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Elezioni in Israele, Netanyahu: occorre governo stabile sionista

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La tv commerciale israeliana Canale 13 ha diffuso un exit poll affinato, in base al quale la coalizione di centrosinistra guidata da Blu Bianco di Benny Gantz sarebbe a 59 seggi contro i 53 del blocco di destra di Benjamin Netanyahu. Confermati dallo stesso exit poll i 15 seggi alla Lista araba unita. Per avere la maggioranza alla Knesset occorrono almeno 61 seggi su 120. Dunque solo un governo di coalizione con l’appoggio degli arabi sarebbe possibile. I leader dei due partiti si sarebbe anche sentiti al telefono ma è poco probabile un accordo per formare un governo. Il partito di Benjamin Netanyahu se ne avvantaggerebbe troppo in termini di propaganda di un governo non sionista.  “Israele ha bisogno di un governo stabile, forte e sionista. Cercheremo di formare nei prossimi giorni un governo sionista che veda Israele come uno stato ebraico e non un governo che si basi sul sostegno di partiti arabi” ha già detto  il premier uscente Benjamin Netanyahu nel suo primo discorso dopo gli exit poll e in attesa dei dati definiti delle elezioni. “Ho parlato con i partner del Likud – ha aggiunto – e tutti sono impegnati in questo obiettivo. E’ stata una campagna dura nella quale ci siamo misurati con media prevenuti, non ci hanno fermato”.

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Donald Trump si immagina Papa: provocazione, meme e lotte di potere nella Chiesa americana

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Un’immagine generata dall’intelligenza artificiale ritrae Donald Trump in abiti papali: tiara dorata, croce pettorale e sguardo trionfale. Il fotomontaggio non è rimasto confinato nei social più irriverenti, ma è stato rilanciato dallo stesso presidente degli Stati Uniti sul sito ufficiale della Casa Bianca. Un gesto che ha suscitato sconcerto e ironia, alimentando ancora una volta il culto dell’immagine di un leader che gioca con l’iconografia del potere assoluto, tra politica e religione.

In questo contesto, il senatore Lindsey Graham, da sempre fedele a Trump, si è spinto a dichiarare che non sarebbe da escludere l’ipotesi di un “Pontefice Donald I”, ipotizzando che concentrare in una sola figura la guida degli Stati Uniti e quella della Chiesa cattolica sarebbe «vantaggioso per il mondo». Uno scherzo di cattivo gusto? Probabile. Ma il messaggio è chiaro: Trump vuole restare al centro della scena, anche a costo di ridicolizzare simboli millenari.

Le ambizioni americane nel prossimo Conclave

Sebbene il gesto resti simbolico e provocatorio, rilancia l’attenzione sul peso crescente della Chiesa americana nel futuro del Vaticano. Gli Stati Uniti rappresentano il secondo blocco cardinalizio più numeroso dopo l’Italia, e i loro vescovi sono divisi tra una maggioranza conservatrice — guidata da figure come i cardinali Raymond Burke e Timothy Dolan — e una minoranza progressista rappresentata da Blase Cupich e Joseph Tobin.

Le tensioni si estendono anche ai nomi potenzialmente papabili: Kevin Farrell e Robert Prevost, pur considerati “mediatori”, portano con sé il fardello degli scandali e delle mancate vigilanze, specialmente nei casi di abusi. Dolan stesso, uomo vicino a Trump, appare ormai più come kingmaker che come candidato al soglio pontificio.

La Chiesa americana e lo spettro dello scisma conservatore

Il peso crescente dei conservatori americani nella Chiesa cattolica è legato anche a un progetto culturale e ideologico preciso: frenare o ribaltare le riforme di Papa Francesco, considerate troppo aperte al relativismo. Dalla liturgia in latino al rigido dogmatismo su sesso, matrimonio e sacerdozio, il cattolicesimo tradizionalista americano si fa sentire, sostenuto anche economicamente da think tank e fondazioni conservatrici.

Il momento simbolico di questa frattura fu il 26 agosto 2018, quando Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Usa, accusò Francesco di aver coperto abusi sessuali del cardinale McCarrick. Da lì, un tentativo di “golpe ecclesiastico” sostenuto anche da figure chiave del trumpismo come Steve Bannon, che continua a definire il Papa un “marxista illegittimo”.

