Collegati con noi

Esteri

Donald, Vladimir e ‘l’intesa di San Valentino’ per far finire la guerra in Ucraina

Pubblicato

del

Altro che un semplice ‘Valentine’. La mai sopita bromance tra Donald Trump e Vladimir Putin si ravviva alla vigilia di San Valentino con una “lunga e altamente produttiva” telefonata tra i due leader, con tanto di inviti per una visita reciproca nei rispettivi Paesi. Nella loro agenda, come ha rivelato il tycoon, non solo l’Ucraina, ma anche il Medio Oriente, l’energia, l’intelligenza artificiale, il ruolo del dollaro. Come due innamorati che dopo tanti anni si ritrovano, parlano di tutto e si danno un appuntamento. Ma che forse hanno continuato a telefonarsi diverse volte in segreto, come ha rivelato anche il leggendario reporter del Watergate Bob Woodward.

La loro sembra una promessa di ‘reset’ dei rapporti, quello che non riuscì a Barack Obama – che puntò, sbagliando, sull’allora presidente Dmitri Medvedev – e neppure a Joe Biden con l’inutile summit di Ginevra nel giugno 2021, che non evitò l’invasione russa dell’Ucraina otto mesi dopo. E se l’anziano leader dem non si è trattenuto poi dal definire lo zar un “assassino”, un “dittatore omicida”, un “criminale di guerra”, il suo successore è invece un ammiratore dei despoti (da Xi a Kim, con cui ha scambiato ‘lettere d’amore’) e ha sempre lodato Putin come un “uomo forte”, “intelligente”, addirittura “geniale”. Ricambiato dal leader del Cremlino, che pur dichiarando pubblicamente di preferire il più prevedibile Biden in realtà non ha mai nascosto la sua simpatia e risparmiato le sue lodi per Trump, anche se non certo in modo disinteressato.

Certo, The Donald è un agente del caos imprevedibile, ma lo tratta con rispetto da pari a pari, come si conviene a uno zar, riconosce le sue ragioni, la sua sfera di influenza regionale nel giardino di casa. E certo non può dispiacergli la sua attitudine ad indebolire il ‘deep state’ Usa, compresa l’intelligence, e a ritirare gli Stati Uniti dal loro ruolo globale, dall’Afghanistan al Medio Oriente, benché il Trump II sembri aver riscoperto nuove ambizioni imperiali, dal Canada alla Groenlandia, da Panama a Gaza. Ma sono entrambi uomini pragmatici, d’affari, capaci di negoziare. I due poi sono accomunati, oltre che da un grande ego e dallo spirito di vendetta, anche dal machismo e dalla difesa dei valori tradizionali, con battaglie comuni a difesa della famiglia e della religione, e contro l’aborto, la comunità Lgbtq, l’ideologia di genere: crociate che hanno trasformato pure Putin in un beniamino della comunità evangelica conservatrice americana.

La loro bromance risale alla campagna elettorale del 2016, quando il tycoon si circondò di vari esponenti legati a Mosca (a partire dal capo della sua campagna Paul Manafort) e invocò apertamente l’aiuto del Cremlino contro la sua rivale: “Russia, se mi stai ascoltando, spero che tu riesca a trovare le 30.000 e-mail mancanti” di Hillary Clinton, disse. Un appello che non rimase inascoltato, come evidenziò il successivo Russiagate, l’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller che evidenziò potenziali collusioni fra il candidato repubblicano e i russi: dal vecchio progetto per un grattacielo nato con lo sbarco di Miss Universo nel 2013 nella capitale russa agli incontri sospetti alla Trump Tower nel 2016.

Il rapporto finale fu però sepolto dal ministro della Giustizia William Barr. Nel frattempo, nel maggio 2017, il tycoon aveva accolto nello Studio Ovale il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov (rivelando forse informazioni top secret), mentre nel luglio dell’anno successivo aveva incontrato Putin nel vertice di Helsinki, tra sorrisi e reciproche pacche sulle spalle. In quell’occasione il presidente americano aveva anche sconfessato l’intelligence Usa, abbracciando la smentita di Putin sulle interferenze russe nelle presidenziali americane. I due poi avevano avuto un faccia a faccia di due ore senza nessuno. Ora si rivedranno presto. Magari anche con Musk, che ha rapporti diretti con lo zar.

Advertisement

Esteri

Processo Maradona, la testimonianza shock di Villarejo: “Sedato senza esami. Ricovero in terapia intensiva trasformato in caos”

Pubblicato

del

Nel quattordicesimo giorno del processo per la morte di Diego Armando Maradona, ha deposto il dottor Fernando Villarejo, responsabile della terapia intensiva della Clinica Olivos, dove il campione fu operato per un ematoma subdurale il 2 novembre 2020, appena 23 giorni prima della sua morte.

