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A Samarcanda si mette in scena l’altra metà del mondo

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Tra ieri e oggi si svolge a Samarcanda (Uzbekistan) la riunionee della Shanghai Cooperation Organization (SCO). Di che si tratta? Bé, intanto la SCO è la più vasta istituzione internazionale dopo l’ONU. Fondata appunto a Shanghai nel 2001, fu a lungo nota come gruppo dei cinque (Shanghai Five), con riferimento ai Paesi fondatori (Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan), cui andò ad aggiungersi l’Uzbekistan. Vi si trovano Stati membri (si sono aggiunti nel frattempo India, Pakistan e Iran), osservatori (Afghanistan, Bielorussia e Mongolia, compresa l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite) e partner del dialogo (come la Turchia).

SCO significa, in buona sostanza, la metà della popolazione terrestre, 1/5 della superficie del pianeta e 1/3del PIL mondiale.

Samarcanda, dal suo canto, è un luogo-simbolo dell’immaginazione occidentale, che però, quando lo cali nella realtà storica, può dare qualche problema di “inquadramento”, per così dire. Un delle città più antiche del mondo, vecchia almeno quanto Roma, che tuttavia non si conforma ai modelli insediativi europei. Questi basano la loro perennità e la loro prosperità su un contado agricolo che ne assicura la sicurezza economica e quindi la proiezione politica ed economica su più vasti spazi. Qui è il vuoto delle steppe che si impone, le immense distese semi-aride, dove il commercio di lunga distanza, la favolosa “Via della Seta” che unisce tradizionalmente la cinese Sian con Bisanzio, a garantire prosperità durevole a questa che Marco Polo seppe riconoscere come “nobile cittade” dove finalmente si incontravano, nel segno degli affari, “cristiani e saracini”. Samarcanda, dipiù, è la capitale “fissa” dell’impero di Tamerlano, un’entità politica mongola e quindi di cultura nomadica: mobile, instabile secondo i canoni d’Occidente.  Condensato di memorie distruttive –da Baghdad e Damasco, saccheggiate e distrutte da Tamerlano, fino a Delhi- viene impreziosita di edifici pubblici e mochee, che oggi ne fanno la perla centrasiatica dei Patrimoni mondiali dell’Umanità dell’Unesco.

La SCO non è un’alleanza militare, diciamo subito, e nemmeno un’organizzazione di tipo produttivo: anche se si occupa di strategia e di economia. Piuttosto, è un forum istituzionale di dialogo e di progettazione politica, dove una buona metà del mondo, che non si riconosce nelle letture globalitarie dell’Occidente, tanto meno nei suoi interessi, cerca di affermare un suo profilo internazionale. Costruisce accordi per smussare i motivi di contesa, immagina programmi di lungo respiro per edificare un ordine economico non alternativo a quello egemonizzato dall’occidente, ma nel quale possano trovare spazio le legittime aspirazioni di autonomia e benessere dei popoli interessati.

E’ questo il senso primo e consensuale dell’incontro di Samarcanda di questi giorni. Affermare la volontà di un mondo che esiste di là dalle rappresentazioni (e le autorappresentazioni) dell’Occidente e vuole contare per le proprie ragioni, la propria storia, la propria cultura, la propria territorialità.

Attenzione, dunque, quando tra Washington e Bruxelles, si parla del “cattivissimo Putin”: che da quest’altra metà del mondo è giudicato con altre categrie, diverse dalle retoriche dell’UE e degli USA. Da questa metà del mondo, secondo un approccio diverso, anti-ideologico, multidimensionale e multiscalare, possono addirittura venire spinte negoziali che attenuino il carattere aggressivo di Putin. In buona parte, ormai, misurabile come risposta alle spinte belliciste di USA e,in subordine, UE. Non è affatto un caso che mentre si preparava il vertice di Samarcanda, il Pontefice in persona invocava nuovamente la pace dal Kazakistan, dove si trovava in visita pastorale. Un’invocazione forte e dolente, già ascoltata in tutti questi mesi di guerra, sulla scia della parola di Matteo: “Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt, 5,9. 

Attenzione ad insinuare che la Cina è isolata su Taiwan. La posizione di Pechino è chiara e netta su questo punto: l’isola è parte integrante della Cina –riconosciuta come Stato da un pugno di Paesi, anche minuscoli- e tutto ciò che la riguarda è una questione interna del Celeste Impero. Chi, invece, deve spiegare chec’entra con Taiwan,sono proprio gli Stati Uniti! Del resto Xi Jinping, mentre si accinge a rafforzare il suo potere a Pechino in occasione del XX Congresso del PCC di Ottobre, cerca le vie di rilancio del grande progetto intitolato proprio alla “Via della Seta” e nessun luogo, come Samarcanda, è più opportuno per riaffermare la continuità storica e culturale di questo visionario programma economico-politico.

