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Arriva il piano Ue per l’export del grano ucraino

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Dal gas fino al grano. Le conseguenze della guerra in Ucraina si allargano sempre di piu’ sull’economia, andando a stagliarsi in modo minaccioso sulla sicurezza alimentare del mondo intero. E, mentre il conflitto tra Mosca e Kiev si consuma a colpi di accuse e controaccuse su furti e sequestri di carichi di grano nei porti del Mar Nero, l’Europa corre ai ripari annunciando corridoi di solidarieta’ per aggirare il blocco delle derrate ucraine. E dagli Usa e’ lo stesso premier Mario Draghi ad affrontare la questione con il presidente Joe Biden, con l’auspicio che la partita del grano possa essere “un primo esempio di dialogo che si costruisce tra le due parti per salvare decine di milioni di persone”. E scongiurare la carestia. La prima bordata della giornata sul fronte agroalimentare e’ arrivata da Mosca, con il ministro degli esteri Sergej Lavrov che ha accusato esplicitamente Kiev di avere piazzato delle mine nei porti dove si trovano le navi cariche di grano sabotandone la partenza. La replica e’ arrivata a stretto giro dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, che dati alla mano, ha attaccato: e’ la Russia a bloccare circa trecento navi mercantili nel Mar Nero. Per aiutare Kiev a riprendere l’export alimentare e scongiurare malnutrizione e carestia su scala mondiale, Bruxelles e’ pronta a svelare domani un vero e proprio piano d’azione. Corridoi ‘verdi’ che si muovono sui binari del trasporto ferroviario e delle spedizioni dai porti polacchi sul Baltico, potenziando le strutture di stoccaggio e i collegamenti anche con la Moldavia. Uno schema che cerca di rispondere all’appello dei Paesi europei piu’ preoccupati, Italia in testa, che si trovano a dover far fronte a prezzi e costi alle stelle. Nel complesso, del resto, l’intera Ue prima della guerra importava oltre 700mila tonnellate di grano dall’Ucraina. Il piano, secondo Coldiretti, e’ “coerente” e da’ le risposte necessarie sia a Kiev che ai Paesi importatori e alle loro aziende. L’obiettivo, ha spiegato l’associazione di categoria, e’ anche snellire le procedure burocratiche di ingresso delle merci in Europa che pero’ – e’ l’avvertimento – non deve tradursi in minori controlli e garanzie per la salute e la sicurezza dei consumatori. La chiamata a “fare presto” e “di piu'” e’ arrivata pero’ anche da tutta l’area del Mediterraneo a rischio. Egitto in testa. L’ambasciatore presso l’Ue, Badr Abdel Aty, non ha usato mezzi termini: “La situazione della food security e’ molto seria”. E ci sara’ da prestare attenzione soprattutto all’Africa.

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Un noto giornalista investigativo freddato in Colombia

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Vari colpi sparati a bruciapelo, mentre la vittima era a terra, da un sicario vestito di nero e con il volto nascosto da un casco integrale. Così è stato ucciso nella città colombiana di Cúcuta, al confine con il Venezuela, il comunicatore sociale, avvocato e giornalista Jaime Vásquez a cui, per le sue ripetute denunce di corruzione, era stata assegnata nel 2022 anche la scorta della polizia. Domenica Vásquez, 54 anni, ha offerto agli agenti qualche ora di riposo, assicurandogli che sarebbe rimasto in casa. Ma poi ha deciso di uscire per fare acquisti nel centro del quartiere La Riviera, una scelta che gli è stata fatale. Una moto, guidata da una donna, lo ha intercettato sbarrandogli la strada.

E a nulla è valso il tentativo di rifugiarsi in un negozio: il sicario, che era sul sedile posteriore, è sceso, lo ha inseguito nel locale e lo ha freddato sparando tre volte, sotto l’occhio di una telecamera fissa che ha ripreso la scena, tra il panico dei presenti. Per primo il presidente Gustavo Petro, attraverso il suo account X, ha reso noto che “il giornalista Jaime Vásquez è stato assassinato nel dipartimento del Norte de Santander. Il suo lavoro era denunciare la corruzione”. Mi aspetto dalla Procura, ha intimato, “l’indagine più approfondita possibile che dovrebbe includere l’esame forense delle informazioni sul suo cellulare, che, apparentemente, è stato manipolato dalle autorità dopo la sua morte”.

