Philip K. Dick , Isaac Asimov, Cassandra Crossing, Resident Evil, L’esercito delle 12 scimmie, Virus letale e poi anche libri come Nemesi di Philip Roth e oramai il quasi best seller Spillover di David Quammen. Tutti titoli di libri o film che in questi giorni di quarantena entrano nelle nostre case, citati da tutti, come Bibbie messaggere di presagi e profezie che qualcuno arrischia ad elogiarne le capacità scientifiche previsionali trasponendoli come ineluttabili studi sul tempo che stiamo vivendo. Questi titoli scandiscono il nostro tempo recluso illustrandoci scenari che sono stati ampiamente superati della realtà che stiamo vivendo. E’ invece poco citato, ma forse perché cerchiamo di distrarre quegli stati d’animo, quelle angosce e quelle paure insieme alla rimozione che vorremmo operare nell’interrogarci sulla nostra capacità di resistere con la paura dell’attesa di un futuro dove il nemico si paleserà e a quel punto ci toccherà combattere. E’ poco citato un libro che potrebbe essere la metafora di quello che stiamo affrontando, un libro crudo, forte, “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati. Non si parla di virus, non di pandemie, nemmeno di complotti internazionali fantapolitici, ma è un libro che parla dell’uomo e del tempo che scorre, lento, angosciante, pesante, nell’attesa che il nemico, arrivi. Poi, se il nemico arrivi e quando arrivi, non è dato sapere, allora ci si attrezza, ma nello stesso tempo ci si interroga sulla propria vita e sul senso che abbiamo fino ad ora dato ad essa e allora guardiamo al futuro, che arriverà, dovrà arrivare, di sicuro arriverà, sia esso di guerra o di passato pericolo e capiremo che il tempo non può essere immobile e come il capitano Drogo avremmo vinto con dignità la nostra principale paura.
Tatiana Travaglini, dirigente società culturale
“da quando il mondo è sopraffatto dalla paura di un virus subdolo che improvvisamente ci ha vietato di abbracciarci, stringerci le mani, incontrarci, io mi sto interrogando, cercando di far uscire qualche emozione profonda ma mi sembra di essermi bloccata. Mi sto chiedendo come sto vivendo questa emergenza, non lo so mi sembra quasi un peggioramento di una mia personale emergenza. In effetti io mi sono bloccata quasi 8 anni fa a causa di una rottura di aneurisma celebrale e tutto è rimasto sospeso all’improvviso in un pomeriggio di agosto.
Già all’epoca mi sono dovuta reinventare tutto anche perché dopo quindici anni di convivenza, la vita di coppia si è sfasciata, si reggeva con un filo troppo labile. Allora mi sono reinventata una casa, sono tornata a vivere in città perché tutti mi diceva non puoi vivere così lontano – ma in fondo Bacoli non è dall’altro capo del mondo. Ora in questo mondo sospeso che ogni giorno fa la conta della tragedia io ho deciso che non dovevo fermare niente di quello che è il mio bisogno di normalità, per cui mi do dei tempi come stessi al lavoro e mi metto al computer a cercare cose, leggere articoli, rimanere connessa sui social. Da metà marzo, avendo immaginato che la vita mi sta rimettendo alla prova, nel silenzio, – che forse non mi dispiace l’assenza di clacson, l’assenza del rumore di una città isterica – organizzo i miei tempi cercando di ordinare la spesa online, tra portali bloccati perché intasati dall’Italiano delirante che ha la fissa della scorta già in tempi normali, poi non potendo farmi raggiungere da una domestica, cerco di fare le pulizie da sola considerandola come fosse l’ora di fisioterapia che adesso non si può fare perché tutto è bloccato anche i servizi essenziali come la riabilitazione per persone con disabilità.
