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Salute

L’oncologo napoletano Saverio Minucci a Juorno: abbiamo scoperto come far morire “di fame” le cellule tumorali

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Saverio Minucci, 54 anni,  è a capo del gruppo di ricercatori che ha sperimentato che le cellule tumorali muoiono se sottoposte ad una dieta ipoglicemia associata all‘assunzione di un farmaco anti diabetico (la metformina).  L’esito della ricerca è stata pubblicata sulla rivista Cancer Cell.  E sta facendo il giro del mondo scientifico. Saverio Minucci, vive a Milano, è nato a Napoli, ma ha vissuto a Cardito, ha frequentato il liceo classico Francesco Durante di Frattamaggiore, e poi la Facoltà di Medicina di Napoli. Quindi la specializzazione in oncologia. Lo raggiungiamo telefonicamente.  

Dopo il liceo (tra l’altro, ho saltato l’ultimo anno e mi sono diplomato sostenendo l’esame orale il giorno dopo la vittoria dei Mondiali dell’82!(60/60 ndr), ho frequentato la 1 facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Napoli. Ho fatto Medicina perché volevo fare ricerca: non ho mai voluto fare il “medico”.” Nel corso degli studi (3° anno, quindi piuttosto presto) all’esame di Patologia desta l’interesse del professore Giovanni Alfredo Puca, che lo invita ad entrare nei laboratori di ricerca, “dove ho iniziato a “fare pratica” soprattutto sullo studio di proteine (i recettori degli estrogeni) coinvolti nel tumore al seno”.

Laureato (110 e lode) nel luglio 1988, si specializza in oncologia (con lode) sempre a Napoli. “Nel frattempo ho frequentato i laboratori dell’Istituto Internazionale di Genetica e Biofisica (Prof Pier Paolo Di Nocera), per aumentare la mia conoscenza sperimentale della biologia molecolare (in pratica, per passare dallo studio delle proteine a quello del DNA).

“Contentissimo del periodo a Napoli: ho avuto a che fare con scienziati competenti, creativi, che hanno dato e danno contributi importanti. Ma il limite restano le risorse, ed un po’ di difficoltà nel gestire anche quelle esistenti in maniera ottimale. Se la scarsità di risorse acuisce l’ingegno (ricordo che facevamo a gara per ottimizzare alcune procedure sperimentali e spendere il meno possibile: alcune tecniche messe a punto a Napoli costavano il 10% – dieci volte meno!!!- di quanto poi ho visto venivano a costare negli States…!), oltre alcuni risultati senza risultati non si può andare”.

Decide di allargare le conoscenze e nel 1992 (fino al 1997) si trasferisce in America.

“Per poter andare “oltre”, e per poter vedere come si lavora in un laboratorio “internazionale”, a questo punto quindi mi sono spostato negli Stati Uniti, ai National Institutes of Health (NIH) di Bethesda, vicino Washington D.C. Si tratta del centro di ricerca biomedico più grande al mondo (del governo americano), con risorse a quei tempi praticamente illimitate. Ho lavorato come “Visiting Fellow” e poi come “Visiting Associate” dal 1992 al 1997. Ho lavorato nella Sezione di “Genetica Molecolare dell’Immunità” diretta dal dr Keiko Ozato, una giapponese molto energica e competente, emigrata negli States molti anni prima.

L’esperienza americana è stata fondamentale: 

  • A definire con maggiore precisione gli ambiti della ricerca sui tumori nei quali sviluppare la mia linea di studi (EPIGENETICA DEI TUMORI)
  • Costruire grazie agli studi svolti li’ la mia “reputazione” internazionale come giovane scienziato
  • Imparare a lavorare nel contesto di collaborazioni molto complesse fra molti gruppi, istituzioni diverse, spesso in continenti diversi (networking pre-Internet!)
  • Dal punto di vista personale, è stata una occasione di immergersi in un crogiuolo di razze, culture, umanità incredibile

Avrei potuto rimanere all’NIH, ma ho sentito il richiamo…”.

Infatti nel 1997 decide di tornare nel vecchio continente.