Da anni l’attività di Vásquez di inchieste su casi di corruzione a Cúcuta e in tutto il dipartimento era nota e questo gli aveva prodotto numerosi nemici. Le dirette che realizzava attraverso la sua pagina Facebook, erano meticolose ed accurate e prendevano di mira amministratori pubblici e imprese private.

Il quotidiano La Opinión di Cúcuta, pubblicando foto delle testimonianze di affetto della popolazione che ha acceso candele e depositato fiori, ha rivelato che uno dei casi più clamorosi denunciati ha riguardato la società Aguas Kpital Cúcuta, che aumentò senza motivo le tariffe dell’acqua potabile, cambiando i contatori. Di recente erano state in primo piano sui media locali le accuse di irregolarità nella gestione del settore sanitario e nell’assunzione di dipendenti pubblici. Dopo la diffusione attraverso le reti sociali del video dell’omicidio, tutte le autorità nazionali e locali si sono mobilitate, con l’apertura di una inchiesta per risalire ai possibili mandanti dell’operazione e con l’offerta di una taglia di 70 milioni di pesos (17.000 euro) per informazioni utili all’arresto dei killer del giornalista.

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Hezbollah lanciano missili e droni su Israele ma dicono “non vogliamo la guerra ma ci difenderemo”

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Mentre si addensano fosche le nubi all’orizzonte del sud del Libano minacciato dalla risposta israeliana all’attacco missilistico iraniano, il potente movimento armato libanese Hezbollah, alleato della Repubblica islamica e di Hamas, ribadisce di non volere una guerra aperta con lo Stato ebraico, ma assicura di avere “tutti i mezzi necessari” per difendersi e difendere il Paese mediterraneo.

Da più di sei mesi si verificano giornalieri scambi di fuoco tra Hezbollah e Israele. Finora il gruppo armato libanese ha puntato razzi e droni contro obiettivi militari per lo più a ridosso della linea di demarcazione con l’Alta Galilea. Nelle ultime ore il Partito di Dio ha rivendicato un’azione difensiva contro militari israeliani che si erano infiltrati in territorio libanese. Dal canto suo, l’aviazione israeliana ha da più di un mese cominciato a bombardare con regolarità anche la profondità territoriale libanese, in particolare nella valle della Bekaa al confine con la Siria, considerata la retrovia logistica del Partito di Dio. E nelle ultime ore ha condotto almeno due raid mirati contro dirigenti militari di Hezbollah nella regione di Tiro. Da ottobre a oggi sono stati uccisi più di 60 civili libanesi e 8 civili israeliani.

Sul lato israeliano della linea di demarcazione circa 80mila persone sono state sfollate, un dato senza precedenti. Mentre il sud del Libano, periodicamente segnato da invasioni e operazioni militari israeliane, ha finora visto lo sfollamento di 100mila civili. In questo contesto di crescente tensione, fonti interne a Hezbollah che preferiscono rimanere anonime perché non autorizzate a parlare con i media affermano che il partito “è pronto a difendersi con tutti i mezzi necessari” in caso Israele decidesse di aprire un secondo fronte di guerra aperta col Libano.

Le fonti di Hezbollah sostengono che finora i suoi combattenti hanno “usato solo una minima parte dell’arsenale” a disposizione e che i missili a media e lunga gittata, stoccati da anni in località segrete tra Siria e Libano, possono colpire tutte le città israeliane, incluse Ashkelon nel sud e il porto di Eilat sul Mar Rosso. “Possiamo eludere l’Iron Dome” israeliana, affermano le fonti, sottolineando come l’attacco iraniano del 13 aprile scorso sia servito, tra l’altro, a studiare la “capacità di reazione del nemico”.