Villarejo, 67 anni, con oltre 40 anni di esperienza, ha dichiarato davanti ai giudici del Tribunale Penale Orale n. 3 di San Isidro che Maradona fu operato senza alcun esame preoperatorio, esclusivamente per volontà del suo medico di fiducia, il neurochirurgo Leopoldo Luque, nonostante non vi fosse, secondo i medici della clinica, alcuna urgenza immediata.

Trattamento per astinenza e decisione di sedazione

Tre giorni dopo l’intervento, Villarejo partecipò a un incontro con la famiglia e i medici curanti. Fu allora che Luque e la psichiatra Agustina Cosachov confermarono che l’obiettivo era trattare i sintomi di astinenza da sostanze e alcol.

«Maradona era ingestibile, difficile da trattare dal punto di vista comportamentale», ha riferito Villarejo, aggiungendo che Luque e Cosachov ordinarono di sedare il paziente, consapevoli dei rischi: depressione respiratoria, complicazioni infettive, cutanee e nutrizionali. La sedazione iniziò il 5 novembre e durò poco più di 24 ore, finché lo stesso Villarejo decise di ridurla, vista l’assenza di un piano preciso.

Il caos in terapia intensiva: “Potevano entrare con hamburger o medicine”

Il medico ha denunciato un clima caotico nel reparto: «Troppe persone in terapia intensiva, potevano portare hamburger o qualsiasi altra cosa. È stato vergognoso, scandaloso». Ha poi ammesso: «Mi dichiaro colpevole, ero una pedina su una scacchiera con un re e una regina», riferendosi al peso dell’ambiente vicino a Maradona.

Ricovero domiciliare e responsabilità

Villarejo ha raccontato che il ricovero presso la clinica non era più sostenibile. Fu deciso il trasferimento a casa, dove secondo l’ultima pagina della cartella clinica, fu la famiglia a chiedere l’assistenza domiciliare, sostenuta da Luque e Cosachov.

In aula ha testimoniato anche Nelsa Pérez, dipendente della società Medidom incaricata dell’assistenza a casa Maradona. Pérez ha ammesso che, secondo lei, in Argentina non esistono ricoveri domiciliari, ma che il termine viene usato per semplificazione. La testimone ha nominato Mariano Perroni come coordinatore dell’équipe, composta dagli infermieri Dahiana Madrid e Ricardo Almirón.

Tensione in aula: accuse di falsa testimonianza

Le affermazioni di Pérez hanno generato momenti di alta tensione in aula. Gli avvocati Fernando Burlando e Julio Rivas hanno chiesto la detenzione della testimone per falsa testimonianza, ma i giudici hanno rigettato la richiesta.

Nel corso del controinterrogatorio, Pérez ha confermato che non fu ordinato alcun monitoraggio dei parametri vitali, ma che veniva comunque effettuato dall’infermiera per scrupolo, a causa di precedenti episodi di tachicardia.

Continua a leggere

Esteri

Esercito libanese: smantellato il 90% delle strutture di Hezbollah nel sud Libano

Pubblicato

del

L’esercito libanese ha smantellato “oltre il 90 per cento” dell’infrastruttura militare del gruppo filo-iraniano Hezbollah nel Libano meridionale, vicino al confine con Israele, ha dichiarato un funzionario all’Afp. “Abbiamo completato lo smantellamento di oltre il 90 percento delle infrastrutture di Hezbollah a sud del fiume Litani”, ha dichiarato un funzionario della sicurezza, a condizione di mantenere l’anonimato. L’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah libanese prevede lo smantellamento delle infrastrutture di Hezbollah.

Continua a leggere

Esteri

Guterres ‘inorridito’ dagli attacchi in Darfur

Pubblicato

del

  Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, “è inorridito dalla situazione sempre più catastrofica nel Darfur settentrionale, mentre continuano gli attacchi mortali alla sua capitale, Al-Fashir”. Lo ha detto il portavoce del Palazzo di Vetro, Farhan Haq. La città nel Sudan occidentale è sotto assedio da parte delle Forze di Supporto Rapido paramilitari, guidate dal generale Mohamed Hamdan Daglo, che da due anni combattono contro l’esercito del generale Abdel Fattah al-Burhan. Il portavoce ha riferito che Guterres ha anche espresso preoccupazione per le segnalazioni di “molestie, intimidazioni e detenzione arbitraria di sfollati ai posti di blocco”. In questa situazione, l’entità dei bisogni è enorme, ha sottolineato Haq, citando le segnalazioni di “massacri” avvenuti negli ultimi giorni a Omdurman, nello stato di Khartoum.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto