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Cronache

Mafia, Claudio Fava chiede al ministro Bonafede di ripristinare 41bis a boss Aldo Ercolano

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Ripristinare il 41 bis al boss Aldo Ercolano, 59 anni, nipote ed ‘alter ego’ dello storico capomafia Benedetto Santapaola ritenuto la ‘mente pensante’ e la ‘mano economica’ di Cosa nostra a Catania. Lo chiede il presidente della Commissione regionale antimafia, Claudio Fava, in una lettera inviata al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede (nella foto in evidenza), dopo un’audizione nella prefettura di Catania. E’ il figlio del giornalista e scrittore Giuseppe, assassinato dalla mafia il 5 gennaio del 1984, a rilanciare l’allarme, come aveva fatto nel 2014 e nel 2015. E nella missiva, inviata per conoscenza anche al procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, parla di “fatto incongruo, preoccupante, non comprensibile” e quindi chiede un “intervento conseguente” dello Stato. “Sono 61 i detenuti del territorio catanese ristretti al 41 bis – scrive Fava – non pochi. Ma non vi figura piu’ Aldo Ercolano, nonostante sia considerato dall’autorita’ giudiziaria l’esponente apicale, assieme a Benedetto Santapaola, della famiglia criminale egemone di Cosa Nostra in questa parte della Sicilia”. Eppure, osserva Fava, in sede di audizione “tutti hanno messo in evidenza lo stridente contrasto tra l’intatta autorevolezza e la pericolosita’ criminale che viene a tutt’oggi riconosciuta a Ercolano e la revoca del 41 bis che lo ha restituito al circuito detentivo normale”. Per altro, osserva ancora Fava, “recenti indagini giudiziarie, e la testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia, hanno confermato la capacita’ di controllo e di comando che Ercolano, sia pur detenuto da molti anni, conserva pressoche’ intatta sugli affiliati del suo gruppo criminale” che raggruppa “oltre la meta’ di tutti gli affiliati a Cosa Nostra di Catania”. Aldo Ercolano, figura storica della mafia catanese, fu arrestato nel marzo del 1994 a Desenzano del Garda (Brescia) nel marzo del 1994, assieme a tre fiancheggiatori. Rientrava in Italia, sospettarono i carabinieri che lo catturarono, da un summit di Cosa nostra all’estero per stabilire le nuove strategie dopo le catture dei boss Benedetto Santapola e Giuseppe Pulvirenti. E’ definito da ‘pentiti’ come spietato e determinato sia nelle azioni criminali che nelle operazioni economiche. Recentemente il ‘sicario’ di Cosa nostra di Catania, Maurizio Avola, che si e’ autodenunciato di un centinaio di omicidi, lo ha accusato di avere avuto un ruolo, assieme al superlatitante Matteo Messina Denaro e ad altri capimafia siciliani, nell’uccisione del giudice Antonino Scopelliti, assassinato in Calabria il 9 agosto del 1991. Per questo reato e’ indagato dalla Dda della Procura di Reggio Calabria. Piu’ recentemente l’operazione Samael, secondo i carabinieri del Ros di Catania, evidenzia i rapporti attivi del boss ergastolano con esponenti di spicco di Cosa nostra, come suo cognato Giuseppe ‘Enzo’ Mangion, figlio del capomafia deceduto Francesco, e l’imprenditore Giuseppe Cesarotti. E’ quest’ultimo che afferma, intercettato, che “servono soldi anche per sostenere chi e’ ‘nell’altra vita’”, per la Dda di Catania il riferimento e’ a Benedetto Santapaola ed Aldo Ercolano.

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Liti e suore in fuga, il convento commissariato

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In fuga dal convento di clausura, per le “tensioni insopportabili” createsi nella comunità monastica e culminate con l’allontanamento della madre badessa. E’ la storia di cinque suore cistercensi del convento di San Giacomo di Veglia di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, che se ne sono andate sbattendo il portone per riparare in un altro luogo segreto, a causa delle vicissitudini che, a loro avviso, hanno minato il luogo di preghiera. Un monastero, per altro, ben conosciuto all’esterno: perchè le monache di San Giacomo di Veglia sono apprezzate produttrici di bottiglie di Prosecco Docg, fatto con le uve delle vigne del convento.

Tutto è uscito allo scoperto perché, per evitare si creassero allarmi sulla loro improvvisa ‘scomparsa’, le cinque si sono presentate alla caserma dei Carabinieri per avvisare della loro uscita e della necessità di “riparare in sicurezza” in un’altra località. Cosa che oggi ha trovato conferme in ambienti dell’Arma. Ma cosa è successo nel monastero? A parlare per ora, con il Gazzettino, è stata la più giovane delle monache, raccontando di “tensioni insopportabili”, e dell’arrivo di una Commissione ispettiva pontificia che ha portato all’allontanamento della badessa, madre Aline Pereira.

Proprio il forzato addio della superiora avrebbe generato una “forte pressione psicologica” nei confronti delle 5 consorelle, legate alla badessa. Pur nel riserbo dovuto alla vita conventuale, non risulterebbero però gravi ragioni sul piano penale o civile alla base del ‘divorzio’ del gruppo di suore da San Giacomo di Veglia. “Siamo dovute fuggire – ha raccontato la giovane monaca – perché il clima, da quando è arrivata la Commissione che ha allontanato suor Aline, è diventato insopportabile”. Alcune di loro risiedevano nel monastero da 25 anni. Avevano anche chiesto al loro Dicastero la dispensa dai voti e il permesso di rompere la clausura, ma hanno ottenuto un rifiuto.

“Hanno distrutto una situazione di pace che durava da mezzo secolo, ci siamo sentite soffocate” ha raccontato ancora la giovane monaca al Gazzettino. Ad ufficializzare il patatrac è stata la Diocesi di Vittorio Veneto che, pur non entrando nel merito della vicenda, ha reso nota la decisione del Dicastero per gli istituti di Vita consacrata e le società di vita apostolica: il monastero trevigiano è stato “commissariato” ed è stata nominata una Commissaria Pontificia (oltre a due consigliere), “che ha assunto tutte le competenze che la normativa dell’Istituto e quella universale della Chiesa attribuiscono alla Madre Abbadessa”. Le radici della storia parrebbero affondare in una querelle nata già nel gennaio 2023, quando dal convento partì una lettera di quattro monache indirizzata al Papa, con accuse nei confronti della madre badessa. Accuse che, due prime visite ispettive, aveva archiviato come “calunnie”.

(La foto non ha attinenza con l’articolo ed ha solo uno scopo illustrativo)

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Incidente sul Faito, Thaeb Suliman è sveglio: unico sopravvissuto migliora, resta in prognosi riservata

Thaeb Suliman, 23 anni, unico sopravvissuto all’incidente sul Monte Faito, è sveglio e in miglioramento. Resta in prognosi riservata, ma si valuta il trasferimento in ortopedia.

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Thaeb Suliman, il giovane di 23 anni unico sopravvissuto al tragico incidente avvenuto sul Monte Faito lo scorso 17 aprile, “è sveglio e collaborante”. A comunicarlo sono fonti dell’Azienda Sanitaria Locale Napoli 1, che seguono l’evoluzione clinica del paziente.

Le vittime dell’incidente e il quadro clinico

Nel drammatico schianto hanno perso la vita quattro persone. Suliman, unico superstite, è attualmente ricoverato presso l’Ospedale del Mare. Secondo quanto riferito, i suoi parametri respiratori sono stabili, e si registra un miglioramento generale delle sue condizioni. Tuttavia, la funzione renale è ancora compromessa: la diuresi è indotta e non sufficiente per interrompere la dialisi.

Possibile trasferimento in ortopedia

Il paziente è sottoposto a un continuo monitoraggio che nei prossimi giorni potrà consentire la sospensione della prognosi riservata e il trasferimento nel reparto di ortopedia. Una nota dell’ASL sottolinea la prudenza dei medici nel valutare l’evoluzione clinica, che resta complessa ma in miglioramento.

Il sostegno della famiglia

Thaeb Suliman riceve quotidianamente la visita del fratello, medico, ospite del Residence dell’Ospedale del Mare, a testimonianza di un importante supporto familiare in questa fase delicata del percorso di cura.

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Omicidio di Chiara Poggi, nuove testimonianze: “Potrebbero riscrivere la storia dello scontrino”

Il legale di Alberto Stasi, Antonio De Rensis, parla di una testimonianza che potrebbe cambiare la ricostruzione del delitto di Chiara Poggi. Interviene anche l’avvocato di Andrea Sempio.

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«Immagino che questa testimonianza già acquisita potrebbe riscrivere la storia dello scontrino della mattina del delitto, questa testimonianza potrebbe essere molto importante». Lo ha dichiarato Antonio De Rensis, avvocato di Alberto Stasi, in diretta a Ore 14, la trasmissione condotta da Milo Infante su Rai 2. Il legale è intervenuto commentando la notizia di una nuova persona ascoltata nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto a Garlasco il 13 agosto 2007.

Il ruolo della madre di Andrea Sempio

Il riferimento è alla convocazione in caserma, avvenuta lunedì scorso, di Daniela Ferrari, madre di Andrea Sempio. Poco prima che avesse un malore, la donna sarebbe stata informata della presenza di un nuovo testimone. «Vedremo cosa succederà – ha aggiunto De Rensis –. Per ora siamo di fronte a dichiarazioni personali che non hanno alcun riscontro, che possono essere vere o no, e che ci hanno descritto una mattinata, quella del delitto. Ora andremo a vedere se è vero quello che ci hanno raccontato».

“Forse altri finiranno nella scena del delitto”

Secondo De Rensis, i carabinieri disporrebbero di elementi non ancora noti: «Ritengo che abbiano molto ma molto di più di quanto possiamo immaginare al momento. Noi non abbiamo interesse a spostare dalla scena Stasi, ma forse altri, quelli che fanno le indagini, aggiungeranno altre persone e forse dopo tutto sarà più chiaro anche per quel che riguarda Alberto».

La replica dell’avvocato di Andrea Sempio

Durante la stessa puntata è intervenuto anche Massimo Lovati, legale di Andrea Sempio insieme all’avvocata Angela Taccia. Lovati ha preferito mantenere il massimo riserbo: «Non ho idea di cosa abbiano chiesto alla signora Ferrari, e neanche voglio saperlo. Le prossime mosse della difesa saranno di controbattere a tutte le richieste, non c’è più nessun tipo di collaborazione».

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