Ho sempre desiderato tornare in Europa (in Italia): credo che il nostro Paese – malgrado tutti i suoi problemi- continui ad essere uno dei posti dove si vive meglio, e spero tanto che possa continuare ad esserlo (anche se i segnali più recenti da economia, politica, ecc. non sono necessariamente incoraggianti). Negli USA, ci sono sacche di povertà inimmaginabili  in Italia, senza accesso a quelli che dovrebbero essere diritti di base (alla sanità, all’istruzione) che noi diamo per scontati… Ho cercato quindi di rientrare ed avevo già quasi firmato un contratto per rientrare nei laboratori dell’EMBO ad Heidelberg in Germania (L’organizzazione Europea di Biologia Molecolare). Poi ho appreso la notizia che a Milano un nuovo Istituto (lo IEO, fondato da Umberto Veronesi) era in una fase di espansione dei laboratori di ricerca, ed ho contattato il prof Pier Giuseppe Pelicci (il direttore del Dipartimento di Oncologia Sperimentale in IEO). Abbiamo avuto uno scambio di telefonate, poi ci siamo incontrati a Bethesda qualche settimana dopo perché si trovava li per una visita scientifica, ci siamo incontrati di persona, e da lì mi sono convinto che tornare in Italia poteva essere una scommessa da fare, e di cui non mi sono pentito”.

Minucci rifiuta l’offerta dalla Germania, e nel 1997 rientra a Milano. Dove dal 1998 e fino al 2002 è “Scholar” dell’AIRC. Nel 2002 (ad oggi) diventa professore associato e poi ordinario di patologia generale presso Università di Milano (Dipartimento di Bioscienze), e Direttore di Unità e poi anche del  Programma Nuovi Farmaci presso lo IEO.

Appena arrivato a Milano, per una fortunata coincidenza ci siamo trovati ad avere un match incredibile fra le competenze che avevo accumulato all-NIH, ed un progetto sulle leucemie che era in corso nel laboratorio del professore Pelicci.  Abbiamo combinato le nostre competenze, sviluppato una ipotesi e siamo partiti subito con la sua validazione…non ho avuto neanche il tempo di ambientarmi e già eravamo nel pieno di un progetto entusiasmante ed altamente competitivo… Sapevamo infatti che c’erano altri gruppi in Europa e negli Stati Uniti che stavano lavorando a progetti simili, ed è stata una corsa contro il tempo! In ambito scientifico c’è spesso collaborazione fra vari gruppi, ma ovviamente c’è anche un po’ di spirito competitivo (a volte più di un poco…!) per chi arriva prima ad un risultato.  Abbiamo completato una serie di esperimenti in un tempo molto rapido, lavorando giorno e notte. Ricordo che a Ferragosto del 1997 abbiamo voluto un meeting d’emergenza per discutere nuovi dati, e diversi colleghi in vacanza hanno interrotto le vacanze e sono rientrati a Milano per terminare gli esperimenti…e ce l’abbiamo fatta, siamo riusciti a pubblicare su Nature (la più autorevole rivista scientifica al mondo) i nostri risultati alla fine del 1997.

È stato un risultato molto importante per i nostri gruppi, per il nostro Istituto e da quello sono venuti molti altri progetti nell’ambito dell’epigenetica dei tumori.

Più di recente, ci si è accorti che l’epigenetica dei tumori si interseca con il metabolismo delle cellule tumorali…da qui il progetto recentemente pubblicato in Cancer Cell.

“Malgrado la ricerca sia una passione prima ancora che un lavoro, c’è un aspetto che mi ha sempre lasciato un pò di amaro in bocca: dal momento in cui noi in laboratorio (gli “scienziati”) facciamo una scoperta, al momento in cui per i pazienti può esserci un beneficio, possono passare molti anni (anche più di dieci anni). Ci sono tanti passi da fare….e lavorando in un centro che è anche e prima di tutto un ospedale oncologico e vedendo e parlando con i pazienti, ho sempre cercato di premere il più possibile anche sugli aspetti “traslazionali” (cioè il passaggio dalla ricerca alla terapia).