Per fortuna la vita vale la pena viverla perché hai amici che smontano da un turno di notte in ospedale e passano a lasciarti la spesa in ascensore, la vicina che ti lascia la spesa e le zeppole di San Giuseppe appese alla porta, hai ancora voglia di reagire e sopravvivere nonostante chi e ti chiama per fare la conta dei conoscenti di parenti di conoscenti positivi al virus!! Io vado avanti oggi e, domani vedrò”
Laura Angiulli, regista, professoressa Accademica
“Non sono certa di avere ancora accolto con compiutezza la realtà dell’evento; uno sfasamento di percezione fra le mura di casa e i bollettini di guerra lanciati in rete, e che segnano con non lieve disagio l’inevitabile presa di coscienza sull’impotenza di un controllo che rappresenti in sé garanzia d’equilibrio; c’è un’idea di tradimento, di sconfitta in quella presunzione d’invincibilità che in tanti avevamo affidato all’onnipotenza della scienza, e che invece dobbiamo accogliere in un’evidenza di scarsità di risorse rispetto all’ imprevedibilità dei casi. La consapevolezza dell’impossibilità dell’integrità a tutto tondo lascia un segno non sanabile, anche se sappiamo tutti che alla fine andrà meglio e le cose in qualche modo si rimetteranno in moto, pure col triste bagaglio di quelli che si saranno persi per strada. In quanto a me, se penso nei termini di un “prima” e un “dopo” non sono cambiate molte cose nelle mie giornate, e come sempre non trovo il tempo per portare a termine tutto quello che ho in sospeso e vorrei completare, anche perché si sono aggiunte nella necessità di ogni giorno alcune azioni che prima rinviavo a tempo indeterminato e che ora assorbono un po’ delle mie ore subito, dal risveglio in poi. Quando mai ero riuscita a fare ginnastica? E quei tanti libri in attesa di essere letti fino in fondo, e non solo nei frammenti legati all’interesse del momento? Quando mai ero riuscita a leggere qualcosa che non fosse direttamente suggerito dalla materia dello spettacolo che avevo in costruzione? E le tante relazioni amicali tenute vive negli affetti ma relegate ai margini del mio tempo… quando mai ero riuscita a telefonare a un amico per il solo interesse a sentirne la voce e godere della pienezza d’un incontro diverso nella forma ma assolutamente vivo. E poi ci sono nuove esperienze, che vanno dal fare la “pasta frolla” per una pizza di scarole al piacere, vero, di trovare i miei allievi sul monitor del mio portatile, e sentire che ci siamo tutti, i ragazzi ed io, ci siamo veramente nella condivisione di un incontro che non solo sappiamo, ma anche sentiamo necessario, per l’importanza degli argomenti che pure c’è e ci appassiona, ma – ed è quello che conta di più- per il fatto stesso di esserci anche oltre la formalità dei ruoli e degli obblighi istituzionali. E’ bello sentire questo. Quando tutto sarà passato certo dimenticherò il disagio delle limitazioni che opportunamente il momento impone, ma spero – lo spero vivamente – di portarmi dietro nuove consuetudini e nuove acquisizioni di senso che vado consolidando anche come diritti verso me stessa, cose di poca importanza all’apparenza, ma assolutamente significative perché emerse in un tempo dove è più chiaro l’ascolto dei propri desideri”.
Orfeo Soldati, chirurgo
“Ho 69 anni, chirurgo in pensione ed affetto, oltretutto, da patologie che mi renderebbero “a rischio” in una qualunque epidemia influenzale. Vivo solo, la colf si è messa in aspettativa e questo isolamento mi sta mettendo a dura prova sia psicologicamente sia nella routine quotidiana. E’ un mese circa che non vedo nipotini (la mia “luce”); per me, che ho un rapporto assai fisico con la vita, le foto e i video di whatsapp riescono solo in minima parte a surrogare la loro mancanza. Sfoglio attentamente il mio archivio fotografico, riascolto vecchie playlist musicali, ripenso almeno dieci volte al giorno ai tempi della vita “normale” e mi ripropongo, per l’auspicabile dopo, di vivere con maggiore immediatezza e senza pudori i sentimenti ed in generale i rapporti con chi mi è vicino, non tralasciando nulla che possa dare un momento anche fugace di gioia. Pensavo di potere leggere qualche libro in più ma la concentrazione anziché aumentare si è affievolita. Non so perché. L’isolamento mi ha dato anche qualche esperienza positiva. Ricevo tante telefonate di amici, anche di tempi passati, che con voce commossa mi hanno fatto sentire il loro affetto. “Cerchiamo di rivederci, magari anche solo per una birra assieme”. Ce lo eravamo detti tante volte, invano, ma ora sono determinato a tener fede all’impegno. Ho la necessità assoluta di toccare, abbracciare, guardare negli occhi. Lo specchio dopo tanti giorni non mi risponde più. A parte le obbligatorie faccende domestiche, trascorro qualche ora in rete sia nelle chat di gruppo sia sui social network sia (soprattutto!) sulle testate giornalistiche. Questa overdose di Internet è stata una “manna” nei primi giorni di isolamento ma dopo tre settimane sto via via prendendo le distanze anche perché, ovviamente, l’epidemia ha monopolizzato totalmente sia i nostri discorsi che l’informazione e perché la sola “virtualità” comincia a soffocarmi. Quindi: posta elettronica, giornali on line, visite virtuali a mostre o musei, tantissimi film e commedie teatrali (soprattutto classiche). Consulto frequentemente i siti di cucina immaginando i prossimi menù che potrei offrire (offrirò!) ai miei amici quando il Maligno sarà scomparso. Cerco di non parlare sui social dell’epidemia né di leggere articoli on line sul Coronavirus: giudico la divulgazione scientifica in rete in genere sensazionalistica, poco attendibile (mi risparmio la fatica di verificare le fonti!) ed ansiogena più del bollettino quotidiano della protezione civile. Confesso, più si allunga il tempo dell’isolamento più aumenta la mia paura che all’inizio era solo necessaria cautela. Penso ai tanti miei colleghi che stanno pericolosamente lavorando (c’è anche una delle mie figlie!), che rischiano la vita e spesso ce la rimettono. Ed io ormai non posso stare neppure nelle retrovie! Ecco, questo mi manca. Da vecchio “barbagianni” mi consolo pensando che il mio ruolo di responsabilità ora è quello di essere rigoroso nella quarantena. In effetti rigoroso lo sono, ma mi costa aver dovuto cedere il posto in quella che è sempre stata la mia trincea, quella di medico al fianco di chi ha bisogno”.
