Emilia Bersabea Cirillo ritorna sul tema narrativo degli esordi: quello della delinquenza ambientale, che concepisce sempre più come una tragedia civile, qualcosa che dovrebbe essere non solo giudicata dai tribunali ordinari, ma portata innanzi al Tribunale Penale Internazionale e classificata come un crimine contro l’umanità. Ho cnosciuto l’A. con “Una terra spaccata”, un thrillerambientale, se posso dire, e insieme un atto d’amore per la sua terra irpina. Devastata nella sua natura da appetiti famelici, voglie inconfessabili ma di tutta evidenza. Qui viene riproposta la combinazione, cara all’A., di cinismo e sentimento su cui si costruisce il pathos della storia, a partire da un fatto vero, una realtà raccapricciante. Con l’aggiunta di due ingredienti che testimoniano la coerenza dell’impegno di una vita e, di nuovo, la capacità di cogliere ciò che cambia, la mimesi del male nello spregio per l’abitare umano, la violenza contro le collettività insediate. Stiamo parlando di una congiunzione alla quale Emilia Cirillo non saprebbe rinunciare: da un lato, il senso civico, ostinato ma esibito senza ammiccamenti; e dall’altro lato, la pietas per la quotidianità della gente ignara e vilipesa, che affida ad istituzioni percolanti, franose, inquinate, la sua protezione e la sua sicurezza.
Siamo ad Avellino, dentro ma proprio dentro un fatto di dura cronaca. Le Ferrovie si affidano a una ditta, la Newchemistry (in realtà si tratta dell’Isochimica), diciamo, specializzata, ma selezionata non si sa veramente come, per effettuare la bonifica del suo materiale rotabile, le sue carrozze stragonfie di amianto. Le sue carrozze, sì, in cui tutti noi, oltretutto, abbiamo una volta o l’altra viaggiato. Quali misure vengono prese per proteggere gli operai reclutati in fretta e furia dalla fabbrica, quali protocolli vengono assunti per scoibentare l’amiantoe stoccarlo? La risposta è inverosimile: nessuna precauzione. Il do ut des è tanto banale quanto brutale: malattie asbesto-correlate contro lavoro in una terra di disoccupazione endemica, martoriata dal terremoto e intrappolata nel mito della ripresa post-sismica. Uno stipendio a fine mese, contro la morte: è questa la vile transazione, il ricatto ributtante che tuttavia nessuno denuncia veramente. Gli operai si ammalano e muoiono, infatti. L’amianto, che diventa una polverina azzurra, viene ammassato e lasciato sul piazzale della fabbrica, ormai dismessa e abbandonata all’incuria, al tempo che passa, al mutare delle stagioni. Finché una “tempesta perfetta” di vento e di pioggia si abbatte un giorno sulla città, e solleva la polvere, avvolgendo case e palazzi in una spaventosa bruma “azzurro amianto”. In questa foschia innaturale, finalmente, la popolazione prende coscienza dell’orrore al quale è stata esposta, la politica fa qualche conto con se stessa. La giustizia infligge qualche pena pecuniaria: 50.000€ per ognuno dei 33 operai morti, una valutazione doppiamente al ribasso, per risarcimento stabilito e numero di vittime riconosciuto. La legge commina qualche pena carceraria: 4 condanne a 10 anni contro 22 assoluzioni.
I dati di realtà di cui abbiamo sinora parlato, si incentrano su Beatrice, personaggio femminile di grande complessità, che proprio attraverso la feroce vicenda dell’amianto, si può dire, comincia a tirare le fila di una irrisolta vita di cinquantenne. Tornata ad Avellino da Firenze, dove era “scappata” in gioventù, Beatrice si trova ad aiutare due donne che accumulano dolore e disperazione attorno all’amianto: a una delle sue vittime, per meglio dire, autore di un drammatico diario. Questa esperienza la mette in grado di trasformare in consapevolezza civile quell’aiuto di facciata che una sussiegosa filantropia di provincia si limitava a chiederle. In questa prospettiva di sentimenti nuovi, si inseriscono sia l’innamoramento per Renato, vecchio operaio della fabbrica mortifera ora impegnato nella difesa dei diritti alla salute individuale ecollettiva, e sia il lento, disperante ma non disperato itinerario di recupero di Bianca, la figlia che, vittima di una malattia neurologica, la rifiuta.
Ben consapevole che le ragioni del mondo corrono verso l’autodistruzione, Emilia Cirillo lascia all’emozionalità il filo di speranza per immaginare quel domani di cui abbiamo bisogno per vivere. La sua scrittura dimessa, non prevarica i personaggi, non pre-forma gli eventi. Ti accompagna registrando ogni asprezza del cammino della terra, anche quella natale, offrendoti un’ostinata determinazione a comprendere, senza per questo necessariamente accettare.