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Cronache

Dop Economy da 20 miliardi, cibo super star

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Vale 20,2 miliardi il sistema italiano delle Dop economy che tiene sui mercati, sapendo fronteggiare clima e guerre. Un patrimonio di eccellenze agroalimentari diffuso capillarmente in tutto il territorio. Merito del lavoro di 317 Consorzi di tutela autorizzati dal ministero dell’Agricoltura che coordinano oltre 194mila imprese delle filiere cibo e vino, con quasi 850mila occupati. Sono alcuni dei dati contenuti nel XXII Rapporto Ismea-Qualivita 2024 presentato a Roma con il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida. Star di tutto il comparto cibo che nel 2023, secondo il Rapporto, mette a segno una crescita del 3,5%, superando per la prima volta 9 miliardi di euro (spiccano i formaggi con +5,3%), mentre il vino imbottigliato frena in quantità (-0,7%) e in valore (-2,3%), attestandosi a 11 miliardi.

“Che il vino regga nel mercato è già un miracolo con l’aggressione portata avanti in questi ultimi anni a uno dei nostri prodotti di eccellenza”, ha rilevato Lollobrigida, evidenziando il grande lavoro fatto dagli imprenditori italiani. A pesare è anche la crisi climatica tanto che nel 2024, secondo l’ultima rilevazione dell’ Organizzazione internazionale della vite e del vino (Oiv), la produzione mondiale viene stimata tra 227 e 235 milioni di ettolitri, il volume più basso raccolto dal 1961 (220 milioni di elettroliti). Uno scenario in cui, secondo Lollobrigida, c’è necessità di “spiegare il prodotto nella maniera corretta all’interno di una sana alimentazione che fa parte non solo della nostra cultura, ma del nostro benessere e della nostra longività oggettiva che ci vede la seconda nazione al mondo per permanenza sulla terra”.

Un patrimonio complessivo, quello di denominazioni, cresciuto in 10 anni del 52% e che ha contribuito per il 19% al fatturato dell’agroalimentare, sempre più diffuso. A salire del 7,2% in un anno è la spesa di questi prodotti nella Grande distribuzione, pari a 5,9 miliardi, in linea con l’intero comparto alimentare (+8,6%), dovuto ad un innalzamento dei prezzi, con un carrello leggermente più leggero. Tanti i prodotti-campione della Dop Economy sul cui podio per il food ci sono Grana padano (1,88 miliardi di valore alla produzione, +8,8%), Parmigiano reggiano (1,6 miliardi -7%) e Prosciutto di Parma (951 milioni +2%), mentre per il vino Prosecco Doc (942 milioni -17,7%), Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg (205 milioni -14%) e Delle Venezie (205 milioni -5,8%). Prodotti che portano l’italianità nel mondo, con un export di 11,6 miliardi di euro, in crescita del 5,3% nei Paesi Ue ma in calo del 4,6% negli Extra-Ue; all’estero sale il cibo con 4,67 miliardi (+0,7%), con formaggi, pasta e olio di oliva in testa, cala invece il vino del 2,9% la quantità per un valore di 6,89 miliardi (-0,6%).

Tanta ricchezza che ha un notevole impatto territoriale: su 107 province 61 hanno un valore della Dop economy più alto e il 17% a doppia cifra. Ancora positivo il trend nell’area Sud e Isole (+4%). A livello regionale spiccano Veneto con 4,85 miliardi di euro e Emilia-Romagna con 3,87 miliardi, prime per valore, seguite da Lombardia, Piemonte, Toscana, Friuli Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige. L’area Sud e Isole cresce per il quinto anno consecutivo trainata da Sardegna (+19%) e Campania(+2,9%). Tra le prime venti province per valore, i risultati migliori in termini assoluti sono quelli di Brescia, Treviso, Vicenza, Cremona e Udine; in calo soprattutto Modena (-8,6%), Verona, Siena e Reggio nell’Emilia.

“Gli agriturismi sono la punta di diamante della Dop Economy – ha detto il direttore generale di Ismea, Sergio Marchi – in regioni come Toscana e Veneto il 50% delle aziende hanno almeno un prodotto Dop o Igp o Stg nella loro offerta e quindi rappresentano la qualità italiana che va sostenuta e implementata”. Il presidente di Ismea Livio Proietti ha evidenziato la solidità del sistema solido, “nonostante i condizionamenti del clima e lo scenario geopolitico, in grado di rispondere in maniera ordinata e composta alle sfide della contemporaneità”. Una Dop economy che spinge i record del made in Italy a tavola, ricorda la Coldiretti, facendo dell’Italia il Paese leader della qualità in Europa per numero di prodotti a denominazione di origine, con 328 specialità Dop/Igp/Stg riconosciute, 529 vini Dop/Igp e 5.547 prodotti alimentari tradizionali.