Mario Colella, Notaio
“Il 28.3.2020 da un ignoto politico olandese arriva l’affermazione: “L’italia e la Spagna sbagliano a ricoverare anche gli anziani. “Questa frase sconvolgente mi ha fatto andare indietro nel tempo. Mi sono domandato anche se il nostro calendario fosse intorno all’anno mille invece che al duemila. L’egregio olandese, non so se con gli zoccoli di legno al piede, o erede putativo del pirata chiamato l’olandese volante, dimentica i caratteri basilari della nostra civiltà e del nostro diritto sovranazionale. L’art. 2 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo afferma che “ad ogni individuo spettano tutti i diritti e le libertà…senza distinzione alcuna per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, religione…ecc.” Il successivo 3 : “ Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà, ed alla sicurezza della propria persona”. O pensa quel signore che il tutto cambia se vi sono interessi economici in ballo? Infatti provenendo quell’affermazione dall’area dei paesi nordici che vivono in generale in una economia ricca, nulla di più sicuro che sia un’affermazione dovuta al pensiero che l’Olanda possa diventare meno ricca per curare anziani e scoppiati latini. Gli anziani sono punto di riferimento e di ammirazione per i giovani e per gli affetti. Senza di loro le generazioni giovani non vivrebbero in un mondo libero e democratico. Gli anziani trasmettono ai giovani i loro saperi, i loro valori, le proprie consuetudini, hanno formato giovani e meno giovani che oggi mandano avanti il mondo in virtù degli insegnamenti di professori, scienziati, muratori, ricercatori, meccanici, ingegneri, fruttivendoli, medici, ciabattini, avvocati, scrittori, camerieri, filosofi e via dicendo. Senza quegli insegnamenti provenienti dai padri cosa sarebbero i giovani? Gli uccellini senza i genitori morirebbero di fame e non imparerebbero a volare. I leoncini senza genitori non imparerebbero a cacciare. Caro “grasso amico olandese”, il mondo attuale va in questo modo. Ed è sempre stato così. Diceva Bernard de Chartres che “ siamo nani sulle spalle di giganti così che vediamo più cose perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”. Quei giganti sono i nostri antenati, scienziati o ciabattini che essi fossero. Arma viramque cano. Quell’uomo forte, Enea, è colui che nella fuga da Troia ha il figlio per mano, Ascanio, ed il padre vecchio e paralitico sulle spalle. Ad insegnamento per le generazioni future di cosa sia la “pietas”. Lei, ignoto olandese, non ha idea di cosa sia o dove sia la pietas. Eppure la sua civiltà è erede della tradizione ellenica e latina. Certo nel corso del tempo e spesso nei gruppi tribali in tempi tragici i primi ad essere sacrificati erano gli anziani. Si chiamava senilicidio o gerontocidio. Si attuava con l’uccisione o facendoli morire di fame. Era una risorsa in società miserrime ove si liberavano risorse per i più giovani. Nella società greca e latina era un’empietà sacrificare i vecchi in qualsiasi modo. Certo con eccezioni. Nell’isola di Kea, durante l’assedio ateniese, per preservare le riserve di cibi, decisero per votazione che i cittadini sopra i 60 anni avrebbero dovuto suicidarsi bevendo cicuta. Ma l’egregio esegeta della pandemia forse ricorda il famigerato regime di Ceauasescu. Ma se lo ricorda non è tanto giovane. Il dittatore romeno, fucilato con la moglie appena arrestato, per arricchirsi sempre più e non sprecare risorse preziose per i vizi suoi e dei figli aveva dato ordine agli ospedali di non ricoverare anziani e non fornire medicine. Erano di nessuna utilità avendo già dato una vita per il lavoro e pesando con una pensioncina sulle finanze pubbliche. Gli anziani caro olandese volante, sono garanti di ogni passato e sono una pianta che deve appassire, ma può ancora rifiorire. Meglio non abbandonarli, sono persone da amare e curare per quello che hanno dato e possono ancora dare. E dal momento che questa è una guerra le citerò Bertold Brecht “La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente”.
