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Cronache

Inondava di cocaina Milano, il capo del narcotraffico della ‘ndrangheta Rocco Morabito sarà estradato in Italia

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Un tribunale penale di Appello dell’Uruguay ha confermato l’estradizione in Italia di Rocco Morabito, boss della ‘Ndrangheta calabrese, ‘most wanted’ negli Stati Uniti e condannato in contumacia dalla magistratura italiana a 30 anni di carcere. Arrestato nel settembre 2017 in un hotel di Montevideo dopo 23 anni di latitanza, Morabito (53 anni) – riferisce sulla sua pagina online il settimanale Busqueda – era agli arresti in attesa di un processo per falsificazione di documenti. Il pregiudicato ha ingaggiato nei mesi scorsi una battaglia legale con la magistratura locale per evitare l’estradizione, ed ora, riferisce il portale uruguaiano Subrayado, i suoi legali presenteranno un estremo appello alla Corte Suprema. Ma i buoni rapporti diplomatici tra i due stati faranno in modo da consentire una estradizione veloce in Italia del narcos calabrese.

Rocco Morabito detto ‘U Tamunga  inondava di cocaina Milano, conduceva  la tranquilla vita dell’imprenditore italiano in Uruguay, fatta di comodità ma senza lussi appariscenti così da tenere un basso profilo. Fu arrestato a causa di un suo errore: dopo una lite con la moglie era andato a dormire in un hotel, dove fu poi individuato. L’Interpol era già a conoscenza del fatto che Morabito si trovava in Uruguay dal mese di marzo, e la sua impronta digitale corrispondeva a quella in possesso dell’Identificación Civil. Il boss calabrese avrebbe inoltre iscritto la figlia all’Istituto scolastico con il suo vero nome.


I dati e le coincidenze raccolte nelle indagini hanno portato all’ordine di fermo del 2 settembre 2018, quando Morabito è stato tratto in arresto e ammanettato nella stanza dell’hotel dove si trovava, e dove si sentiva al sicuro dalla giustizia del suo Paese. Le autorità gli hanno confiscato, tra le altre cose in suo possesso, documenti e cellulari, dollari, un’arma da fuoco e coltelli. Passo dopo passo sono arrivati a Punta del Este, dove sono stati perquisiti due capannoni.
Da quello stesso momento è iniziato il lavoro congiunto con l’Italia: tre funzionari della polizia italiana, infatti, si sono recati in Uruguay, dove hanno incontrato Morabito, che non ha reso alcuna dichiarazione. Un incontro di “pura formalità”. Ma anche in assenza di dichiarazioni ufficiali, non si scarta l’ipotesi che i poliziotti italiani abbiano scambiato alcune informazioni con i colleghi uruguaiani.

C’è poi dell’altro, perché secondo quanto riferisce Telemundo 12, nei giorni a seguire, le autorità uruguaiane hanno ritenuto che Morabito si sarebbe stabilito in Uruguay, dove in realtà si dedicava ad attività legate al narcotraffico nella Repubblica Argentina, a giudicare dalle analisi dei chip sequestrati, e di uno in particolare appartenente ad un cellulare che permetteva connessioni non monitorate all’estero. Un complesso sistema di comunicazione che sarà al vaglio degli investigatori, tenendo conto della storia di Morabito, dei sospetti che la giustizia italiana ha su di lui, e del fatto che – negli ultimi 20 anni – il boss non abbia mai smesso di occuparsi del traffico internazionale di droga, tessendo una rete di distribuzione tra l’America Latina e l’Europa.
Non bisogna dimenticare, secondo informazioni ufficiali del Ministero dell’Interno dell’Uruguay, che Morabito si sarebbe occupato della gestione del trasporto di droga in Italia, della distribuzione a Milano, e del tentato l’invio dal Brasile di 592 kg di cocaina nel 1992 e di 630 nel 1993, tra gli altri reati. Secondo la stampa italiana, Morabito è infatti considerato “il re di Milano della cocaina”.
Mentre le autorità di entrambi paesi, in forma congiunta, sono all’opera per le formalità dell’estradizione, nel tentativo di stabilire se Morabito abbia o meno commesso in Uruguay reati legati al narcotraffico, gli avvocati difensori del boss, Victor de la Valle e Alejandro Balbi, hanno puntualizzato che esiste una ferma possibilità di neutralizzare l’estradizione del loro cliente.  Ma pare invece che l’estradizione sia vicina.