In questo, ho affrontato due attività diverse:

  1. Ho partecipato alla fondazione di Genextra, una società di biotecnologie “spin-off” della Università di Milano ispirata da Umberto Veronesi, e resa possibile da un gruppo di esponenti della industria e della finanza italiani guidati da Francesco Micheli.
    Questa società
    (di cui è stato Direttore Scientifico per 5 anni, fino al 2009) ha lo scopo di portare nuove terapie al mercato. Qui non ho fatto solo il ricercatore alle prese con il proprio progetto, ma ho dovuto coordinare dal punto di vista scientifico un team che ha individuato diversi progetti interessanti, ed ha cercato di svilupparli industrialmente, e quindi di portarli al paziente. Fra questi, quello di cui sono più orgoglioso e di avere contribuito alla crescita di una delle nostre società, Intercept Pharmaceuticals, che è riuscita qualche anno fa a portare un farmaco (contro la cirrosi biliare primitiva, ma potrebbe funzionare anche su malattie molto più diffuse ed alcuni studi si sono appena conclusi con esiti positivi) sul mercato: quindi davvero siamo riusciti ad arrivare ai pazienti!
  2. Non era possibile conciliare le due attività (industriale ed accademica), ed ho preferito concentrarmi sulla parte di ricerca. Ma non mi sono rassegnato a restare confinato al laboratorio…(è direttore insieme al professore Giuseppe Curigliano, che è responsabile per gli aspetti clinici, del Programma Nuovi Farmaci dello IEO). Obiettivo è semplice: trovare nuove terapie, migliorare l’uso dei farmaci già esistenti, identificare “marker” che ci facciamo capire quando dare un farmaco rispetto ad un altro (la cosiddetta stratificazione dei pazienti). In particolare, sono focalizzato sulle terapie di combinazione: per molti motivi ritengo estremamente improbabile che un singolo farmaco possa curare se non forme molto particolari di tumore. Una combinazione di farmaci può essere molto più efficace della somma dei singoli trattamenti. Sono soddisfatto perché anche qui siamo direttamente a contatto con i pazienti”.

Minuci ha un rapporto ‘viscerale’ con la Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro: è stato borsista dell’AIRC a Napoli, è rientrato con fondi per il rientro di scienziati italiani dall’estero sempre dall’AIRC, e l’AIRC continua a finanziare ininterrottamente la sua ricerca dal suo rientro in Italia nel 1997-1998.

“Non esiste ricercatore sul cancro in Italia che non abbia un debito nei confronti dell’AIRC e dei suoi sostenitori: in periodi in cui i fondi pubblici per la ricerca sono sempre stati ridotti (o ridottissimi), l’AIRC ha svolto un ruolo fondamentale.

Ovviamente l’AIRC non basta, negli ultimi anni le tecnologie a nostra disposizione sono diventate sofisticatissime, ed anche se i costi si sono ridotti in maniera drammatica (sequenziamento del DNA: costo 20 anni fa 3 miliardi di dollari, adesso qualche migliaio di dollari: UN MILIONE DI VOLTE in meno…!!!), le esigenze della ricerca sono diventate maggiori…per cui una parte importante del mio lavoro consiste nel cercare fondi per poter continuare a sostenere le nostre ricerche”.

Ormai vive a Milano, sposato, moglie della provincia di Napoli, due figli, (la prima è nata in America, il secondo a Milano)  “ho lasciato Napoli da 25 anni e passa, ma il legame resta stretto, fino a pochi anni fa i miei genitori vivevano lì, adesso vivono a Roma e quindi le visite personali sono meno frequenti di un tempo. Ma restano alcune amicizie, e poi in ambito scientifico ci sono collaborazioni con la professoressa Lucia Altucci (che conosco dai tempi dell’Università)  dell’ Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli,  l’Istituto Pascale ed il suo centro di tecnologie a Mercogliano (Avellino)Con un collega australiano ed uno napoletano (il professore Alfredo Budillon, del Pascale), abbiamo iniziato qualche anno fa ad organizzare a Napoli un congresso internazionale sulle terapie epigenetiche dei tumori: è una maniera per portare colleghi da tutto il mondo a Napoli, ed anche per dare la possibilità ai giovani dei nostri laboratori di partecipare attivamente e farsi le ossa…”.

Gli piace leggere molto, e scrive pure tanto, ma ama soprattutto la musica, infatti è diplomato al Conservatorio di San Pietro a Majella, frequentato contestualmente al liceo.

Non ho molto tempo per suonare, ma ho un pianoforte elettrico (cosi posso suonare con la cuffia e non disturbo nessuno, anche a tarda notte) ed ogni tanto suono e compongo… Mio musicista preferito rimane Bach, ma ascolto anche musica pop, jazz ed anche rap!”