Maria Chianese, pediatra
“Sono chiusa nella mia casa a Napoli, grande luminosa e mi ritengo fortunata in questa “peste” moderna. Giorni e notti che sembrano far parte di un film di fantascienza, ma non lo è questa terribile realtà. Mi sento sospesa tra quello che era la vita prima della peste e quello che ci aspetta nel “dopo”. La nostra fretta convulsa si è dovuta fermare. Mi rifiuto di essere dipendente da TV, internet ed affini. Certo ho rivalutato le moderne tecnologie per comunicare con tutti, non so come avremmo fatto senza, ma non voglio dipendere completamente. Amo i libri e la musica e spesso mi rifugio in loro., ma ho bisogno anche di comunicare con gli esseri umani e non solo per parlare di questo maledetto virus! Certo mi colpisce il bisogno di contatti e risorgono vecchi rapporti trascurati. Mi chiedo quando questa angoscia comincerà ad attenuarsi come ci comporteremo e se trarremo insegnamento da questa guerra, io lo spero per tutto il genere umano, ma quanto tempo ci vorrà!”
Fotogiornalista da 35 anni, collabora con i maggiori quotidiani e periodici italiani. Ha raccontato con le immagini la caduta del muro di Berlino, Albania, Nicaragua, Palestina, Iraq, Libano, Israele, Afghanistan e Kosovo e tutti i maggiori eventi sul suolo nazionale lavorando per agenzie prestigiose come la Reuters e l’ Agence France Presse,
Fondatore nel 1991 della agenzia Controluce, oggi è socio fondatore di KONTROLAB Service, una delle piu’ accreditate associazioni fotografi professionisti del panorama editoriale nazionale e internazionale, attiva in tutto il Sud Italia e presente sulla piattaforma GETTY IMAGES.
Docente a contratto presso l’Accademia delle Belle Arti di Napoli., ha corsi anche presso la Scuola di Giornalismo dell’ Università Suor Orsola Benincasa e presso l’Istituto ILAS di Napoli.
Attualmente oltre alle curatele di mostre fotografiche e l’organizzazione di convegni sulla fotografia è attivo nelle riprese fotografiche inerenti i backstage di importanti mostre d’arte tra le quali gli “Ospiti illustri” di Gallerie d’Italia/Palazzo Zevallos, Leonardo, Picasso, Antonello da Messina, Robert Mapplethorpe “Coreografia per una mostra” al Museo Madre di Napoli, Diario Persiano e Evidence, documentate per l’Istituto Garuzzo per le Arti Visive, rispettivamente alla Castiglia di Saluzzo e Castel Sant’Elmo a Napoli.
Cura le rubriche Galleria e Pixel del quotidiano on-line Juorno.it
E’ stato tra i vincitori del Nikon Photo Contest International.
Ha pubblicato su tutti i maggiori quotidiani e magazines del mondo, ha all’attivo diverse pubblicazioni editoriali collettive e due libri personali, “Chetor Asti? “, dove racconta il desiderio di normalità delle popolazioni afghane in balia delle guerre e “IMMAGINI RITUALI. Penitenza e Passioni: scorci del sud Italia” che esplora le tradizioni della settimana Santa, primo volume di una ricerca sui riti tradizionali dell’Italia meridionale e insulare.
Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.
Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.
Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.
Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria
Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.
“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.
Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.
Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica
Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.
Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.
Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”
Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania
La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.
I risultati hanno evidenziato che:
Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.
Uno studio rivoluzionario con implicazioni future
Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.
Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.
Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.
L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.
Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.
Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.
Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie
Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.
Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.
La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza
Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.
A cinque anni di distanza: quali lezioni?
La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.
Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.
In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.