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Vincenzo Nibali: «Ero un carusu dannificu. La bici mi ha salvato dalla strada»

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Messina, la Sicilia, la fatica, la gloria. Vincenzo Nibali si racconta al Corriere della Sera, tra ricordi di un’infanzia ribelle, il riscatto sulla bicicletta e la consapevolezza maturata solo dopo il ritiro. Un’intervista intensa, autentica, a cuore aperto.

Una giovinezza a rischio: «Compagni con la pistola nello zaino»

«Ero un carusu dannificu», dice Nibali, usando l’espressione siciliana per “bambino disastroso”. Uno che attirava guai: sassate alle vetrate, petardi nelle cassette postali, motorini lanciati contro i muri. Una giovinezza vissuta in un quartiere difficile di Messina, dove alcuni compagni portavano la pistola a scuola. Nessuna mafia organizzata, ma il pizzo sì: «Colpì anche la cartoleria dei miei genitori».

La salvezza arriva su due ruote: «Sempre in salita, come da Messina»

La svolta arriva con la bici, a 12 anni, grazie al padre e ai suoi amici cicloturisti. Le prime gare, l’ammiraglia della Cicli Molonia, il traghetto per Villa San Giovanni che diventava un passaggio simbolico verso il sogno. A 15 anni vince a Siena e non torna più: «Mai avuto nostalgia. I miei genitori mi dissero: se ti impongono cose sbagliate torna, qui avrai sempre un lavoro. Mi ha aiutato a non cedere al doping».

L’ascesa, la gloria, il peso della vittoria

Nibali è uno dei pochi ciclisti ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri. Il Tour de France del 2014 è stato l’apice, ma anche l’inizio di un incubo: «Non potevamo camminare con la carrozzina di nostra figlia senza essere assaliti. Solo adesso che ho smesso, vivo davvero». E confessa: «Mai provato e mai pensato di doparmi. Ma ho pagato il sospetto solo perché vincevo ed ero italiano».

La caduta che fa crescere: l’Olimpiade sfumata

Nel 2016 era lanciato verso l’oro olimpico, ma cadde in curva. «Scelsi io di rischiare, e sbagliai. Nessuna scusa». Parla anche del secondo posto alla Liegi-Bastogne-Liegi, “scippato” da un dopato, ma senza rancore: «Non mi chiedo mai quanto ho perso per colpa del doping».

Il ritorno da turista: «Messina è ‘u megghiu postu nto munnu’»

Oggi Nibali è ambasciatore del Giro e padre presente. Ha visitato la Sicilia con le figlie per farla conoscere da turista: «Antonello da Messina, i templi di Agrigento, i boschi dei Peloritani… È il posto più bello del mondo». Un campione che, a distanza di anni, può guardarsi indietro con orgoglio: «A testa alta, sempre».

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Guerra dei cassonetti ai Parioli: scompaiono i bidoni davanti a casa Castellitto

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Nel quartiere elegante e silenzioso dei Parioli esplode una singolare guerra urbana, fatta di strisce gialle, rifiuti e cortili privati. Oggetto del contendere: un set di cassonetti della raccolta differenziata, misteriosamente spariti dalla carreggiata davanti alla villa dell’attore Sergio Castellitto.

I cassonetti finiscono nel cortile dell’attore

La miccia si accende nella notte tra il 20 e il 21 aprile. I bidoni che servivano i residenti della zona vengono spostati oltre il cancello della villa in cui vive Castellitto, allineati ordinatamente nel cortile. Una rimozione anomala che di fatto priva della raccolta l’intero isolato. Le strisce gialle, predisposte per accogliere i cassonetti, rimangono desolatamente vuote.

Secondo indiscrezioni, l’attore avrebbe più volte manifestato il suo malcontento per la presenza dei contenitori davanti all’ingresso della sua abitazione, considerandoli poco decorosi. I vicini, al contrario, li ritengono un servizio essenziale, invocandone semmai una manutenzione più frequente.

Denuncia in arrivo e reazione dei residenti

A seguito dell’episodio, il quartiere insorge. I residenti, costretti a girovagare per il quartiere con buste e cartoni, scattano foto e si interrogano sul destino dei contenitori. Tra loro anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino, recentemente trasferitosi nella zona.