Il peso politico di Vance e la reazione dei vescovi

A completare il quadro di tensione c’è JD Vance, vicepresidente Usa, cattolico convertito e oppositore dichiarato di Bergoglio. Francesco lo aveva inizialmente escluso da un incontro per ragioni di salute, poi ricevuto comunque — un gesto che ha preceduto di poche ore la morte del Pontefice. Vance si è dichiarato parte della “Chiesa della Resistenza”, la corrente ideologica interna alla Chiesa che si ispira alle posizioni di Viganò.

Le sue dichiarazioni, soprattutto quelle secondo cui i vescovi si opporrebbero alle deportazioni di massa solo per interesse economico, sono state definite “malvagie e volgari” proprio dal cardinale Dolan, da sempre vicino a Trump.

La Santa Sede osserva, mentre Trump gioca con il sacro

Il Vaticano non ha commentato ufficialmente l’ultima provocazione di Trump, ma è evidente che il clima tra Santa Sede e Washington resta teso. L’immagine papale del presidente è una metafora e una sfida, un gesto che, sotto la maschera del meme, rivela l’aspirazione profonda a un dominio culturale oltre che politico.

E mentre Trump indossa digitalmente l’abito del Papa, la Chiesa americana si avvicina al prossimo Conclave più spaccata che mai, pronta a pesare più delle altre nella scelta del successore di Pietro — ma anche a rischiare di spingere ancora più in là la frattura ecclesiale tra Nord e Sud del mondo, tra apertura e conservazione, tra sinodo e scisma.

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Il 9 maggio di Putin, vent’anni dopo: la parata della Vittoria tra retorica e potere globale

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Era il 2005 quando Vladimir Putin celebrava il 60° anniversario della vittoria contro il nazifascismo con i grandi della Terra al suo fianco: da George W. Bush a Jacques Chirac, da Hu Jintao a Silvio Berlusconi. Un tempo in cui la Russia sembrava al centro del mondo, non ai margini, come oggi. Quel 9 maggio segnò la nascita della parata militare che conosciamo, la prima grande cerimonia moderna che intrecciava memoria storica, potenza militare e ambizioni geopolitiche.

Da allora, la Festa della Vittoria è diventata il rito fondante dell’identità russa contemporanea, un momento in cui Mosca ribadisce il proprio posto nella storia e nella geopolitica. Un evento solenne, destinato a commemorare i milioni di morti della Grande Guerra Patriottica, ma anche a legittimare la visione politica di Putin sul presente e sul futuro della Russia.

Il culto della vittoria: da Breznev a Putin

Se oggi il 9 maggio è il simbolo della forza nazionale russa, non lo è sempre stato. Stalin scelse di sminuirlo per oscurare l’ascesa popolare del maresciallo Zhukov e per concentrare la sacralità del potere sul 7 novembre, anniversario della Rivoluzione. Solo con Breznev il 9 maggio tornò ad essere festa ogni cinque anni, trasformandosi però nel culto consolatorio della vittoria, utile a lenire il trauma collettivo della guerra.

Putin ha saputo farne un pilastro del suo potere personale, identificandosi con i valori eroici della resistenza sovietica per costruire una narrazione patriottica unificatrice. A partire dal 2005, il 9 maggio è diventato l’evento simbolico della Russia che resiste e trionfa.

L’ombra della guerra in Ucraina sulla celebrazione

Quest’anno, la parata sarà inevitabilmente segnata dal conflitto in Ucraina, che ha alterato l’immagine della Russia a livello globale. Durante una recente maratona educativa con i giovani, Putin ha parlato di “memoria storica come chiave per capire il presente”, unendo il ricordo della guerra del ‘45 con l’“Operazione militare speciale” in Ucraina. Ha invitato gli “eroi di oggi” a parlare con le nuove generazioni, per trasmettere i valori della “difesa della Patria”.

Xi Jinping torna a Mosca: segnale alla comunità internazionale

Mosca riceverà 19 leader stranieri, ma l’attenzione sarà tutta per uno: Xi Jinping. Il presidente cinese non partecipava alla Festa della Vittoria dal 2015. La sua presenza ha un significato geopolitico preciso: confermare che l’asse Mosca-Pechino è solido, nonostante l’attuale riavvicinamento tra la Russia e la nuova amministrazione americana guidata da Donald Trump. La collaborazione militare tra Russia e Cina resta avvolta dal riserbo, ma la postura multipolare auspicata dal Cremlino dal 2022 passa proprio da questa alleanza.

Il dilemma retorico: Putin parlerà ancora di antiamericanismo?

