite “malvagie e volgari” proprio dal cardinale Dolan, da sempre vicino a Trump.

La Santa Sede osserva, mentre Trump gioca con il sacro

Il Vaticano non ha commentato ufficialmente l’ultima provocazione di Trump, ma è evidente che il clima tra Santa Sede e Washington resta teso. L’immagine papale del presidente è una metafora e una sfida, un gesto che, sotto la maschera del meme, rivela l’aspirazione profonda a un dominio culturale oltre che politico.

E mentre Trump indossa digitalmente l’abito del Papa, la Chiesa americana si avvicina al prossimo Conclave più spaccata che mai, pronta a pesare più delle altre nella scelta del successore di Pietro — ma anche a rischiare di spingere ancora più in là la frattura ecclesiale tra Nord e Sud del mondo, tra apertura e conservazione, tra sinodo e scisma.

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Il 9 maggio di Putin, vent’anni dopo: la parata della Vittoria tra retorica e potere globale

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Era il 2005 quando Vladimir Putin celebrava il 60° anniversario della vittoria contro il nazifascismo con i grandi della Terra al suo fianco: da George W. Bush a Jacques Chirac, da Hu Jintao a Silvio Berlusconi. Un tempo in cui la Russia sembrava al centro del mondo, non ai margini, come oggi. Quel 9 maggio segnò la nascita della parata militare che conosciamo, la prima grande cerimonia moderna che intrecciava memoria storica, potenza militare e ambizioni geopolitiche.

Da allora, la Festa della Vittoria è diventata il rito fondante dell’identità russa contemporanea, un momento in cui Mosca ribadisce il proprio posto nella storia e nella geopolitica. Un evento solenne, destinato a commemorare i milioni di morti della Grande Guerra Patriottica, ma anche a legittimare la visione politica di Putin sul presente e sul futuro della Russia.

Il culto della vittoria: da Breznev a Putin

Se oggi il 9 maggio è il simbolo della forza nazionale russa, non lo è sempre stato. Stalin scelse di sminuirlo per oscurare l’ascesa popolare del maresciallo Zhukov e per concentrare la sacralità del potere sul 7 novembre, anniversario della Rivoluzione. Solo con Breznev il 9 maggio tornò ad essere festa ogni cinque anni, trasformandosi però nel culto consolatorio della vittoria, utile a lenire il trauma collettivo della guerra.

Putin ha saputo farne un pilastro del suo potere personale, identificandosi con i valori eroici della resistenza sovietica per costruire una narrazione patriottica unificatrice. A partire dal 2005, il 9 maggio è diventato l’evento simbolico della Russia che resiste e trionfa.

L’ombra della guerra in Ucraina sulla celebrazione

Quest’anno, la parata sarà inevitabilmente segnata dal conflitto in Ucraina, che ha alterato l’immagine della Russia a livello globale. Durante una recente maratona educativa con i giovani, Putin ha parlato di “memoria storica come chiave per capire il presente”, unendo il ricordo della guerra del ‘45 con l’“Operazione militare speciale” in Ucraina. Ha invitato gli “eroi di oggi” a parlare con le nuove generazioni, per trasmettere i valori della “difesa della Patria”.

Xi Jinping torna a Mosca: segnale alla comunità internazionale

Mosca riceverà 19 leader stranieri, ma l’attenzione sarà tutta per uno: Xi Jinping. Il presidente cinese non partecipava alla Festa della Vittoria dal 2015. La sua presenza ha un significato geopolitico preciso: confermare che l’asse Mosca-Pechino è solido, nonostante l’attuale riavvicinamento tra la Russia e la nuova amministrazione americana guidata da Donald Trump. La collaborazione militare tra Russia e Cina resta avvolta dal riserbo, ma la postura multipolare auspicata dal Cremlino dal 2022 passa proprio da questa alleanza.

Il dilemma retorico: Putin parlerà ancora di antiamericanismo?

Negli ultimi anni, Putin ha fatto della retorica antioccidentale e antiamericana un marchio di fabbrica. Nel 2023 definì gli Stati Uniti «pronti a fare patti con il Diavolo pur di danneggiare la Russia». Ora, con un equilibrio globale più incerto e interlocutori ambigui, il leader russo dovrà decidere quale tono assumere il 9 maggio.