Dopo poche ore, i cassonetti scompaiono anche dalla visuale del villino: né davanti al cancello né sul marciapiede. Ma non vengono ricollocati nella loro sede originaria. La vicenda, lungi dal concludersi, potrebbe ora avere conseguenze legali.

Ama pronta a sporgere denuncia

La municipalizzata dei rifiuti, Ama (foto Imagoeconomica), non intende lasciar cadere il caso. I vertici dell’azienda starebbero preparando una denuncia ai carabinieri per la scomparsa dei contenitori. Anche l’assessore al Verde del Municipio, Rosario Fabiano, si è attivato per fare luce sull’accaduto.

Il comitato Le Muse: “I cassonetti tornino al loro posto”

Dal comitato di zona Le Muse l’appello è chiaro: «Speriamo che quei cassonetti tornino al più presto al loro posto. Sarebbe grave se così non fosse. Si tratta di oggetti che appartengono alla collettività, ricordiamolo».

Intanto, nel quartiere ovattato dei Parioli, il decoro urbano si trasforma in una guerra di nervi, tra privacy e servizio pubblico, in attesa che si ristabilisca un fragile equilibrio tra rifiuti e rispetto.

 

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La madre del 17enne condannato per l’omicidio di Santo Romano: «Non è lui l’autore dei post provocatori»

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Ha deciso di rivolgersi alla polizia postale la madre del 17enne condannato a 18 anni e 8 mesi per l’omicidio di Santo Romano, ucciso nella notte tra l’uno e il due novembre scorsi a San Sebastiano al Vesuvio. Lo fa per chiedere chiarezza su una vicenda che – a suo dire – rischia di danneggiare ulteriormente il figlio.

La denuncia: «Quei post non li ha scritti mio figlio»

«Mio figlio è detenuto ad Airola, non ha accesso ai social e non è stato mai segnalato per l’uso di telefoni cellulari in modo clandestino», spiega la donna, assistita dall’avvocato Luca Raviele. E chiarisce: «Non può essere lui l’autore dei messaggi comparsi in rete dopo la sentenza». Messaggi che – accompagnati da immagini del ragazzo risalenti a mesi fa – contengono frasi provocatorie e offensive, come: «Io 18 anni e 8 mesi me li faccio seduto su un cesso».

Una pioggia di messaggi offensivi

Quei post, circolati in modo virale sui social, hanno fatto riesplodere le tensioni tra i familiari delle due fazioni coinvolte nella tragica vicenda. E la madre del minore condannato prende le distanze: «Non c’entriamo nulla. Né io, né parenti o conoscenti abbiamo scritto o condiviso quei contenuti. Spero che la polizia postale indaghi per risalire ai veri responsabili».

La notte dell’omicidio: una lite per una scarpa sporca

Tutto è iniziato in piazza Capasso, cuore della movida di San Sebastiano. Un banale litigio per una scarpa pestata ha innescato lo scontro tra due gruppi di ragazzi. Dopo un primo alterco, la situazione sembrava rientrata, ma secondo quanto ricostruito dagli inquirenti – anche grazie a un video – Santo Romano sarebbe tornato indietro rivolgendosi all’auto dove si trovava L.D.M. Un gesto, forse un lancio, e poi il dramma: due colpi di pistola al petto, esplosi dal 17enne. Santo muore sul colpo.

Un processo doloroso e una sentenza pesante

Martedì scorso è arrivata la condanna in primo grado: 18 anni e 8 mesi di reclusione per omicidio, tentato omicidio e detenzione di arma da fuoco. L’indagine è stata condotta dal pm Ettore La Ragione della Procura per i Minori. Una sentenza che ha alimentato il dolore dei familiari di Santo Romano, un ragazzo di 19 anni, portiere di una squadra di calcio, noto nel suo gruppo per essere sempre un paciere.

Il timore di nuove tensioni

I post emersi nelle ultime ore rischiano di avvelenare ulteriormente il clima. «Non voglio neanche ripetere il contenuto di certi messaggi – spiega la madre del ragazzo – sono offensivi, gratuiti, e danneggiano mio figlio. Non possiamo permettere che a una tragedia come questa si aggiungano nuove ingiustizie». Per questo è stata sporta una formale denuncia contro ignoti: sarà ora compito degli investigatori della polizia postale stabilire chi si nasconde dietro quegli account.

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