Attenti a considerare quelle posizioni statuali che, se da osservatori occidentali possono apparire ambigue, sono in realtà, da punti di vista asiatici, solo espressioni spregiudicate di politiche che vogliono cogliere “l’attimo fuggente”. Cercando di capire che cosa i Paesi presenti a Samarcanda si possono portare a casa dalle situazioni geopolitiche presenti e future: anche di conflitto aperto, anche di contesa armata. Intendiamoci: l’India di Narendra Modi gioca opportunisticamente la carta energetica e quella alimentare in connessione con la crisi ucraina. Ed ha perfettamente ragione quando, per bocca del suo Ministro degli Esteri, Subramanyam Jaishankar, afferma che: “Sarebbe ora che gli europei la smettessero di pensare che i problemi loro siano problemi del mondo e che i problemi del mondo non siano affari loro”. Ciò non può certo far dimenticare che l’India resta uno dei Paesi più insopportabilmente inegualitari al mondo, dove è in corso una recrudescenza senza precedenti delle violenze confessionali indù nei confronti di altri credi religiosi, musulmani in primo luogo, ma anche cristiani. 

E intendiamoci: l’Iran resta una teocrazia sciita impegnata in uno scontro estremo con l’Arabia Saudita, capofila della umma islamica sunnita. La questione nucleare è comprensibilmente al centro di molte preoccupazioni, occidentali e non. Ma è certo che l’agency geopolitica iraniana deve pur avere uno spazio di autonomia e di legittimazione giuridico-diplomatica che l’Occidente non sembra disposto a concedere e che nell’ambito della SCO, invece, può trovare una sua possibilità di realizzazione, sia pur condizionale.

A Samarcanda è presente anche la Turchia, nel quadro di una strategia che vede Erdogan a sua volta interprete di una visione neo-sultanale – e quindi imperiale ed espansionista- del suo Paese. Anche, ma non certo esclusivamente, in rapporto alla crisi ucraina, nella quale Ankara ricerca e coltiva ruoli di mediazione che qualche frutto l’hanno pur dato (ad esempio per quel che concerne l’esportazione di grano kievano), come ha riconosciuto lo stesso Draghi in occasione della sua visita in Turchia. Resta da capire in che modo, dato il contesto, il Pese anatolico gioca la sua carta NATO, quale unico Stato presente a Samarcanda anche nella sua veste (pur non ufficiale) di membro dell’Alleanza atlantica.

Per l’occidente nessuna minaccia, ma solo un messaggio affidato alla classica bottiglia: non è più tempo di imporre visioni egemoniche. Non paga più cercar di convincere i popoli e i protagonisti della politica non con ragioni ma con retoriche. Da Samarcanda, giunge, per chi vuol sentirlo, il richiamo pressante alla restaurazione della politica: con i suoi rischi, si capisce, ma anche con le sue inaggirabili possibilità di pace, di sviluppo e di giustizia.    

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Gli Obama con Harris, ‘sarai una presidente fantastica’

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Last but not least: ultimo, ma non certo per importanza, a dare l’endorsement a Kamala Harris per la Casa Bianca è Barack Obama con la moglie Michelle. Un sostegno ben coreografato anche nei tempi. Quasi a serrare definitivamente le fila del partito dopo aver evitato un abbraccio immediato per apparire al di sopra delle parti e non oscurare né la nuova ribalta per Kamala né il sofferto addio di Joe Biden alla corsa. Nell’aria da giorni, l’endorsement è arrivato con un video che immortala la telefonata dell’ex coppia presidenziale alla Harris, sullo sfondo di un Suv nero. Una chiamata che evidenzia una amicizia lunga oltre 20 anni e un potenziale legame storico tra il primo presidente afroamericano e quella che potrebbe diventare la prima donna di colore alla Casa Bianca. Con uno slogan apparso tra i fan dei primi comizi che già li unisce: ‘Yes, we Kam’ (le iniziali di Kamala, ndr), un richiamo al vincente slogan obamiamo ‘Yes, we can’.

“Non posso fare questa telefonata senza dire alla mia ragazza, Kamala, che sono orgogliosa di te. Sarà storico”, ha esordito l’ex first lady. “Michelle e io non potremmo essere più orgogliosi di sostenerti e di fare tutto il possibile per farti vincere queste elezioni e arrivare allo Studio Ovale”, le ha fatto eco Barack, che poi su X si è detto sicuro che sarà “una fantastica presidente”. Kamala ha ringraziato, con malcelata sorpresa: “Oh mio Dio. Michelle, Barack, questo significa così tanto per me. Non vediamo l’ora di compiere questa impresa con voi due, Doug e io…”, ha affermato la vicepresidente Usa. “Ma più di tutto, voglio solo dirvi che le parole che avete detto e l’amicizia che ci avete dato in tutti questi anni significano più di quanto io possa esprimere, quindi grazie a entrambi… E ci divertiremo anche in questo, non è vero?” ha aggiunto. Gli Obama hanno diffuso anche una dichiarazione.