“Il nostro arsenale serve come deterrente”, affermano le fonti di Hezbollah, confermando quanto ripetuto più volte dal leader del movimento, Hasan Nasrallah: l’azione militare dal sud del Libano – ha detto anche di recente il sayyid – serve in sostegno alla resistenza dei fratelli palestinesi e come elemento di dissuasione nei confronti di Israele. Per questo motivo, assicurano le fonti libanesi vicine a Teheran, “non vogliamo esporre il Libano a una guerra aperta con il nemico sionista. E, come già detto, siamo pronti a cessare ogni ostilità non appena Israele mette fine all’offensiva militare sulla Striscia di Gaza, decretando la vittoria della resistenza”. In questo senso, in caso di raggiungimento di un accordo quadro tra Hamas e Israele, le fonti di Hezbollah affermano di esser pronte a “tornare alla situazione precedente all’8 ottobre scorso”, data di inizio dei botta e risposta tra il Partito di Dio e lo Stato ebraico.

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La mappa delle basi Usa (e occidentali) nell’area

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Basi militari note e altre segrete, installazioni logistiche e soldati sul campo per addestrare forze locali: è molto articolata la presenza delle truppe statunitensi e occidentali in Medio Oriente che potrebbero finire nel mirino di Teheran e delle milizie alleate. A cominciare dalle basi in Iraq e Siria, che già hanno dovuto fare i conti con la reazione all’offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza scatenata all’indomani delle stragi del 7 ottobre compiute da Hamas. In Iraq in particolare, dove il premier Muhammad Sudani ha chiesto il ritiro delle truppe americane e l’esercito di Baghdad giudica la loro presenza “fonte di instabilità”, già si contano diverse decine di attacchi.

La gran parte sono rivendicati dal gruppo “Resistenza islamica in Iraq”, che secondo Washington è sostenuto da Teheran. Nel Paese i soldati americani sono quasi 2.500, inquadrati nella Coalizione anti-Isis creata nel 2014. La situazione è talmente tesa che le forze Usa hanno colpito a Baghdad nel gennaio scorso il comandante di una fazione filoiraniana. L’ultimo attacco nella capitale irachena risaliva al 2020: venne ucciso in un raid Qasem Soleimani, il capo delle forze al Quds iraniane. Allora, per rappresaglia, Teheran lanciò diversi missili balistici sulla base di Al-Asad. Tra le altre strutture, l’aeroporto militare di Erbil, nel Kurdistan iracheno, finisce spesso nel mirino. Nell’area sono dislocati anche i militari italiani inquadrati nell’operazione Prima Parthica (oltre mille soldati tra Iraq e Kuwait), soprattutto per l’addestramento delle forze locali. In Siria la base militare Usa più nota è quella di al Tanf, un’ex prigione che sorge strategicamente al confine tra Iraq e Giordania, poi ci sono quelle di al Omar e al Shaddadi, nel nordest, tutte e tre già prese di mira dal 7 ottobre. I soldati schierati in Siria sarebbero almeno 900, ufficialmente per l’addestramento delle Forze democratiche siriane (Sdf) che ancora combattono contro il governo di Damasco.

Nel nord ci sarebbero poi 200 militari francesi dispiegati in una manciata di basi: le informazioni però arrivano soprattutto da Ankara, che accusa Parigi di addestrare in loco i “terroristi” del Pkk, mentre ufficialmente addestrano, anche loro, le Sdf. In Giordania, 3mila i soldati Usa schierati, il presidente Emmanuel Macron ha acceso i riflettori sulla base aerea nel nordest desertico da cui sono partiti i caccia per intercettare i droni iraniani nell’attacco a Israele. Lo aveva già fatto a dicembre, andando a visitare per Natale i 350 soldati della struttura. Ma la base giordana che desta le maggiori preoccupazioni è la ‘Torre 22’: situata al confine siriano – si staglia a una manciata di chilometri dalla base di al Tanf – è stata attaccata dai droni delle milizie filoiraniane a gennaio con un bilancio di tre soldati americani uccisi e oltre 40 feriti. La presenza militare americana in Medio Oriente si snoda poi con le molteplici basi in Arabia Saudita, Emirati, Qatar, Baharein, Kuwait, Gibuti, Oman che ospitano oltre 40mila soldati, a cui vanno aggiunti i britannici. Ma si tratta di Paesi che difficilmente potrebbero finire oggi nel mirino di Teheran, a meno di non voler correre il rischio di dare il là alla Coalizione regionale anti-Iran evocata da Tel Aviv.

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