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Cultura

Gli “SplendOri” di Ercolano, città del lusso e del vino dell’antica Roma in mostra fino al 30 settembre del 2019

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Un ufficiale della Marina misenate. Aveva uno zainetto di cuoio al cui interno c’erano scalpelli e martello. Forse comandava una barca veloce e affusolata mandata da Plinio il Vecchio a Ercolano per salvare dall’eruzione vesuviana del 79 dopo Cristo l’amica Rettina, che gli aveva inviato una richiesta d’aiuto a Miseno, dove era acquartierata la flotta romana del Mediterraneo. L’ufficiale miscelate e l’equipaggio morirono sulla marina di Ercolano antica.
Dunque, secondo Francesco Sirano, direttore del parco archeologico di Ercolano, non erano di uno schiavo, bensì di un alto ufficiale della flotta misenate, quei resti umani trovati nel 1982 dagli studiosi, accanto alla barca, e con ancora addosso una cintura, un pugnale con elsa lavorata in osso e lama di ferro. Attaccata alla cintura, d’argento e finemente lavorata, l’uomo aveva un sacchetto di pelle con alcune monete d’oro; sul fianco sinistro dello scheletro si trovò anche il gladio con i segni del comando: borchie di bronzo simili a quelle della cintura e fodero di legno e cuoio.
Questo raccontano i centosettanta pezzi  in mostra da giovedì e sino al 30 settembre 2019 saranno visibili in “SplendOri. Il lusso negli ornamenti ad Ercolano”, la mostra che ha aperto i battenti nelle sale al piano terra dell’ Antiquarium del Parco. Una rassegna dove la parte del leone la fanno collane, bracciali e pietre preziose. “Con questa mostra” sottolinea Sirano “proponiamo una serie di materiali che don Amedeo Maiuri, il grande archeologo che tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del secolo scorso scavò l’ Ercolano sepolta dal Vesuvio nel 79 dopo Cristo, voleva esposti in maniera permanente e diamo la possibilità di vedere oggetti mai mostrati prima”.
Pezzi che raccontano tanto della vita comune quanto del lusso di una cittadina da sempre considerata quale luogo di vacanza per eccellenza, contrariamente alla vicina Pompei che veniva vista come importante centro di commerci e scambi con l’ entroterra. E invece, a Ercolano, c’ era tutta una società che si muoveva, trafficava, acquistava, vendeva, produceva. Anche vino. Forse quello stesso «vesvinum», vino vesuviano, tanto citato nei classici, che oltre che dagli appezzamenti della vicina Pompei veniva prodotto anche a Ercolano. Lo attestano numerose anfore con scritte in cui si cita appunto “Vino da Ercolano”.

L’anteprima. Il direttore del Parco Archeologico Francesco Sirano e il sindaco di Ercolano Ciro Buonaiuto

Un discorso a parte meritano le gioie trovate nei fornici sottostanti le terme, affaccianti proprio sulla sabbia della marina antica. Là, nel 1982 la caparbietà e l’ intuito dell’archeologo Peppino Maggi, che collegava il mancato ritrovamento di scheletri nella parte scavata della città con la possibilità che gli ercolanesi si fossero rifugiati sulla marina nel tentativo di prendere mare e mettersi in salvo, fecero ritrovare una vera e propria istantanea della tragedia: decine di scheletri fissati per sempre nell’ attimo della morte: la mamma che abbraccia il figlioletto; l’ amico che si stringe all’ amico; la donna che si copre il volto per difendersi dalla nuvola infuocata; la bocca spalancata dell’ uomo nell’ ultimo istante di vita. E, su quei resti si trovarono gioielli.
La mostra, che per il sindaco Ciro Buonajuto «è un risultato importante per una città che su cultura e turismo intende puntare per sviluppare il proprio futuro», si propone appunto di presentare al visitatore oltre a monili d’ oro e agli oggetti preziosi anche manufatti di uso quotidiano che appaiono non comuni per fattura e materiale. Come la cassetta del chirurgo con gli specilli e la pietra per affilare il bisturi. O, ancora, quel porta lucerne che si stava restaurando, perché aveva un braccio spezzato, trovato nella bottega del plumbarius, lo stagnino. E poi c’ è il gran numero di gemme che sono state trovate nella bottega del gemmarius, l’ orefice, che produceva gioielli straordinari per le matrone ercolanesi; e il magnifico e ricco servizio da mensa in argento trovato nelle scavo di Moregine, una decina di anni fa.

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Cultura

Antonio Nocera presenta “Xenia” all’Hotel Sina Bernini Bristol di Roma: un’opera che celebra accoglienza e trasformazione

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L’artista napoletano Antonio Nocera ha recentemente svelato la sua nuova opera d’arte, intitolata “Xenia”, un’installazione site-specific situata nella hall dell’iconico Sina Bernini Bristol di Roma, un simbolo dell’hotellerie di lusso da 150 anni. Commissionata da Bernabò e Matilde Bocca, presidente e vicepresidente del gruppo Sina Hotels, l’opera interpreta con sensibilità il tema dell’accoglienza, valore che caratterizza la storia della famiglia Bocca da tre generazioni.

L’opera “Xenia”: simboli di ospitalità e trasformazione

Realizzata in bronzo e tecniche miste su legno e plexiglass, l’opera “Xenia” fonde materiali e simboli profondi: le farfalle, che rappresentano la libertà e la trasformazione spirituale; le conchiglie, emblema della casa e simbolo del gruppo Sina Hotels; e la figura femminile, richiamando l’importanza ancestrale delle donne. Il nome “Xenia”, derivato dall’antica Grecia, esprime il concetto di ospitalità sacra, in cui l’accoglienza era considerata un atto sacro poiché si credeva che gli ospiti potessero celare entità divine.

Un dialogo tra arte e spazio

L’opera, presentata all’interno di una struttura che ha recentemente subito una ristrutturazione nel 2021 ed è entrata nella Autograph Collection, si armonizza con i dettagli d’arredo realizzati su misura. Oltre a “Xenia”, i visitatori possono ammirare anche l’affresco “The Birth of Baroque” di Adalberto Migliorati, che celebra i capolavori del celebre artista Gian Lorenzo Bernini.

Progetti futuri

Durante l’evento di presentazione, Antonio Nocera ha rivelato di essere già al lavoro su una nuova serie di dipinti che saranno esposti al Sina Villa Medici di Firenze, sottolineando il legame speciale che ha con la città.

Questa opera non solo arricchisce l’esperienza dei visitatori dell’hotel, ma offre anche una web-app gratuita per esplorare i cenni storici legati a Bernini e un itinerario virtuale per visitare le opere d’arte dal vivo, unendo tradizione e innovazione tecnologica.

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Cultura

Il Mitreo di Santa Maria Capua Vetere: un gioiello archeologico del culto di Mitra

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Il Mitreo di Santa Maria Capua Vetere, scoperto nel 1922, è uno dei più importanti templi dedicati al culto di Mitra in tutto il mondo. Situato vicino all’Anfiteatro Campano e al Museo Archeologico dell’antica Capua, rappresenta una testimonianza unica del mitraismo, un culto misterico molto diffuso durante l’Impero Romano.

La diffusione del culto di Mitra a Capua

Il culto di Mitra giunse a Capua durante il II secolo d.C., probabilmente portato dai gladiatori orientali che praticavano il mitraismo. Questo culto, di origine persiana, si era diffuso in tutto l’Impero grazie ai soldati romani stanziati nelle province orientali. Capua, con la sua vivace comunità gladiatoria, divenne un importante centro per il mitraismo, grazie anche alla presenza dell’Anfiteatro Campano, uno dei più grandi dell’epoca.

La struttura del Mitreo

Il Mitreo si trova in una struttura sotterranea, tipica dei templi mitraici, accessibile tramite una rampa di scale. La sala principale, lunga circa 12 metri, ha una volta a botte e lungo le pareti laterali sono presenti i posti a sedere per gli adepti. Il cuore del tempio è la raffigurazione della Tauroctonia, un affresco in cui Mitra viene rappresentato nell’atto di sacrificare un toro, simbolo di rigenerazione e fertilità.

Il simbolismo della Tauroctonia

La Tauroctonia è il simbolo centrale del culto mitraico. Nell’affresco, Mitra, vestito con un mantello svolazzante e il tipico berretto frigio, uccide un toro sacro con un pugnale. Intorno a lui sono rappresentati diversi elementi simbolici: il Sole, che osserva la scena, e i Dadofori, Cautes e Cautopates, che simboleggiano il ciclo del giorno e della notte. La scena è completata da animali come il cane, lo scorpione e il serpente, che aiutano Mitra nella sua impresa.

Funzione del Mitreo e i riti misterici

Il Mitreo era il luogo dove si svolgevano i riti misterici legati al culto di Mitra. Solo gli uomini potevano partecipare a queste cerimonie, che prevedevano un’iniziazione articolata in sette fasi. L’atmosfera del tempio, con la sua volta stellata e i lucernari che lasciavano filtrare la luce, creava un ambiente mistico che richiamava la grotta in cui, secondo il mito, Mitra aveva ucciso il toro.

Il declino del Mitraismo

Il Mitraismo raggiunse il suo apice tra il II e il IV secolo d.C., ma iniziò a declinare con l’avvento del Cristianesimo. Sebbene fosse un culto molto diffuso tra i soldati romani e le classi popolari, non riuscì a competere con la crescita del Cristianesimo, e fu definitivamente soppresso con l’imperatore Teodosio nel 394 d.C. Oggi, il Mitreo di Santa Maria Capua Vetere rimane uno dei templi meglio conservati, offrendo una finestra unica su questo antico culto.

Importanza archeologica e turistica

Dal 2014, il Mitreo, insieme all’Anfiteatro Campano e al Museo Archeologico dell’antica Capua, è gestito dal Polo Museale della Campania, attirando visitatori e studiosi da tutto il mondo. La sua rilevanza storica e culturale lo rende una tappa imperdibile per chi vuole esplorare le radici del Mitraismo in Italia.

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Cultura

La scena techno napoletana in lutto: addio a Rino Cerrone, maestro e pioniere della musica elettronica

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Il mondo della techno napoletana ha perso uno dei suoi padri fondatori, Rino Cerrone (nella foto a sx assieme a Capriati) , scomparso all’età di 52 anni. Il celebre produttore e DJ, considerato una leggenda nel panorama internazionale del nightclubbing, ha lasciato un segno indelebile nella scena musicale. Joseph Capriati, uno dei suoi più noti discepoli, ha espresso il proprio dolore sui social, ricordando Cerrone come un maestro e un amico, capace di supportarlo nei momenti difficili e di insegnargli tutto sulla musica.

L’eredità musicale di Rino Cerrone

Cerrone, nato nel 1972, ha influenzato generazioni di DJ, tra cui Marco Carola, Danilo Vigorito, Markantonio e lo stesso Capriati. Insieme, questi artisti hanno proiettato la scena techno napoletana sul palcoscenico internazionale. I set di Cerrone erano caratterizzati da una fusione unica di techno e progressive, con sonorità che mescolavano la precisione della techno tedesca, la magniloquenza di quella svedese e l’energia del rave londinese. Il suo stile, pur complesso, aveva radici profonde nella cultura partenopea, con un approccio che riusciva a fondere ritmi serrati ed eleganza.

Una carriera globale, ma con il cuore a Napoli

Durante la sua carriera, Cerrone ha girato il mondo, suonando a Berlino, Amsterdam, Giappone e Sudamerica. Nonostante il suo successo internazionale, ha sempre mantenuto un legame speciale con Napoli, partecipando regolarmente a eventi locali. La sua techno era apprezzata per la sua raffinatezza e la capacità di coinvolgere il pubblico con un ritmo travolgente e una tecnica impeccabile, come dimostrato dai suoi set con tre piatti che sfumavano i confini tra i generi.

Il rapporto speciale con Joseph Capriati

Il legame tra Joseph Capriati e Cerrone era quello di un fratello maggiore e maestro. Capriati ha ricordato come da giovane lo considerasse un idolo, aspettando ore solo per assistere alle sue performance all’Old River. Il loro legame si è trasformato in una profonda amicizia, con Cerrone sempre pronto a offrire supporto e consigli, tanto da diventare una figura di riferimento nella vita e nella carriera di Capriati.

Il lutto nella club culture

La scomparsa di Cerrone ha lasciato un vuoto enorme nella scena della club culture. Mentre il dolore è palpabile tra i colleghi e fan, il ricordo della sua musica e della sua persona continuerà a vivere, come desiderava lo stesso Cerrone. Nonostante la tristezza, è probabile che i fan lo onoreranno facendo ciò che lui amava di più: ballare.

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