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Cronache

Il caso Cipriani scuote il pre-conclave: accuse di abusi e tensioni in Vaticano

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In Vaticano, archiviata la vicenda Becciu, un nuovo caso scuote le giornate che precedono il prossimo conclave. Al centro dell’attenzione c’è Juan Luis Cipriani Thorne, arcivescovo emerito di Lima, accusato di abusi sessuali e già sanzionato da Papa Francesco, ma che nonostante tutto continua a partecipare alle riunioni ufficiali dei cardinali.

Non potrà entrare nella Cappella Sistina in caso di conclave — ha superato gli 80 anni — ma la sua presenza e il ruolo attivo nelle congregazioni generali, dove si delinea il profilo del futuro Papa, sta provocando sconcerto, in particolare tra i cardinali latinoamericani. Le sanzioni papali, che prevedevano anche il divieto di indossare le insegne cardinalizie o rilasciare dichiarazioni pubbliche, sembrano di fatto ignorate da Cipriani, che continua ad aggirarsi tra i confratelli in abiti cardinalizi.

Primo Maggio senza congregazioni, ma con intensi conciliaboli

In questo clima di tensione, oggi, Primo Maggio, è saltato l’incontro ufficiale in Aula del Sinodo. Tuttavia, la mattinata libera ha favorito colloqui informali tra cardinali: un’opportunità preziosa per discutere lontano dai riflettori delle congregazioni. Uno dei temi più discussi, secondo fonti vaticane, è proprio la controversa presenza di Cipriani.

Le finanze vaticane e le eredità delle riforme di Francesco

Parallelamente, un altro tema preme nelle conversazioni riservate: la situazione economica della Santa Sede. Il rosso operativo del 2021 era stato di 77,7 milioni di euro e secondo alcuni prelati, la situazione non sarebbe migliorata negli anni successivi.

Tra gli interventi di ieri:

  • Il cardinale Reinhard Marx ha parlato delle sfide di sostenibilità economica;

  • Il cardinale Kevin Farrell del comitato per gli investimenti;

  • Il cardinale Christoph Schönborn ha relazionato sulla “banca vaticana”;

  • Fernando Vergez Alzaga ha fornito aggiornamenti sui lavori di ristrutturazione;

  • Konrad Krajewski, elemosiniere del Papa, ha esposto le attività caritative.

Secondo fonti interne, la Curia romana punta a proseguire le riforme di Francesco, mantenendo le bonifiche avviate, in particolare dentro lo Ior e nella gestione patrimoniale. Il cardinale Pietro Parolin, già Segretario di Stato, viene indicato come possibile guida di questa missione risanatrice.

Curiosità e anomalie: il “ringiovanimento” del cardinale Njue

Infine, tra le note curiose, si segnala l’assenza del cardinale John Njue, di Nairobi, che un anno fa risultava ringiovanito nell’Annuario Pontificio: il suo anno di nascita era stato aggiornato dal 1944 al 1946, permettendogli in teoria di partecipare al conclave. Ma problemi di salute lo hanno comunque escluso.

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Cronache

Chiara Ferragni diventa azionista di maggioranza, ma il brand è in crisi: “Un tentativo disperato”

Chiara Ferragni rileva le quote del suo marchio, ma secondo Selvaggia Lucarelli si tratta di una manovra per salvare un’azienda in crisi. La vera minaccia? La bancarotta.

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Chiara Ferragni ha annunciato con entusiasmo sul suo profilo Instagram di essere diventata azionista di maggioranza della Chiara Ferragni Brand, definendolo “un nuovo inizio”, “un gesto di responsabilità” e “la scelta di rimettere le mani sulla mia storia”. Ma dietro la patina da storytelling motivazionale si nasconde, secondo quanto ricostruisce Il Fatto Quotidiano in un articolo a firma di Selvaggia Lucarelli, una verità ben più amara: una crisi finanziaria profonda, seguita al crollo reputazionale legato al cosiddetto Pandorogate.

Il passaggio di quote, che ha visto Ferragni rilevare le partecipazioni di Paolo Barletta e quasi interamente anche quelle di Pasquale Morgese (rimasto con uno simbolico 0,2%), è stato reso possibile da un aumento di capitale da 6,4 milioni, sborsati direttamente dall’influencer. Una mossa orchestrata non da Ferragni in prima persona, ma dall’amministratore unico di Fenice, Claudio Calabi, esperto in ristrutturazioni aziendali, con il supporto dell’avvocato Giuseppe Iannaccone.

Un’operazione di salvataggio, non un rilancio

Secondo Lucarelli, questa non è una storia di emancipazione, ma di autosalvataggio: Ferragni è oggi l’unica disposta a investire nel suo marchio, perché nessun altro lo ritiene appetibile. “È come dire che un ristoratore è diventato il cliente numero uno del proprio locale perché gli altri non ci vogliono più venire”, scrive la giornalista.