“Non potremmo essere più entusiasti ed eccitati di sostenere Kamala Harris come candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti. Siamo d’accordo con il presidente Biden: scegliere Kamala è stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Ha il curriculum per dimostrarlo”, scrivono, ricordandone l’impegno come procuratrice generale in California, senatrice e vicepresidente. “Ma Kamala – sottolineano – ha più di un curriculum. Ha la visione, il carattere e la forza che questo momento critico richiede. Non abbiamo dubbi che abbia esattamente ciò che serve per vincere queste elezioni… In un momento in cui la posta in gioco non è mai stata così alta, ci dà a tutti motivo di sperare”. Quindi l’impegno a fare “tutto il possibile” per farla eleggere. Già si parla di comizi ed eventi insieme, capaci sicuramente di mobilitare grandi folle. Come quelle che Harris sta attirando sui social: il suo nuovo account su TikTok ha conquistato 100 mila follower in 30 minuti. Prosegue intanto il braccio di ferro sul duello tv tra lei e Trump.

Domenica il tycoon si era detto disponibile a mantenere il confronto del 10 settembre – concordato in precedenza con Biden – ma spostandolo dalla “fake” Abc a Fox News, l’emittente dei conservatori dove lui è di casa. Quindi martedì aveva ribadito di essere “assolutamente” pronto a dibattere con il probabile nominee dem, aggiungendo però di non aver concordato nulla, se non il duello con Biden. Giovedì l’ultima correzione di tiro: la sua campagna ha precisato che non ci sarà alcun dibattito finchè i dem non avranno nominato formalmente il candidato. “Che cosa è successo al ‘quando vuoi, dove vuoi’?”, lo ha provocato Kamala rinfacciandogli le parole che il tycoon aveva usato per sfidare Biden e accusandolo di fare marcia indietro. Probabilmente Trump sta cercando di minare la credibilità di Abc, sperando che la tv spinga il confronto a suo favore o come alibi nel caso Harris se la cavasse bene. Oppure, secondo altri, lui e il suo team hanno semplicemente paura della sua performance contro l’ex procuratrice che lo paragona a truffatori e predatori sessuali.

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Dall’Ue i primi 1,5 miliardi a Kiev dagli asset russi

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Una prima tranche simbolica di aiuti per Kiev e una risposta decisa a Mosca. Dopo mesi di negoziati estenuanti culminati nell’accordo siglato al G7 di Borgo Egnazia, l’Europa riesce a tradurre in realtà l’ambizione di utilizzare gli extraprofitti derivanti dagli asset sovrani russi congelati in pancia al continente per dare nuova linfa alle forze ucraine nella resistenza all’invasione e nella ricostruzione. L’annuncio di un trasferimento iniziale da 1,5 miliardi di euro – arrivato dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen – ha subito scatenato l’ira del Cremlino, che ha bollato come “illegale” l’operazione minacciando ritorsioni giuridiche.

Arginato il veto di Viktor Orban con uno stratagemma legale, i Ventisette sono riusciti nei giorni scorsi a concordare di impiegare i proventi generati dagli interessi sui 192 miliardi di euro di beni russi immobilizzati e detenuti a Bruxelles dal deposito di titoli Euroclear. Beni che – stando ai dati diffusi dallo stesso istituto finanziario – tra febbraio e giugno di quest’anno hanno fruttato extraprofitti per 1,55 miliardi. Risolti anche gli ultimi cavilli giuridici – dopo un lungo dibattito per evitare che l’operazione finisse per assumere le sembianze di una confisca -, il via libera ufficiale per far partire la prima tranche è arrivato dalla società belga il 23 luglio. Con una trattenuta del 10% dei proventi come cuscinetto contro rischi legali e finanziari. Un passo per dimostrare che l’Europa “resta dalla parte dell’Ucraina” e che, ha rivendicato von der Leyen spalleggiata anche dall’Alto rappresentante Josep Borrell, “non esiste simbolo o uso migliore del denaro del Cremlino che usarlo per rendere l’Ucraina e tutta l’Europa un posto più sicuro in cui vivere”.