Da un lato vorrà mostrare forza e coesione interna; dall’altro dovrà misurare le parole per non compromettere i rapporti con i partner che, pur critici verso l’Occidente, non sposano fino in fondo il confronto armato.

Un messaggio al mondo: pace o sfida?

Il 9 maggio sarà anche un test per comprendere se Putin intende davvero aprire a una trattativa di pace o proseguire il conflitto. La presenza dei Brics, la postura di Pechino, l’assenza di Modi: tutti segnali da interpretare in chiave diplomatica.

Più che un semplice evento celebrativo, la parata sarà un barometro dello stato geopolitico della Russia, un’occasione per contare gli amici rimasti e per misurare il tono dello zar di fronte al mondo.

 

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Ucraina-Russia, scontro sul cessate il fuoco del 9 maggio: Zelensky rifiuta la tregua di Putin

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La celebrazione della “Grande Vittoria Patriottica” del 9 maggio, data simbolo per la Russia post-sovietica, diventa terreno di nuovo scontro tra Mosca e Kiev. Il Cremlino ha chiesto un cessate il fuoco di 72 ore, in coincidenza con l’ottantesimo anniversario della vittoria contro il nazifascismo, da commemorare con la tradizionale parata sulla Piazza Rossa.

Vladimir Putin, secondo fonti diplomatiche, teme un attacco ucraino con droni proprio durante la cerimonia, che sarebbe trasmessa in mondovisione. L’ipotesi di dover evacuare sotto minaccia, assieme ai leader stranieri presenti, rappresenterebbe per il leader russo una ferita simbolica e politica. Non solo alla sua immagine di potenza, ma anche al progetto ideologico di continuità storica tra l’URSS di allora e la Russia di oggi.

Zelensky rifiuta la proposta: “Non è una tregua, è propaganda”

La risposta di Volodymyr Zelensky non si è fatta attendere. Il presidente ucraino ha rifiutato la tregua selettiva proposta da Mosca, definendola strumentale: “Perché solo 72 ore a discrezione della Russia?”, ha chiesto. Zelensky ha ricordato che l’Ucraina ha già accettato la proposta americana per una tregua di un mese, in qualunque momento Mosca fosse davvero pronta a porre fine alla guerra.

Ma per Kiev, questa non è una vera proposta di pace: “Non vogliamo partecipare a un gioco che crea una piacevole atmosfera per consentire a Putin di uscire dall’isolamento il 9 maggio”. Anzi, Zelensky ha messo in guardia gli ospiti attesi a Mosca: “Non possiamo garantirvi la sicurezza. Meglio restare a casa”, ha detto ironicamente, ricordando che le sirene antiaeree in Ucraina continuano a suonare ogni notte.

Continuano i bombardamenti su Kherson e Kharkiv

Nel frattempo, sul terreno, la guerra non si ferma. A Kherson si contano nuovi morti e feriti, e a Kharkiv circa 50 persone sono rimaste ferite da un attacco di droni russi. I bombardamenti proseguono su tutta la linea del fronte, con un’intensità che smentisce nei fatti ogni reale volontà di tregua da parte russa.

Zelensky ha anche ipotizzato che Mosca possa inscenare un attacco fittizio durante la parata per addossarne la colpa a Kiev e giustificare un’escalation.

Il Cremlino risponde con minacce: “Kiev potrebbe non vedere l’alba”

La replica del Cremlino non si è fatta attendere. La portavoce Maria Zakharova ha accusato Zelensky di minacciare i leader mondiali intenzionati a partecipare alla cerimonia. Ma è stato il vicepresidente Dmitry Medvedev a lanciare la provocazione più dura: “Se ci sarà una provocazione ucraina il 9 maggio, Kiev potrebbe non vedere l’alba del 10”.

Parole che dimostrano quanto il confronto sia ancora incandescente, anche sul piano simbolico. Una tregua che doveva rappresentare una pausa umanitaria rischia così di diventare l’ennesimo casus belli. Il muro contro muro continua, con le armi ancora pronte a parlare.

 

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