Le perdite del 2024 superano i 10 milioni di euro, e Ferragni sta attingendo al proprio patrimonio personale per tenere in piedi l’azienda. Ma, tra la casa acquistata a City Life per 14 milioni, le spese legali, lo stile di vita sfarzoso e la gestione di una vita privata pubblica, i fondi potrebbero non bastare a lungo. Voci non confermate parlano di una possibile messa in vendita della casa, ipotesi smentita dal suo staff.

Il nodo delle licenze e la reputazione in frantumi

Il punto più critico riguarda però le licenze del brand: aziende come Safilo e Pigna chiedono conto delle perdite legate al marchio e ora i negoziati sono affidati a Calabi. In questo quadro, la comunicazione pubblica dell’influencer — ancora improntata a viaggi, look, sondaggi su Instagram — appare fuori fase e dannosa.

“Chi la aiuta le suggerisce il basso profilo, ma lei continua a vivere come se niente fosse accaduto”, osserva Lucarelli. E avverte: la vera minaccia è la bancarotta.

Un cambio di passo è ancora possibile?

Il grande punto interrogativo è sul futuro. Non basta l’apparizione in seconda fila alle sfilate o una copertina su Elle Romania. Servirebbe, scrive Lucarelli, una vera rivoluzione strategica e personale: niente più immagine da eterna adolescente digitale, ma un’autentica trasformazione in imprenditrice.

“Per risollevarsi”, conclude, “Chiara Ferragni avrebbe bisogno di iniziare a pensarsi oberata, e non più semplicemente ‘libera’ come da slogan sanremese”.

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il giornalista Marc Innaro e la censura Rai: Russia demonizzata, Europa marginale

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Marc Innaro (foto Imagoeconomica in evidenza), storico corrispondente Rai da Mosca e oggi inviato dal Cairo, torna a parlare in un’intervista rilasciata a Il Fatto Quotidiano, affrontando con lucidità e tono critico le tensioni tra l’Occidente e la Russia, il suo allontanamento da Mosca e la crescente russofobia nelle istituzioni europee.

Dal 1994 al 2000 e poi dal 2014 al 2022, Innaro ha raccontato la Russia da dentro, cercando – come lui stesso dice – di “corrispondere” la realtà e il punto di vista di Mosca. Una scelta giornalistica che gli è costata accuse di filoputinismo e, di fatto, l’interruzione della sua esperienza russa da parte della Rai, ufficialmente per motivi di sicurezza legati alla nuova legge russa contro le “fake news”.

Ma Innaro contesta apertamente questa versione: “Quella legge valeva per i giornalisti russi, non per gli stranieri accreditati. Commissionai persino uno studio legale russo-italiano che lo dimostrò. Nessuno mi ascoltò”. A detta sua, la vera censura arrivava “non dai russi, ma dagli italiani”.

Nato, Ucraina e verità scomode

Un episodio televisivo emblematico segnò la sua posizione pubblica: una cartina sull’allargamento della Nato a Estmostrata in diretta al Tg2 Post, che gli offrì l’occasione per dire: “Ditemi voi chi si è allargato”. Una verità storica, sottolinea, che rappresenta “la versione di Mosca” e che fu raccontata anche da Papa Francesco, quando parlò del “latrato della Nato alle porte della Russia”.

Da lì in poi, dice Innaro, cominciò l’isolamento. Non gli fu consentito di intervistare Lavrov né di andare embedded con i russi nel Donbass, mentre altri inviati Rai furono autorizzati a farlo con le truppe ucraine, anche in territorio russo.

“La Russia non vuole invadere l’Europa”

Secondo Innaro, la narrazione di Mosca come minaccia globale è costruita ad arte: “La Russia è un Paese immenso con 145 milioni di abitanti. Come può voler invadere un’Europa da 500 milioni?”. L’obiettivo russo, dice, è sempre stato chiaro: la neutralità dell’Ucraina e il rispetto per le minoranze russofone.

Nel commentare le dichiarazioni dei vertici Ue e Nato, come quelle di Kaja Kallas o Mark Rutte, Innaro osserva che “alimentare la russofobia non aiuta a risolvere nulla” e ricorda che è grazie al sacrificio sovietico se l’Europa è stata liberata dal nazifascismo.

“L’Europa doveva includere la Russia”

La guerra, secondo Innaro, “diventa sempre più difficile da fermare”, anche per il consenso interno a Putin. Ma l’errore strategico dell’Occidente, dice, è stato non costruire una nuova architettura di sicurezza con la Russia dopo la Guerra Fredda: “Abbiamo più in comune con i russi che con altri popoli. Ma ora i 7/8 del mondo si riorganizzano e l’Europa resta ai margini”.

Un’analisi lucida e controcorrente, che rimette in discussione molte certezze del racconto dominante.

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