La quasi totalità del denaro sarà ora convogliato a Kiev tramite la European Peace Facility (Epf) – lo strumento dell’Ue per gestire gli interventi nei conflitti – per fornire armi alle truppe ucraine. Un restante 10% sarà invece allocato in aiuti umanitari attraverso la Ukraine Facility, il fondo Ue dedicato alla ricostruzione post-bellica. Un sostegno “fondamentale”, nell’ottica del premier ucraino Denys Shmyhal, per “rafforzare le capacità di difesa” nazionali impegnate a schermare gli attacchi di Mosca, che nelle ultime ore ha colpito con droni le strutture energetiche nelle regioni settentrionali di Chernihiv e Zhytomyr. La collera di Vladimir Putin però non si è fatta attendere.

Questa operazione, ha tuonato il portavoce dello zar, Dmitry Peskov, “non rimarrà senza risposta”. Minacce davanti alle quali l’Europa non dà comunque cenno di volersi fermare perché il Cremlino, è stata la replica della vicepresidente Vera Jourova, “è uno spietato aggressore e deve pagare per questa guerra”. Al summit in Puglia i Grandi della Terra avevano concordato di sostenere un prestito di 50 miliardi di dollari a favore di Kiev da ripagare proprio con gli interessi sui circa 300 miliardi di dollari di asset russi congelati complessivamente in Occidente.

Un’intesa trovata in un delicato equilibrio tra il pressing americano e la prudenza degli europei, impegnati a fare da garanti all’operazione e preoccupati anche da possibili reazioni dei mercati e ripercussioni sul sistema monetario. Ora, negli auspici dei Ventisette, gli stanziamenti dovrebbero raggiungere una somma tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro l’anno. In attesa della prossima rata, nel marzo 2025, sul tavolo sono già planate le prime opzioni per estendere il rinnovo delle sanzioni sugli asset della Banca centrale russa e garantire il prestito.

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Domenica negoziati a Roma su Gaza con Cia e Mossad

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La trattativa per una nuova tregua a Gaza e il rilascio degli ostaggi israeliani passa per Roma. Domenica la capitale italiana ospiterà un vertice tra il direttore del Mossad David Barnea, quello della Cia William Burns, il premier del Qatar Mohammed bin Abdel Rahman al-Thani e il capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamal. Obiettivo della riunione – ha spiegato il sito israeliano Walla – è discutere il dossier tregua e ostaggi la cui soluzione da mesi appare inarrivabile, in un’altalena di spiragli che poi puntualmente si chiudono. E neppure stavolta – temono fonti israeliane e Usa citate da Walla – ci sarebbe una svolta all’orizzonte: i negoziati dovrebbero limitarsi a definire “la strategia da seguire”.

La missione di Benyamin Netanyahu negli Usa – con l’intervento al Congresso e gli incontri con Biden, Harris e anche Trump – non sembra per ora aver modificato la linea del premier. Il capo del governo israeliano – che ha irrigidito la sua posizione già prima della partenza per Washington – non intende cedere su due dei punti principali in discussione: il primo è l’istituzione di un meccanismo per monitorare il movimento di armi e militanti palestinesi dal sud al nord della Striscia; il secondo è il mantenimento del controllo israeliano del ‘Corridoio Filadelfia’, la striscia di terra tra Gaza e l’Egitto da cui in questi anni Hamas ha contrabbandato armi e mezzi nell’enclave palestinese. Quel rubinetto va chiuso, ha spiegato Netanyahu che invece è molto più disponibile, anche per le pressioni dell’Egitto, a riaffidare il controllo del Valico di Rafah agli europei e ai palestinesi. Nell’incontro di domenica non è previsto che Barnea sia affiancato dal capo dello Shin Bet Ronen Bar né dal capo del team che si occupa degli ostaggi, il generale Nitzan Alon.

Un funzionario israeliano – citato da Walla – ha escluso che a Roma si possa arrivare ad una svolta. Secondo lui, non ci sono segnali che la pressione di Biden su Netanyahu abbia convinto il premier ad ammorbidire le sue nuove richieste, che dovrebbero poi essere poi trasferite “entro due giorni” – come annunciato dal premier stesso – ad Hamas. “Netanyahu – ha spiegato con tono pessimistico una fonte israeliana a Walla – vuole un accordo che non può essere raggiunto. In questo momento non è pronto a muoversi, quindi potremmo finire in una crisi dei negoziati piuttosto che in un accordo”. Anche un’altra fonte negoziale, citata da Haaretz, ha parlato di crescenti tensioni tra Netanyahu e il team incaricato dei colloqui. “Il premier – ha detto al quotidiano – sta consapevolmente cercando di mettere in crisi i negoziati perché pensa di poter migliorare le posizioni. Questo significa correre un rischio non calcolato con la vita degli ostaggi”.

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