Negli ultimi anni, Putin ha fatto della retorica antioccidentale e antiamericana un marchio di fabbrica. Nel 2023 definì gli Stati Uniti «pronti a fare patti con il Diavolo pur di danneggiare la Russia». Ora, con un equilibrio globale più incerto e interlocutori ambigui, il leader russo dovrà decidere quale tono assumere il 9 maggio.

Da un lato vorrà mostrare forza e coesione interna; dall’altro dovrà misurare le parole per non compromettere i rapporti con i partner che, pur critici verso l’Occidente, non sposano fino in fondo il confronto armato.

Un messaggio al mondo: pace o sfida?

Il 9 maggio sarà anche un test per comprendere se Putin intende davvero aprire a una trattativa di pace o proseguire il conflitto. La presenza dei Brics, la postura di Pechino, l’assenza di Modi: tutti segnali da interpretare in chiave diplomatica.

Più che un semplice evento celebrativo, la parata sarà un barometro dello stato geopolitico della Russia, un’occasione per contare gli amici rimasti e per misurare il tono dello zar di fronte al mondo.

 

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Ucraina-Russia, scontro sul cessate il fuoco del 9 maggio: Zelensky rifiuta la tregua di Putin

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La celebrazione della “Grande Vittoria Patriottica” del 9 maggio, data simbolo per la Russia post-sovietica, diventa terreno di nuovo scontro tra Mosca e Kiev. Il Cremlino ha chiesto un cessate il fuoco di 72 ore, in coincidenza con l’ottantesimo anniversario della vittoria contro il nazifascismo, da commemorare con la tradizionale parata sulla Piazza Rossa.

Vladimir Putin, secondo fonti diplomatiche, teme un attacco ucraino con droni proprio durante la cerimonia, che sarebbe trasmessa in mondovisione. L’ipotesi di dover evacuare sotto minaccia, assieme ai leader stranieri presenti, rappresenterebbe per il leader russo una ferita simbolica e politica. Non solo alla sua immagine di potenza, ma anche al progetto ideologico di continuità storica tra l’URSS di allora e la Russia di oggi.

Zelensky rifiuta la proposta: “Non è una tregua, è propaganda”

La risposta di Volodymyr Zelensky non si è fatta attendere. Il presidente ucraino ha rifiutato la tregua selettiva proposta da Mosca, definendola strumentale: “Perché solo 72 ore a discrezione della Russia?”, ha chiesto. Zelensky ha ricordato che l’Ucraina ha già accettato la proposta americana per una tregua di un mese, in qualunque momento Mosca fosse davvero pronta a porre fine alla guerra.

Ma per Kiev, questa non è una vera proposta di pace: “Non vogliamo partecipare a un gioco che crea una piacevole atmosfera per consentire a Putin di uscire dall’isolamento il 9 maggio”. Anzi, Zelensky ha messo in guardia gli ospiti attesi a Mosca: “Non possiamo garantirvi la sicurezza. Meglio restare a casa”, ha detto ironicamente, ricordando che le sirene antiaeree in Ucraina continuano a suonare ogni notte.

Continuano i bombardamenti su Kherson e Kharkiv

Nel frattempo, sul terreno, la guerra non si ferma. A Kherson si contano nuovi morti e feriti, e a Kharkiv circa 50 persone sono rimaste ferite da un attacco di droni russi. I bombardamenti proseguono su tutta la linea del fronte, con un’intensità che smentisce nei fatti ogni reale volontà di tregua da parte russa.

Zelensky ha anche ipotizzato che Mosca possa inscenare un attacco fittizio durante la parata per addossarne la colpa a Kiev e giustificare un’escalation.

Il Cremlino risponde con minacce: “Kiev potrebbe non vedere l’alba”

La replica del Cremlino non si è fatta attendere. La portavoce Maria Zakharova ha accusato Zelensky di minacciare i leader mondiali intenzionati a partecipare alla cerimonia. Ma è stato il vicepresidente Dmitry Medvedev a lanciare la provocazione più dura: “Se ci sarà una provocazione ucraina il 9 maggio, Kiev potrebbe non vedere l’alba del 10”.

Parole che dimostrano quanto il confronto sia ancora incandescente, anche sul piano simbolico. Una tregua che doveva rappresentare una pausa umanitaria rischia così di diventare l’ennesimo casus belli. Il muro contro muro continua, con le armi ancora pronte a parlare.

 

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