Da giovane seguiva il Napoli, l’ultima partita vista allo stadio è quella che assegno lo scudetto agli azzurri “ricordo ancora il punteggio, Napoli Fiorentina 1 a 1).

Giuseppe Maiello, giornalista, da 42 anni collabora con Il Mattino. È stato responsabile della Comunicazione per 20 anni per l'area Sud di Poste Italiane. Per la sua attività è stato insignito dal Presidente della Repubblica dell'onorificenza di "Maestro del lavoro". Ha diretto alcune testate locali e un mensile sportivo nazionale. Ha ottenuto diversi riconoscimenti tra cui il Vesuvio d'oro e il premio giornalistico città di Afragola.

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In Evidenza

Carente in Italia un farmaco chemioterapico molto usato

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Si chiama fluorouracile ed è un farmaco chemioterapico molto utilizzato dai pazienti oncologici. Al momento, è però “carente o disponibile in quantità ridotta” in Italia. A dare notizia dell’ultima carenza registrata sul nostro territorio è l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) insieme all’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), che rassicura tuttavia i pazienti che si stanno mettendo in atto tutte le procedure necessarie per ripristinarne la disponibilità e fornisce indicazioni precise ai medici oncologi su come gestire la situazione. “Le confezioni disponibili non saranno in grado di soddisfare le richieste del mercato per i prossimi mesi”, afferma l’Aifa sul proprio sito. L’Agenzia assicura però di essere “in costante contatto con i titolari delle Autorizzazioni alle Immissioni in Commercio dei medicinali a base di Fluorouracile per avere aggiornamenti su eventuali prossime forniture aggiuntive”.

L’Aifa si è inoltre detta disponibili a rilasciare alle strutture sanitarie che ne faranno richiesta l’autorizzazione a importare il farmaco dall’estero. A preoccupare è però proprio il largo utilizzo di questo chemioterapico. Il fluorouracile, spiegano gli oncologi, è un farmaco che rientra in numerosi schemi di trattamento per neoplasie dell’apparato gastroenterico, della mammella e del distretto testa-collo e la sua carenza, sia pur transitoria, “rappresenta un reale problema per la pratica clinica oncologica anche a causa della impossibilità di sostituirlo con altri farmaci per uso parenterale”. “Stimiamo – sottolinea il presidente Aiom, Francesco Perrone – che circa il 20% dei nuovi pazienti oncologici ogni anno potrebbe avere potenzialmente bisogno del fluorouracile, si tratta di 70-75mila pazienti l’anno”.

Proprio per contribuire al superamento della carenza, spiega, “daremo indicazioni ai clinici affinchè considerino schemi terapeutici alternativi con farmaci orali, come la capecitabina, per i pazienti che inizieranno un nuovo trattamento nelle prossime settimane, se previsti nelle linee guida disponibili e clinicamente indicati. Cercheremo di dare la priorità ai pazienti già in trattamento e ci auguriamo che questa allerta possa presto rientrare”. Ribadendo che Aifa “sta già mettendo in moto anche tutte le procedure inerenti l’import del farmaco per superare il momento di criticità”, il presidente degli oncologi sottolinea anche “l’importanza di questa rinnovata collaborazione con l’Agenzia: questo metodo di collaborazione, e la condivisione dei contenuti, tra società scientifiche ed un ente regolatorio come Aifa – afferma – è fondamentale ed è a tutto vantaggio dei pazienti”.

Il problema della periodica carenza di farmaci non è una novità in Italia, ma si è da qualche anno acuito a seguito del conflitto in Ucraina e della difficoltà di produzione di alcuni principi attivi in vari paesi. Un problema che il nuovo presidente Aifa, Robert Nisticò, ha indicato come una priorità nel suo discorso di insediamento all’Agenzia, lo scorso 22 aprile: “Sarà nostro compito fondamentale assicurare che non ci siano carenze nel mercato di farmaci indispensabili. In questo particolare momento in cui purtroppo ci sono conflitti alle nostre porte che pesano sulla filiera del farmaco anche in Italia, l’Agenzia insieme con le industrie, dovrà assicurare la massima disponibilità per un approvvigionamento continuo dei farmaci essenziali sia nel nostro Paese che nei paesi più in difficoltà”. Presso il ministero della Salute è inoltre attualmente attivo un Tavolo tecnico di lavoro nel settore dell’approvvigionamento dei farmaci sul territorio italiano.

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Cronache

Non era lombalgia, ma un tumore: denunciati tre medici

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È morta a 61 anni per un tumore ai polmoni ormai in metastasi ma che è stato scoperto troppo tardi perché inizialmente scambiato per una lombalgia. Ora i figli di Stella Alaimo Franco, scomparsa a Treviglio (Bergamo) lo scorso 30 marzo, hanno presentato denuncia, assistiti dall’avvocato Massimo Trabattoni, nei confronti di tre medici dell’ospedale di Treviglio e anche dell’intera Asst Bergamo Ovest. Ipotizzano il reato di omicidio colposo, ma ora dovrà essere la Procura a stabilire se avviare delle indagini. Quello che i due figli della donna, Monica e Andrea, contestano ai medici bergamaschi è di non aver fatto luce fin da subito sul reale – e grave – male che aveva colpito la madre, “che era sempre stata bene e non aveva mai avuto neppure un colpo di tosse”, hanno raccontato. Il primo accesso della loro mamma in ospedale a Treviglio risale al 17 dicembre scorso, quando Stella si presenta al pronto soccorso lamentando un forte dolore alla gamba.

La donna viene dimessa con una diagnosi di lombalgia dopo essere stata sottoposta ai raggi nella zona lombosacrale. Ma i dolori alla gamba non passano, anzi aumentano, e il 4 gennaio viene riportata dal figlio allo stesso pronto soccorso. Stando alla denuncia dei familiari, la donna viene rimandata a casa senza ulteriori indagini. In entrambi i casi la prognosi è di zero giorni e nel secondo accesso un infermiere le avrebbe suggerito di prendere in autonomia un antidolorifico. Nei giorni successivi, grazie a un conoscente personale della famiglia, Stella Alaimo viene sottoposta a una risonanza magnetica, che rivela delle metastasi. La situazione precipita rapidamente. Il 23 gennaio una Tac evidenzia un tumore di 5 centimetri per 4 al torace, con dei noduli diffusi. Il 29 gennaio la prima visita oncologica all’Istituto dei Tumori di Milano. La diagnosi stavolta parla di ‘adeno carcinoma polmonare al quarto stadio plurimetastatico con carcinosi peritoneale’.

A febbraio la donna già non riesce più ad alzarsi dal letto. Il 30 marzo muore, cento giorni dopo il primo accesso al pronto soccorso. Una morte di fronte alla quale i due figli non si rassegnano: “Ci era stato detto dall’équipe che l’aveva in cura a Milano che se quel tipo di tumore fosse stato diagnosticato per tempo, avrebbe potuto essere curato, e che il ritardo della diagnosi errata dei medici di Treviglio ha causato gravi conseguenze, dal momento che la malattia era avanzata in modo irreversibile”. L’Asst Bergamo Ovest non ha voluto rilasciare dichiarazioni sull’episodio.

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In Evidenza

Neonata con rara malformazione nata a Salerno e gestita con competenza dai medici

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Parto eccezionale all’ospedale di Salerno. Una donna di 38 anni è stata dimessa dal Reparto di Gravidanza a Rischio dell’Aou San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona, diretto dal dottor Mario Polichetti, dopo aver dato alla luce una neonata con una rarissima malformazione. La paziente era stata trasferita dall’ospedale di Polla al Ruggi dove ha partorito sua figlia che sta bene anche se è tuttora ricoverata nel reparto di Neonatologia, diretto dalla dottoressa Graziella Corbo, per ulteriori controlli. La neonata, di quasi 3 chili, è portatrice di una condizione genetica molto rara, denominata ‘Situs Inversus’, ovvero un collocamento anomalo degli organi del torace e dell’addome con inversione di posizione, rispetto alla loro sede usuale.

La piccola paziente, ha infatti il cuore, lo stomaco e la colecisti a destra ed una malformazione della vena cava, vicariata dalla vena emiazygos. “Il parto in questione – spiega Polichetti – è un evento davvero straordinario e deve essere gestito con estrema competenza, per evitare eventuali complicazioni, ma siamo fieri ed orgogliosi che si sia concluso nel migliore dei modi”.

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