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Autostrade, il testimone di giustizia Ciliberto deve andare al processo senza scorta: mi vogliono morto e io ho lasciato tutto scritto a…

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Uno dei processi più importanti in cui si dovranno accertare eventuali responsabilità di Autostrade per l’Italia circa anche eventuali infiltrazioni della criminalità organizzata negli appalti per la realizzazione di pezzi di autostrade o cavalcavia è nelle mani del pm di Roma Francesco Dall’Olio. Il pm (non Dall’Olio ma il magistrato in senso lato ovvero chi doveva occuparsene e se ne è occupato in questi anni) ci ha messo un bel po’ di anni ma poi ha portato davanti al Gip Emanuela Attura tutti gli indagati.   

Il Ponte Morandi. Dopo il crollo e 43 morti il Governo aveva promesso di revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia

L’udienza si terrà il 6 dicembre. Dunque tra pochi giorni. Il principale accusatore degli odierni indagati nel procedimento penale davanti al Tribunale di Roma è Gennaro Ciliberto, 46 anni, testimone di giustizia sotto protezione perchè hanno provato nel tempo ad ucciderlo almeno in due circostanze. In una di queste si inceppo la pistola del killer.  

A questa udienza, quella del 6 dicembre a piazzale Clodio di Roma, secondo quanto denuncia Ciliberto guardandoci dritto negli occhi, dovrà andarci a piedi. Da solo. Senza scorta. Così avrebbero deciso. Chi? E perchè? Non si rischia di consentire a chi è stato accusato da Ciliberto di fargli del male? E perchè mai Ciliberto deve essere scortato ovunque ma non per andare in Tribunale? Ci sono troppe questioni poco chiare in questo procedimento penale a Roma. Ci sono troppe zone d’ombra in questo coacervo di interessi. Se Ciliberto è attendibile come testimone di giustizia, va protetto. Perchè è così che uno Stato serio affronta situazione serie. E la questione Autostrade, dopo il crollo del viadotto Morandi, è una vicenda troppo seria. Occorreva capirlo già con la strage del viadotto dell’Acqualonga, ma si sa in Italia persino i morti hanno un peso diverso. Se muoio 40 persone ad Avellino e sono pellegrini di Pozzuoli forse valgono di meno dei 43 morti del ponte Morandi? Ci sono troppo morti che pesano sulle nostre coscienze. Anche sulle coscienze di quei giornalisti che hanno la vista appannata perchè come diceva Edoardo Bennato in tempi davvero non sospetti la democrazia di questo Paese “è tutta pubblicità”. Ci sono troppi soldi che girano, troppi interessi opachi. 

Viadotto dell’Acqualonga. Il luogo dove il bus precipitò e fece strage: 40 morti

Quella che racconta Gennaro Ciliberto da 8 anni, se non di più, è una realtà inquietante. E lo è perchè lui muove accuse precise, fa contestazioni precise, riferisce nomi precisi, racconta fatti precisi e circostanziati, porta documenti o spiega dove andare a cercare prove di reati commessi nella realizzazione delle nostre autostrade, i nostri cavalcavia, quelli che cadono e fanno stragi. Ciliberto parla di mazzette, corruzione, legami tra camorristi e colletti bianchi. Se è un pazzo va internato in una Rems (le residenze mediche per i matti). Ma Ciliberto non muove  generiche accuse aleatorie. Questo non vuol dire che quel che dice è vangelo. Occorre certamente aspettare che la magistratura faccia il suo lavoro. E lo sta facendo. Oggi c’è maggiore sensibilità rispetto a questo tema. La carneficina del Ponte Morandi e quello che sta tirando fuori la procura di Genova circa omissioni e commissione di reati ha dell’incredibile, soprattutto perchè quello che si evince è una mancanza assoluta di vigilanza sui lavori di realizzazione o manutenzione di tratti di autostrada. Anche il processo in corso ad Avellino per la carneficina di altre 40 persone cadute con il bus dal Viadotto dell’Acqualonga verte sullo stato di manutenzione del bus caduto ma anche sulla manutenzione di quel tratto di autostrada o sui presidi di sicurezza. Ma si vedrà. Intanto, ascoltate quello che dice Ciliberto, testimone di giustizia considerato credibile e attendibile da 8 anni a questa parte, tanto da meritarsi la protezione dello Stato, una nuova identità, un lavoro e una scorta armata 24 ore su 24.

Viadotto della Polcevera. Il crollo del Ponte Morandi causò 43 morti

“Se avessero preso seriamente in considerazione quello che vado dicendo da 7 anni alle procure di mezza Italia, forse oggi non saremmo qui a piangere decine di vittime sulle autostrade italiane. Siamo l’Italia del giorno dopo, invece di prevenire certe tragedie come Genova ci piace piangere i morti e fare i processi su quello che potevamo fare prima ma che non abbiamo fatto”. Ciliberto da tempo non può più usare il suo nome ma gli hanno dato una nuova identità, il suo luogo di residenza è “località nota al servizio centrale di protezione”, scappa da una città all’altra perché l’hanno minacciato di morte ed hanno provato ad ucciderlo nel corso di una finta rapina. Non ha più una famiglia. Racconta presunte  (si dice così perchè i fatti che lui racconta devono essere accertati dalla magistratura inquirente e giudicati da un giudice terzo) manipolazioni di appalti per la realizzazione di autostrade, corruzioni, giri di mazzette, infiltrazioni di ditte della camorra negli appalti per costruire ponti e cavalcavia di autostrade e soprattutto spiega perchè molte di queste opere rischiano di cadere. E cadono. Come è accaduto, in ultimo, con il viadotto della Polcevera o Ponte Morandi, facendo strage (43 morti a Genova) tra gli automobilisti. Noi vi offriamo questa lunga intervista realizzata in una località protetta in cui racconta fatti di cui è a conoscenza, presunti reati che lui ha denunciato in più procure. Il 6 dicembre, quando dovrà andare in Tribunale a Roma, dove troverà sul banco degli accusati persone che lui ha fatto arrestare o che ha messo nei guai.

L’atto di accusa dello Studio Pisani: siamo increduli, Ciliberto va protetto perchè si sta verificando una grave lesione del diritto

L’ufficio legale che segue Gennaro Ciliberto, lo studio Legale Pisani, ha fatto sapere che avrebbe denunciato in ogni sede questo comportamento di organi dello Stato che mettono in pericolo di vita un testimone che ha reso un servizio alla giustizia. Ed avvisano che assieme al loro assistito hanno depositato nelle mani di un notaio una dettagliata relazione su quanto sta accadendo… Insomma, siamo solo all’inizio di una battaglia legale. Che coinvolge tanti soggetti.  

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Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

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Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

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Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

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Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

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Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

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Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

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