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Cronache

Vannacci sospeso 11 mesi. Alta tensione Salvini-Crosetto

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Prima l’inchiesta per le spese a Mosca della procura militare, poi quella dei pm di piazzale Clodio per istigazione all’odio per le frasi contenute nel libro e ora undici mesi di sospensione dal servizio per il generale dell’Esercito, Roberto Vannacci, con dimezzamento dello stipendio e detrazione di anzianità. Il provvedimento disciplinare è stato disposto dal ministero della Difesa dopo una inchiesta svolta sulle affermazioni contenute nel libro, diventato una caso editoriale, “Il mondo al contrario”. Un provvedimento, quest’ultimo, che ha scatenato l’ennesima reazione stizzita di Matteo Salvini e un violento botta e risposta tra il leader della Lega, nonché ministro delle Infrastrutture, e il capo del dicastero della Difesa, Guido Crosetto.

Il numero uno del Carroccio non ha usato giri di parole affermando che “siamo al ridicolo” con “una inchiesta al giorno: quanta paura fa il generale? Viva la libertà di pensiero e di parola, viva le Forze Armate e le Forze dell’Ordine”. Parole a cui risponde Crosetto spiegando che la decisione presa dal dicastero è il frutto di un procedimento partito “mesi fa”. Una attività che avviene “in modo automatico – afferma il ministro della Difesa – e che sono totalmente esterni dall’input dell’autorità politica perché partono da un’autorità tecnica. Per quanto mi riguarda tra un po’ finirò le guance da porgere”.

L’inchiesta formale disciplinare, disposta dal ministro Crosetto lo scorso primo dicembre, si è conclusa il 15 febbraio e la sospensione è stata poi notificata il 27: “una relazione ha stabilito la fondatezza degli addebiti – spiegano da via XX settembre – ed è stata inviata al ministro che dopo un ulteriore vaglio del suo staff, basato su quanto stabilito dal quadro normativo, ha decretato la sanzione del militare”. Sanzioni che, viene aggiunto, “non compromettono in alcun modo i diritti civili e politici del militare sanzionato, compresa l’eventuale candidatura per le consultazioni elettorali di qualsiasi tipo”. Nel provvedimento si fa diretto riferimento alle circostanze che hanno portato il generale a pubblicare il volume.

Una iniziativa che ha denotato, secondo la Difesa, “carenza del senso di responsabilità” e determinato una “lesione al principio di neutralità/terzietà della Forza armata” portando a “compromettere il prestigio e la reputazione dell’Amministrazione di appartenenza e ingenerando possibili effetti emulativi dirompenti e divisivi nell’ambito della compagine militare”. Dal canto suo il generale tira dritto affermando che continuerà ad “andare avanti e a rivendicare la libertà di espressione”. Quanto alla possibile ‘discesa in campo’ nelle fila della Lega, invece, resta ancora vago, aggiungendo che “in undici mesi c’è il tempo per riflettere su tante cose e anche su quella dell’invito alla candidatura offerto dalla Lega che, l’ho già detto, sto valutando.

Ma al momento non sciolgo la riserva”. Il provvedimento di sospensione, contro il quale Vannacci farà ricorso al Tar, finirà negli atti dell’indagine della Procura di Roma in cui il generale è indagato per istigazione all’odio razziale. Gli inquirenti, coordinati dal sostituto procuratore Erminio Amelio, acquisiranno anche il libro oggetto del procedimento. Sotto la lente degli investigatori sono finite una serie di affermazioni presenti nel libro autoprodotto e diventato, di fatto, un caso, con 200 mila copie vendute. Nelle denunce si fa riferimento ad alcuni passaggi del libro e in particolare quelli in cui Vannacci definisce “non normali” gli omosessuali o quando cita un episodio vissuto a Parigi in cui fa riferimento a persone di colore.

Lo strascico giudiziario legato al libro che lo ha reso famoso non è l’unico a cui Vannacci dovrà fare fronte. La Procura militare e quella ordinaria hanno acceso un faro sulle sue presunte ‘spese pazze’ fatte quando era addetto militare italiano a Mosca. L’attività di indagine riguarda l’indennità di servizio per i familiari percepite illecitamente (perché moglie e figlie non sarebbero state a Mosca nel periodo considerato), una spesa di 9mila euro legata all’auto di servizio che non sarebbe stata autorizzata, rimborsi per l’organizzazione di eventi e cene che in realtà non si sarebbero svolti. Il periodo preso in esame dagli ispettori ministeriali è quello compreso tra il febbraio del 2021 ed il maggio del 2022.

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Magnate asiatico Kwong, mai pagato o conosciuto Boraso

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Il magnate singaporiano Ching Chiat Kwong si chiama ‘fuori’ dalle accuse che lo inseriscono nell’inchiesta di Venezia, sostenendo di non aver “mai pagato, ne’ conosciuto” l’assessore Renato Boraso, in carcere per corruzione. Kwong, indagato dai pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini, ha fatto conoscere la sua posizione attraverso il proprio difensore, l’avvocato Guido Simonetti. Nelle carte dell’accusa il miliardario asiatico è chiamato in causa – per l’acquisto dei due palazzi veneziani Donà e Papadopoli, e per la trattativa sui ‘Pili’ – assieme a Luois Lotti, suo plenipotenziario in Italia, e Claudio Vanin, imprenditore prima con loro in affari, ora ingaggiato in una dura lotta legale con Lotti.. A Venezia c’è intanto attesa per capire quali saranno le mosse del sindaco Luigi Brugnaro, a sua volta indagato, che pressato dei partiti della sua maggioranza – in particolare Fdi – ha deciso di anticipare al 2 agosto (prima era il 9 settembre) la data del chiarimento in Consiglio Comunale. Brugnaro continua a lavorare, e non ha intenzione di presentarsi dimissionario.

E se può essere suggestivo accostarvi oggi le dimissioni di Giovanni Toti, suo ex compagno di avventura in ‘Coraggio Italia’, da ambienti vicini a Ca’ Farsetti si fa notare come le due vicende siano “completamente diverse”. Brugnaro è indagato per concorso in corruzione con i due dirigenti dell’ufficio di gabinetto Morris Ceron e Derek Donadini. Quando scoppiò l’inchiesta il Procuratore Bruno Cherchi aveva sottolineato che l’iscrizione del sindaco nel registro era stata fatta solo “a sua tutela”. I chiarimenti veri, tuttavia, non saranno possibili fino a quando i nomi di peso finiti nell’inchiesta non decideranno di presentarsi davanti ai magistrati. Oggi intanto ha provato a chiarire la propria posizione l’uomo d’affari singaporiano “Ching Chiat Kwong – ha dichiarato l’avvocato Simonetti – “non ha mai disposto né effettuato (neppure tramite persone terze) il pagamento di una somma nei confronti dell’assessore Renato Boraso”.

Inoltre “non ha mai neppure conosciuto l’assessore Renato Boraso”. E sulle due operazioni portate a termine da Kwong a Venezia, viene sottolineato che i due edifici citati nell’inchiesta, palazzo Donà e palazzo Papadopoli, “sono stati acquistati attraverso una procedura ad evidenza pubblica e a prezzi in linea (se non superiori) al loro valore di mercato”. Nelle carte dell’inchiesta, l’accusa sottolinea tuttavia che proprio per far abbassare il valore di acquisto di palazzo Papadopoli, da 14 mln a 10,7 mln, Boraso avrebbe ricevuto da Kwong “”per il tramite dei suo collaboratori”, la somma di 73.200 euro, attraverso due fatture da 30.000 euro più Iva, emesse da una società dell’assessore, la Stella Consuting, per una consulenza “in realtà mai conferita, ne’ eseguita”. Quanto all’affare, poi sfumato, dei Pili, l’avvocato di Kwong evidenzia “come la trattativai non si sia in alcun modo mai concretizzata, fermandosi ad uno stadio del tutto embrionale”.

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‘Sgomberate la Vela’, l’ordinanza del 2015 mai eseguita

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Un’ordinanza datata ottobre 2015 metteva in guardia dal pericolo crolli: la Vela Celeste va sgomberata, il succo di una relazione del Comune di Napoli messa nero su bianco. La firma in calce è quella del sindaco dell’epoca, Luigi de Magistris. Un sos che non troverà mai seguito e di cui oggi la città piange le conseguenze dopo il crollo del ballatoio-passerella che lunedì sera ha determinato la morte di tre persone e il ferimento di altre dodici. Dunque, non solo il documento datato 2016 che denunciava la mancata manutenzione dei ballatoi della Vela Celeste di Scampia con relativo rischio crollo, dal passato emerge anche un’altra carta che chiama in causa l’immobilismo delle istituzioni. Perché quell’ordinanza di sgombero coatto non è mai stata presa in considerazione?

E perché si è preferito agire con degli accorgimenti che sanno di palliativo piuttosto che affrontare di petto l’emergenza segnalata da quel documento pubblicato sull’albo pretorio del Comune? Domande in attesa di risposta e sulle quali la procura di Napoli – che ha aperto un’indagine contro ignoti per crollo colposo e omicidio colposo – intende fare chiarezza. L’ordinanza firmata de Magistris – è quanto emerge – era dettata dalla necessità di tutelare l’incolumità di 159 famiglie per un totale di 600 persone residenti nella Vela Celeste. Alla base del provvedimento c’era la relazione di un dirigente comunale che delineava un quadro di pericolo allarmante. Anche la politica chiede di fare chiarezza.

A partire dalla segretaria del Pd Elly Schlein che ne ha parlato al festival di Giffoni: “È un tragedia drammatica – ha detto -. Abbiamo immediatamente espresso tutta la nostra vicinanza alle persone, alle famiglie, al quartiere colpito. C’è da fare luce su quello che è accaduto perché non può succedere una cosa del genere”. Fare luce è quello che intende fare la Procura di Napoli che ha disposto l’ampliamento dell’area sottoposta a sequestro, dal terzo piano fino al piano terra. Le verifiche stanno riguardando anche le posizioni dei residenti nella Vela “incriminata” che, in gran parte, secondo quanto si apprende da fonti qualificate, risulterebbero abusivi. E intanto si sta rivelando più difficoltosa del previsto l’acquisizione della copiosa documentazione amministrativa sulla Vela Celeste. Si tratta in particolare degli atti relativi al progetto di riqualificazione ReStart e alla manutenzione del complesso di edilizia popolare con relative negligenze che oramai sono date per scontate. Fondamentali saranno per gli inquirenti le risultanze del lavoro affidato al perito, un ingegnere strutturista forense. Conferito, infine, l’incarico per gli esami autoptici sui corpi delle tre vittime.

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Rifiuta nutrizione artificiale,”ok a suicidio assistito”

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Si è sbloccato l’iter per l’accesso al suicidio medicalmente assistito della 54enne toscana, completamente paralizzata a causa di una sclerosi multipla progressiva, che aveva rifiutato la nutrizione artificiale: la Asl Toscana nord ovest ha dato parere favorevole. “E’ la prima applicazione della nuova sentenza della Consulta che ha esteso il concetto di ‘trattamento di sostegno vitale'”, afferma l’associazione Luca Coscioni a cui si era rivolta tempo fa la donna e che ne aveva reso noto il caso un mese fa. L’Azienda sanitaria, spiega oggi l’associazione, “ha comunicato il suo parere favorevole: la donna possiede tutti e 4 i requisiti previsti dalla sentenza 242/2019 (Cappato/Dj Fabo) per poter accedere legalmente al suicidio medicalmente assistito in Italia. Da oggi se confermerà la sua volontà, potrà procedere a porre fine alle sue sofferenze. La Commissione medica della azienda sanitaria ora aspetta di sapere le modalità di esecuzione e il medico scelto dalla donna, in modo da assicurare ‘il rispetto della dignità della persona’”. La donna aveva inviato la richiesta di verifica delle sue condizioni il 20 marzo e a causa del diniego opposto aveva diffidato l’Asl, il successivo 29 giugno, alla revisione della relazione finale con particolare riferimento alla sussistenza del requisito del trattamento di sostegno vitale, essendo totalmente dipendente dall’assistenza di terze persone e avendo rifiutato la nutrizione artificiale con la Peg ritenendola un accanimento terapeutico.

Ora la revisione del parere della Asl “è avvenuta – rileva l’associazione – alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale 135 del 2024 che ha esteso l’interpretazione del concetto di ‘trattamento di sostegno vitale'”: fino a quest’ultima sentenza l’Azienda sanitaria “non riconosceva la presenza di questo requisito, in quanto equiparava il rifiuto della nutrizione artificiale all’assenza del ‘trattamento di sostegno vitale'”. I giudici della Consulta però “hanno chiarito che ‘non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali'”. “È la prima applicazione diretta della sentenza 135” della Consulta “che interpreta in modo estensivo e non discriminatorio il requisito del trattamento di sostegno vitale – dichiara l’avvocato Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’associazione Coscioni, difensore e coordinatrice del collegio legale della 54enne -. La signora dopo mesi di attesa e sofferenze, con il rischio di morire in modo atroce per soffocamento anche solo bevendo, potrà decidere con il medico di fiducia quando procedere, comunicando all’Azienda sanitaria tempi e modalità di autosomministrazione del farmaco al fine di ricevere assistenza e quanto necessario. Le decisioni della Consulta, che hanno valore di legge, colmano il vuoto in materia dettando le procedure da seguire per chi vuole procedere con il suicidio medicalmente assistito”.

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